Capitolo XVI

DE LIBERALITATE ET PARSIMONIA1

[1] Cominciandomi adunque alle prime soprascritte2 qualità, dico come e’ sarebbe bene essere tenuto liberale. Nondimanco la liberalità, usata in modo che tu sia tenuto,3 ti offende: perché, se la si usa virtuosamente4 e come la si debbe usare, la non fia conosciuta e non ti cascherà la ’nfamia del suo contrario;5 e però,6 a volersi mantenere in fra li uomini el nome di liberale, è necessario non lasciare indreto alcuna qualità di suntuosità:7 talmente che sempre uno principe così fatto consumerà in simili opere tutte le sua facultà;8 e sarà necessitato alla fine, se si vorrà mantenere el nome di liberale, gravare e’ populi estraordinariamente9 ed essere fiscale e fare tutte quelle cose che si possono fare per avere danari; il che comincerà a farlo odioso a’ sudditi, o poco stimare da ciascuno divenendo povero.10 In modo che, con questa sua liberalità avendo offeso gli assai e premiato e’ pochi, sente ogni primo disagio e periclita in qualunque primo periculo:11 il che conoscendo lui e volendosene ritrarre, incorre subito nella infamia del misero.12 Uno principe adunque, non potendo usare questa virtù del liberale, sanza suo danno, in modo che la sia conosciuta,13 debbe, s’egli è prudente, non si curare del nome del misero; perché col tempo sarà tenuto sempre più liberale veggendo che, con la sua parsimonia, le sua entrate gli bastano, può difendersi da chi gli fa guerra, può fare imprese sanza gravare e’ populi. Talmente che viene a usare liberalità a tutti quelli a chi e’ non toglie, che sono infiniti, e miseria a tutti coloro a chi e’ non dà, che sono pochi.14

[2] Ne’ nostri tempi noi non abbiamo veduto fare gran cose se non a quelli che sono tenuti miseri; li altri, essere spenti.15 Papa Iulio II, come si fu servito del nome del liberale per aggiugnere al papato, non pensò poi a mantenerselo, per poter fare guerra. El16 re di Francia presente ha fatto tante guerre sanza porre uno dazio estraordinario a’ sua, solum perché alle superflue spese ha sumministrato la lunga parsimonia sua. El re di Spagna presente, se fussi tenuto liberale, non arebbe né fatto né vinte tante imprese. Pertanto uno principe debbe esistimare poco – per non avere a rubare e’ sudditi, per potere difendersi, per non diventare povero e contennendo, per non essere forzato di diventare rapace – di incorrere nel nome del misero: perché questo è uno di quelli vizi che lo fanno regnare.17 E se alcuno dicessi: «Cesare con la liberalità pervenne allo imperio,18 e molti altri, per essere stati ed essere tenuti liberali, sono venuti a gradi grandissimi»; rispondo: «o tu se’ principe fatto o tu se’ in via di acquistarlo». Nel primo caso questa liberalità è dannosa. Nel secondo, è bene necessario essere ed essere tenuto liberale;19 e Cesare era uno di quelli che voleva pervenire al principato di Roma: ma se, poi che vi fu pervenuto, fussi sopravvissuto e non si fussi temperato da quelle spese, arebbe destrutto quello imperio.20

