[1] Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne’ nostri tempi2 quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà.
[2] Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni3 di combattere: l’uno, con le leggi; l’altro, con la forza.4 Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata alli principi copertamente da li antichi scrittori, e’ quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi.5 Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile.
[3] Sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione:6 perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire7 e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono. Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede quando tale osservanzia gli torni contro e che8 sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai a osservare a loro;9 né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di colorire la inosservanzia.10 Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante pace, quante promisse sono state fatte irrite11 e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire ed essere gran simulatore e dissimulatore:12 e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
[4] Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini, e sempre trovò subietto da poterlo fare:13 e non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare,14 e con maggiori iuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno;15 nondimeno sempre gli succederno gl’inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo.16
[5] A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità,17 ma è bene necessario parere di averle; anzi ardirò di dire questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono utili; come parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere:18 ma stare in modo edificato con lo animo19 che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare il contrario. E hassi a intendere questo, che uno principe e massime uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni,20 sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano;21 e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato.22
[6] Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto piatà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità.23 E li uomini in universali24 iudicano più alli occhi che alle mani;25 perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi: ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che gli difenda; e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi26 reclamare, si guarda al fine.27
[7] Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo, e’ pochi non ci hanno luogo quando gli assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, il quale non è bene nominare,28 non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto e la riputazione e lo stato.
1 Come i principi debbano rispettare i patti.
2 «per esperienza ne’ nostri tempi»: Machiavelli insiste più volte, nel corso del trattato, sulla particolare gravità della condizione politica presente. Tali affermazioni saranno coronate, nel cap. XXV, dall’idea che la fortuna sia potuta apparire dominatrice incontrastata dei destini umani proprio in considerazione dei radicali sconvolgimenti storici avvenuti nell’arco di pochi anni.
3 «generazioni»: tipologie. La classificazione per ‘genere e specie’ è tipica della logica di impianto aristotelico, che – si è visto – in più luoghi connota il ragionamento machiavelliano. L’impiego del vocabolo «generazioni» in analogo significato ricorre infra nella chiusa del cap. XXII. Inoltre il plurale latino genera è nei titoli dei capp. I e XII.
4 Machiavelli ha presente quasi verbalmente Cicerone, De officiis I, 11, 34. Ma vedi qui l’Introduzione.
5 L’immagine del principe centauro è divenuta topica nella trattatistica politica di ispirazione machiavelliana e ha goduto di straordinaria fortuna letteraria e critica. L’impiego del verbo «nutrire» nel senso di ‘allevare ed educare’ ricalca Dante, Inferno XII, 70-71, e dai commenti alla Commedia, oltre che da Boccaccio, Machiavelli può aver mutuato l’idea della commistione politica tra ferocia animalesca e umana civiltà. Ma la metafora godeva di fortuna già presso Senofonte, Cyropaedia IV, 3, 17-23, come segnala Raimondi additando appunto uno scritto senofonteo che Machiavelli ha espressamente manifestato di conoscere nella chiusa del cap. XIV (di Raimondi si veda Politica e commedia. Il centauro disarmato, Bologna, Il Mulino, 1998). – Particolarmente significativa appare l’idea che gli «antichi scrittori» esprimessero certi insegnamenti «copertamente» ossia, più in generale, che il mito nasconda una verità allegorica: a tal proposito Raimondi rinvia al corpus favolistico esopiano di Abstemius (De leone a vulpe edocto ut possit a vinculis exire e De leone partem praedae a lupo petente). Favolistica e paroemiologia sono ben presenti a Machiavelli in questa seconda parte del Principe e contribuiscono in maniera determinante all’efficacia del dettato.
6 Le immagini della volpe e del leone come emblemi dell’astuzia e della forza godono di estesa tradizione favolistica letteraria (soprattutto Inglese 1995 addita Dante, Inferno XXVII, 74-75): ma la presenza di tale immagine nel De officiis ciceroniano (I, 13, 41) a breve distanza dal passo parafrasato da Machiavelli all’inizio del presente capitolo, seppure in contesto significativamente diverso, rende l’identificazione della fonte sicura, come sicura è la manipolazione machiavelliana operata sul proprio modello. Martelli ha inteso vedere in tale accostamento di due immagini ciceroniane, originariamente autonome, un’aporia: poiché Machiavelli, nel riferirsi alla «bestia», attribuisce a tale aspetto dell’umano agire il connotato dell’astuzia volpina, oltre a quello della ferocia leonina. Tuttavia tale assunto è in linea con le dichiarazioni esposte in apertura del capitolo, ossia che i principi «che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini» hanno ottenuto successo. Dunque per lo statista fiorentino la spregiudicatezza fraudolenta è altrettanto ferina e animalesca quanto la forza bruta, ed entrambe afferiscono all’ambito del «combattere con la forza» e non «con le leggi».
7 «sbigottire»: incutere soggezione. Machiavelli più che all’esercizio concreto della forza pensa all’efficacia della soggezione che sulla forza si fondi.
8 «che»: allorché.