[3] E se alcuno replicassi: «molti sono stati principi e con li eserciti hanno fatto gran cose, che sono stati tenuti liberalissimi»; ti rispondo: «o el principe spende del suo e de’ sua sudditi, o di quello di altri».21 Nel primo caso debbe essere parco. Nell’altro, non debbe lasciare indreto alcuna parte di liberalità. E quel principe che va con li eserciti, che si pasce di prede, di sacchi e di taglie, maneggia quello di altri, gli è necessaria questa liberalità: altrimenti non sarebbe seguito da’ soldati. E di quello che non è tuo o de’ sudditi tuoi si può essere più largo donatore, come fu Ciro, Cesare e Alessandro:22 perché lo spendere quel d’altri non ti toglie reputazione ma te ne aggiunge; solamente lo spendere el tuo è quello che ti nuoce. E non ci è cosa che consumi sé stessa quanto la liberalità,23 la quale mentre che tu usi perdi la facultà di usarla e diventi o povero e contennendo o, per fuggire la povertà, rapace e odioso. E intra tutte le cose di che uno principe si debbe guardare è lo essere contennendo e odioso:24 e la liberalità all’una e l’altra cosa ti conduce. Pertanto è più sapienza tenersi el nome del misero, che partorisce una infamia sanza odio, che, per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome del rapace, che partorisce una infamia con odio.

1 Liberalità e parsimonia.

2 Avviando il discorso dalle prime qualità dell’elenco contenuto nella chiusa del capitolo precedente.

3 «usata in modo che tu sia tenuto»: manifestata al punto da suscitare chiara fama di essere munifico.

4 In maniera corretta e non ostentata.

5 Per un verso essa non sarà troppo manifesta, sarà discreta e non palese; ma al contempo ti eviterà la nomea di avaro.

6 «però»: per hoc = perciò.

7 «non lasciare indreto alcuna qualità di suntuosità». Sovviene alla mente la favola di Belfagor arcidiavolo, costretto dalla moglie, donna Onesta Donati, a un ininterrotto sperpero del patrimonio per conservare fama di ricchezza e magnificenza. Si vedano Filippo Grazzini, Machiavelli narratore, Roma-Bari, Laterza, 1990 e Pasquale Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor. Saggio di filologia attributiva, Roma, Salerno ed., 2007.

8 «facultà»: beni e ricchezze.

9 «gravare … estraordinariamente»: vessare oltre misura.

10 Come conseguenza del suo comportamento il principe troppo liberale, e perciò impoveritosi, sarà odiato dai sudditi (gravati da un peso fiscale insostenibile) e disistimato da tutti (sudditi e non sudditi) per la scarsa cura che ha avuto dei propri beni.

11 «sente … primo disagio … periclita … primo periculo»: l’anafora «primo» e la figura etimologica «periclita […] periculo» intensificano il senso di instabile precarietà a cui è soggetto un principato nel quale l’eccessiva liberalità ha «offeso gli assai».

12 «misero»: nel senso toscano additato nel cap. precedente (n. 11). Ma qui emerge come «miseria» e «avarizia-cupidigia» siano strettamente congiunti nel pensiero machiavelliano: il principe troppo liberale non solo dovrà poi ridurre drasticamente i propri atti di ‘liberalità’, ma dovrà anche vessare i sudditi per accumulare denaro necessario alla gestione dello stato.

13 «usare … sanza suo danno, in modo che la sia conosciuta»: non la può ostentare senza danno. L’espressione «in modo che la sia conosciuta» replica anularmente «in modo che tu sia tenuto» al principio del capitolo; e parimenti iterata è poco dopo la iunctura «gravare e’ populi». L’autore mira a sottolineare con un dettato anaforico la logica stringente del suo argomentare.

14 Il tema costante nella riflessione machiavelliana intorno al comportamento soggettivo del principe è il bilancio fra il benessere dei «molti» e il danno eventualmente arrecato a «pochi». Il principe accurato nell’amministrare i propri beni farà fronte alle esigenze economiche dello stato senza vessare le popolazioni (il bene dei più) e apparirà «misero» (tirchio) solo a coloro («pochi») che avrebbe dovuto premiare con elargizioni non eseguite.

15 «essere spenti» (contro il più tenue «essersi spenti» del ramo g) indica l’annichilimento fisico, oltre che politico, dei principi troppo liberali.

16 I manoscritti del ramo y in luogo di «el re di Francia presente» leggono «al re di Francia, e ha fatto…», per cui soggetto del periodo è soltanto Giulio II e solo del papa si additerebbe la parsimonia. La lezione del ramo g appare però preferibile, perché dà luogo a un elenco di tre sovrani che ci si attende naturalmente dopo che Machiavelli ha annunciato di aver visto «ne’ nostri tempi […] fare gran cose» a quei principi «tenuti miseri». – Giorgio Inglese, nel commento 1995, addita i luoghi machiavelliani da cui emergono i giudizi sul comportamento di Giulio II (munifico solo fintanto che non raggiunse il soglio pontificio: lettera ai Dieci del 30 ottobre 1503), del parsimonioso Luigi XII (Ritracto di cose di Francia e Discursus de pace) e del «taccagno e avaro» Ferdinando il Cattolico (lettera al Vettori del 26 agosto 1513).

17 Altro tema ricorrente fin dalla chiusa del capitolo precedente (n. 20): alcuni comportamenti che sarebbero vizi in un privato, sono invece virtù per il principe. La fama di «misero» non deve essere tenuta in gran conto da un sovrano, perché essa è «uno di quelli vizi che lo fanno regnare».

18 Sulla liberalità di Caio Giulio Cesare nelle prime fasi della sua carriera politica Inglese 1995 addita come proverbiale il comportamento generoso e munifico descritto da Svetonio, Iulius 10-11. Ma è più probabile che qui Machiavelli abbia presente la biografia plutarchea di Cesare (associata, come si è detto, a quella di Alessandro: cfr. supra cap. XIV, n. 21) dove sono descritti anche i dissesti finanziari cesariani e quelli che Bertolt Brecht avrebbe definito Gli affari del signor Giulio Cesare.

19 «essere ed essere tenuto liberale»: esserlo nei fatti e averne fama; all’aspirante principe è necessario (come lo fu al cardinale Della Rovere) manifestare anche concretamente la propria generosità per conquistare consenso.

20 La conseguenza di un comportamento finanziariamente non avveduto è la catastrofe politica: non solo la perdita personale del potere, ma il crollo dello stato. – Quando Cesare divenne arbitro assoluto dei destini di Roma, l’impero (cioè il dominio di Roma) aveva già raggiunto una notevole estensione su tre continenti.

21 L’andamento è ancora una volta quello della quaestio scolastica: cfr. cap. X, n. 16 e XII, n. 18. Nell’uso della punteggiatura abbiamo scelto di segnalare il discorso diretto libero con virgolette, ma di chiuderle dopo il semplice enunciato («o […] spende del suo […] o […] di altri»), considerando altresì le spiegazioni successive come chiose chiarificatrici. Inglese sceglie di non impiegare le virgolette (appunto perché di discorso ‘libero’ si tratta), Martelli invece si vale delle virgolette, ma le chiude a fine capitolo.

22 Sono i tre principi evocati come modelli nella chiusa del cap. XIV. Le fonti che potrebbero aver indotto Machiavelli a delineare queste tre figure come generose nell’elargire bottini di guerra sono numerose e non appare agevole precisare quale testo il Segretario potesse aver presente: tuttavia il fatto in sé è certamente attestato. Sparta ricevette grandi sostegni economici da Ciro il giovane, signore della Ionia; grazie a tali ricchezze Atene fu sconfitta nelle fasi finali della guerra del Peloponneso, e per conseguenza Ciro ebbe l’opportunità di assoldare mercenari greci per la sfortunata guerra dinastica contro il fratello maggiore Artaserse. Alessandro trasformò i propri generali in altrettanti principi dei territori conquistati. La liberalità di Cesare nei confronti dei suoi veterani è poi testimoniata da numerose fonti.

23 Mario Martelli individua acutamente la fonte di questa espressione, quasi gnomica, in Cicerone De officiis 11, 15, 52: «Largitio, quae fit ex re familiari, fontem ipsum benignitatis exhaurit».

24 Cfr. infra cap. XVII e XIX.