9 L’autore insiste sul concetto che il mancato rispetto dei patti da parte di un sovrano non sia censurabile perché gli uomini «sono tristi». Cfr. supra cap. XV, n. 17 e cap. XVII, n. 13.
10 «cagioni legittime di colorire la inosservanzia»: pretesti validi per giustificare la rottura dei patti. Anche in questo caso Machiavelli cala nella sua contemporaneità un precetto storiografico tradizionale (tucidideo e polibiano) volto a distinguere le cause profonde e reali di un determinato comportamento politico, dai pretesti prossimi addotti dalle parti in causa.
11 «irrite»: avverbio latino = pronunciate in mancanza di un requisito formale necessario ad substantiam. è tecnicismo giuridico, probabilmente derivato al cancelliere Machiavelli dal lessico canonistico. Nell’impiego dell’avverbio è sottesa una sottile ironia, che prepara il successivo tema del «bene colorire», da parte del principe, le proprie inadempienze: l’infedeltà dei principi ha reso vani trattati e promesse ricorrendo a pretestuosi appigli formali.
12 L’autore insiste sulla necessità di «bene colorire» e di essere «simulatore e dissimulatore». Cfr. supra cap. XVII, n. 13, dove la coppia «simulatori e dissimulatori» connotava non il principe ma gli uomini in generale volti al male. Qui invece i popoli sono detti «semplici» (ingenui) e tesi al soddisfacimento delle esigenze contingenti, e perciò facilmente manipolabili da un principe scaltro.
13 «trovò subietto da poterlo fare»: trovò argomento e materia per riuscirvi.
14 «maggiore efficacia in asseverare»: maggiore credibilità nell’affermare qualcosa.
15 «che la osservassi meno»: e che poi la rispettasse di meno (congiunto all’elemento precedente per asindeto).
16 «sempre gli succederno … conosceva bene questa parte del mondo»: ebbe successo nel tessere i suoi inganni perché conosceva bene questo aspetto della natura umana.
17 «tutte le soprascritte qualità»: tutte le qualità positive elencate nella chiusa del cap. XV.
18 «come parere … ed essere»: come, ad esempio, sembrare … e perfino esserlo davvero. Il brachilogico «ed essere» si accoppia con il successivo «bisognando non essere».
19 «edificato con lo animo»: predisposto a far fronte a una precisa esigenza. Torna l’impiego metaforico del lessico edilizio che si era visto nella chiusa del cap. II.
20 «non può osservare tutte … sono chiamati buoni»: Machiavelli insiste ancora sul differente giudizio assiologico che presiede alle azioni di un principe e di un privato. Cfr. supra, cap. XV, n. 20 e cap. XVI, n. 17.
21 «volgersi secondo che e’ venti … gli comandano»: modificare il proprio comportamento e le scelte politiche secondo l’andamento della fortuna e il continuo mutare delle vicende. Il tema tornerà organicamente nel cap. XXV.
22 «non partirsi … ma sapere entrare … necessitato»: non allontanarsi dal bene, ma saper ricorrere al male, qualora costrettovi.
23 Sul ruolo della religione come instrumentum regni, che nel Principe è affrontato solo marginalmente e per lo più nella dimensione del dominio che il principe deve possedere del proprio ‘apparire’, si veda il cap. XI e Discorsi I, 11-15.
24 «in universali»: in generale.
25 Si tratta di un tema piuttosto diffuso nella trattatistica antica: il primato del tatto è affermato per esempio da Aristotele nel De anima, mentre lo stesso Aristotele al principio della Metafisica si schiera dalla parte della vista. Qui Machiavelli oppone le apparenze (percepibili con la vista) all’esperienza diretta (percepita attraverso il tatto): ma tale opposizione si colora di una valenza politica allorché il Segretario sottolinea come molti vedano, ma solo pochi vicini al potere toccano con mano lo svolgersi degli eventi e i comportamenti del principe. Cfr. sul tema F. Bausi, Politica e poesia. Ancora sulla cultura di Machiavelli, «Intersezioni», 23, 2002, pp. 377-393, in specie pp. 382-383 riferito da Martelli 2006, pp. 492-494. Per una bibliografia filosofica si veda Silvia Parigi, Teoria e storia del problema di Molyneux, «Laboratorio dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno», 1, 2004.
26 «iudizio a chi»: tribunale al quale. Iudicium nel senso materiale di ‘tribunale’ è proprio del latino giuridico. La lezione «a chi» è tramandata dalla famiglia g contro la banalizzazione degli altri testimoni «iudizio da reclamare», dove la parola «iudizio» perde il connotato tecnico per stemperarsi nel facile ‘giudizio’.
27 «si guarda al fine». L’espressione è ripresa e chiosata dalla conclusione del capitolo. Nelle azioni di un sovrano importa tener conto dell’obiettivo raggiunto, dell’«evento della cosa», cioè del risultato concretamente perseguito. Se tale obiettivo viene raggiunto e salvaguarda il benessere dei più (e l’obiettivo è dunque «vincere e mantenere lo stato»), i «mezzi» impiegati saranno sempre lodati da tutti. Giustamente Inglese rinvia alla lettera machiavelliana ai Dieci del 28 ottobre 1503, dove il cardinale Riario afferma che gli uomini «guardavano più al fine che alli mezzi». È opportuno sottolineare che il «fine» qui prospettato non è un generico obiettivo dell’azione politica, ma è l’effetto già raggiunto, il traguardo già conseguito; inoltre Machiavelli sottolinea la valenza sociale del proprio teorema nel contrapporre nuovamente il «vulgo» incapace di previsione politica ai «pochi» che non si lasciano ingannare dalle apparenze, ma che restano travolti quando non abbiano un adeguato sostegno politico (cfr. cap. IX, n. 16).
28 «Alcuno principe … il quale non è bene nominare». Alla tradizionale identificazione di questo principe con Ferdinando il Cattolico si oppone, con fondate ragioni, Martelli (Note su Machiavelli, «Interpres», 18, 1999, pp. 91-145, in specie pp. 110-129, e Martelli 2006, p. 242, n. 36), in primo luogo perché Machiavelli altrove addita (nel cap. XXI) Ferdinando il Cattolico senza troppe cerimonie. Non del tutto persuasiva la prima alternativa proposta da Martelli, ossia l’identificazione dell’«innominato machiavelliano» con papa Leone X, perché l’autolesionismo di un simile accenno sarebbe eccessivo perfino per Machiavelli. Piuttosto Martelli giustamente rileva la voluta genericità di questo riferimento: Machiavelli preferisce «concludere il capitolo con un’immagine incaricata di aver più il valore di un enigmatico emblema». Rafforzerebbe questa impressione la possibilità che il singolare «alcuno principe» sia generico e stia qui in luogo di un plurale che intenda ricomprendere non uno, ma diversi principi spregiudicati incontrati dal Segretario fiorentino negli anni della sua prassi politica. E tuttavia alcune osservazioni potrebbero indurre a proporre un altro sovrano, protagonista della scena italiana pochi anni prima rispetto al periodo di attività pubblica del Machiavelli, come «inimicissimo di pace e fede». L’annus horribilis della storia moderna italiana fu il 1494, con la scorreria di Carlo VIII: Machiavelli, che al tempo aveva venticinque anni, vi fa spesso riferimento nel corso del Principe, e sulla medesima linea interpretativa si collocarono più tardi Guicciardini e Paolo Giovio. Proprio Paolo Giovio, incontrando a Firenze il giovane Camillo Porzio, si rammaricava che «per mancamento e trascuraggine degli scrittori, egli non avea potuto in cotanti anni ridurre alla memoria degli uomini uno de’ primi fondamenti delle guerre che seguirono nel ’94: ciò era la congiura del Principe di Salerno e del Conte di Sarno contra Ferdinando I [d’Aragona]; per la quale, fatto il Principe fuoruscito e privo dello stato, si ricoverò da’ Francesi, e persuase il re Carlo VIII a fare l’impresa del Regno; dalla cui passata egli [Giovio] tirava il filo della sua istoria» (cfr. Camillo Porzio, La congiura de’ baroni del regno di Napoli contra il re Ferdinando I e altri scritti, a cura di Ernesto Pontieri, seconda ed. riveduta, Napoli, ESI, 1964, pp. 5-6). In occasione di quella famigerata vicenda del 1485-86 (Machiavelli era diciassettenne), Ferdinando d’Aragona (re Ferrante) dette prova di saper bene quando promettere e quando mantenere dacché, stipulata una pace con papa Innocenzo VIII, che prevedeva l’amnistia per i baroni congiurati, fece poi imprigionare e giustiziare i principali responsabili della sedizione, cominciando proprio dal conte di Sarno, che attirò in trappola addirittura con la promessa di un matrimonio regale che lo apparentasse al sovrano, facendolo poi arrestare durante la cerimonia. Se Ferdinando d’Aragona, per il suo comportamento e per le conseguenze catastrofiche che quegli episodi rivestirono nella storia nazionale, si attaglia bene al ritrattino enigmatico tracciato da Machiavelli, resta da dire per quali cautele il Segretario fiorentino preferisse una censura onomastica. Le ragioni sono molteplici: in primo luogo l’alleanza (e dovremmo dire di più, la vera e propria amicizia) che legò la Firenze medicea di Lorenzo il Magnifico alla Napoli di Ferrante; la presenza tra Francia e Italia (Ferrara) di Isabella Del Balzo, vedova di Federico ultimo re d’Aragona; la singolare figura di Ferdinando d’Aragona ultimo duca di Calabria, ospite-ostaggio alla corte di Ferdinando il Cattolico fino a quando, nel 1526, non sposò la vedova di Ferdinando (Germana), rinunciando definitivamente alle proprie pretese dinastiche sul Regno di Napoli. Come si vede, un intreccio di delicati equilibri che ben potevano suggerire un più cauto riferimento a chi – come sappiamo – faticosamente cercava di farsi «adoperare» dai Medici in qualche cosa (così al Vettori il 13 marzo 1513).