Capitolo XX

AN ARCES ET MULTA ALIA,
QUAE QUOTIDIE A PRINCIPIBUS FIUNT,
UTILIA AN INUTILIA SINT
1

[1] Alcuni principi per tenere sicuramente lo stato hanno disarmati e’ loro sudditi; alcuni hanno tenuto divise2 le terre subiette. Alcuni hanno nutrito inimicizie contro a sé medesimi; alcuni altri si sono volti a guadagnarsi quelli che gli erano suspetti nel principio del suo stato. Alcuni hanno edificato fortezze; alcuni le hanno ruinate e destrutte. E benché di tutte queste cose non si possa dare determinata sentenza, se non si viene a’ particulari di quegli stati3 dove si avessi a pigliare alcuna simile deliberazione, nondimanco io parlerò in quello modo largo che la materia per sé medesima sopporta.4

[2] Non fu mai adunque che uno principe nuovo disarmassi e’ suoi sudditi: anzi, quando gli ha trovati disarmati, sempre gli ha armati;5 perché, armandosi, quelle arme diventano tua, diventano fedeli quelli che ti sono sospetti, e quelli che erano fedeli si mantengono, e di sudditi si fanno tua partigiani. E perché tutti e’ sudditi non si possono armare, quando si benificano quegli che tu armi, con gli altri si può fare più a sicurtà:6 e quella diversità del procedere, che conoscono in loro, gli fa tua obligati; quelli altri ti scusano, iudicando essere necessario quegli avere7 più merito che hanno più periculo e più obligo. Ma quando tu gli disarmi, tu cominci a offendergli: mostri che tu abbi in loro diffidenzia, o per viltà o per poca fede,8 e l’una e l’altra di queste opinioni concepe9 odio contro di te; e perché tu non puoi stare disarmato, conviene ti volti alla milizia mercennaria, la quale è di quella qualità che di sopra10 è detto: e quando la fussi buona, non può essere tanta che ti difenda da nimici potenti e da sudditi sospetti. Però, come io ho detto, uno principe nuovo, in uno principato nuovo, sempre vi ha ordinato l’arme: di questi esempli ne sono piene le istorie.11 Ma quando uno principe acquista uno stato nuovo, che come membro si aggiunga al suo vecchio,12 allora è necessario disarmare quello stato, eccetto quegli che nello acquistarlo sono suti tua partigiani: e quegli ancora col tempo e con le occasioni è necessario renderli molli ed effeminati, e ordinarsi in modo che solo le arme di tutto il tuo stato sieno in quelli tuoi soldati propri che nello stato tuo antico vivèno appresso di te.13

[3] Solevano li antichi nostri, e quelli che erano stimati savi, dire come era necessario tenere Pistoia con le parte e Pisa con le fortezze;14 e per questo nutrivano in qualche terra loro suddita le differenzie,15 per possederle più facilmente. Questo, in quelli tempi che Italia era in uno certo modo bilanciata,16 doveva essere bene fatto: ma non credo già che si possa dare oggi per precetto; perché io non credo che le divisioni facessino mai bene alcuno: anzi è necessario, quando el nimico si accosta, che le città divise si perdino subito, perché sempre la parte più debole si aderirà alle forze esterne17 e l’altra non potrà reggere.

[4] Viniziani, mossi come io credo da le ragioni soprascritte, nutrivano le sette guelfe e ghibelline nelle città loro suddite; e benché non li lasciassino mai venire al sangue, tamen nutrivano tra loro questi dispareri acciò che, occupati quelli cittadini in quelle loro differenzie, non si unissino contro di loro. Il che, come si vide, non tornò loro poi a proposito: perché, sendo rotti a Vailà, subito una parte di quelle prese ardire e tolsono loro tutto lo stato.18 Arguiscono19 pertanto simili modi debolezza del principe, perché in uno principato gagliardo mai si permetteranno simili divisioni: perché le fanno solo profitto a tempo di pace, potendosi mediante quelle più facilmente maneggiare e’ sudditi, ma, venendo la guerra, mostra simile ordine la fallacia sua.

[5] Sanza dubio e’ principi diventano grandi quando superano le difficultà e le opposizioni che sono fatte loro; e però la fortuna, massime quando vuole fare grande uno principe nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione che uno ereditario, gli fa nascere de’ nimici e fagli fare20 delle imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle e, su per quella scala che gli hanno porta li inimici suoi, salire più alto.21 Però molti iudicano che uno principe savio debbe, quando e’ ne abbia la occasione, nutrirsi con astuzia22 qualche inimicizia, acciò che, oppressa quella, ne seguiti maggior sua grandezza.

[6] Hanno e’ principi, et praesertim23 quegli che sono nuovi, trovata più fede e più utilità in quelli uomini che nel principio del loro stato sono suti tenuti sospetti, che in quelli che erano nel principio confidenti. Pandolfo Petrucci, principe di Siena, reggeva lo stato suo più con quelli che gli furno sospetti che con li altri. Ma di questa cosa non si può parlare largamente,24 perché la varia secondo il subietto; solo dirò questo, che quelli uomini che nel principio d’uno principato sono stati inimici, che sono di qualità che a mantenersi abbino bisogno di appoggiarsi,25 sempre el principe con facilità grandissima se gli potrà guadagnare: e loro maggiormente sono forzati a servirlo con fede, quanto conoscono essere loro più necessario cancellare con le opere quella opinione sinistra che si aveva di loro. E così el principe ne trae sempre più utilità, che di coloro che, servendolo con troppa sicurtà, straccurano le cose sua.26

[7] E poiché la materia lo ricerca, non voglio lasciare indreto ricordare alli principi che hanno preso uno stato di nuovo, mediante e’ favori intrinseci27 di quello, che considerino bene qual cagione abbi mosso quegli che lo hanno favorito a favorirlo. E se la non è affezione naturale verso di loro,28 ma fussi solo perché quelli non si contentavano di quello stato, con fatica e difficultà grande se gli potrà mantenere amici: perché e’ fia impossibile che lui possa contentargli.29 E discorrendo bene, con quelli esempli che da le cose antiche e moderne si traggono, la cagione di questo, vedrà essergli molto più facile guadagnarsi amici quegli uomini che dello stato innanzi si contentavano, e però erano sua inimici, che quegli che, per non se ne contentare, gli diventorno amici e favorironlo30 a occuparlo.

[8] È suta consuetudine de’ principi, per potere tenere più sicuramente lo stato loro, edificare fortezze che sieno la briglia e il freno di quelli che disegnassino fare loro contro, e avere uno refugio sicuro da uno sùbito impeto.31 Io laudo questo modo perché e’ gli è usitato ab antiquo:32 nondimanco messer Niccolò Vitelli,33 ne’ tempi nostri, si è visto disfare34 dua fortezze in Città di Castello per tenere quello stato; Guido Ubaldo duca di Urbino, ritornato nella sua dominazione, donde da Cesare Borgia era suto cacciato,35 ruinò funditus36 tutte le fortezze di quella sua provincia e iudicò sanza quelle più difficilmente riperdere quello stato; Bentivogli,37 ritornati in Bologna, usorno simili termini. Sono dunque le fortezze utili, o no, secondo e’ tempi: e, se le ti fanno bene in una parte, ti offendono in una altra. E puossi discorrere questa parte così:38 che quel principe che ha più paura de’ populi che de’ forestieri, debbe fare le fortezze; ma quello che ha più paura de’ forestieri che de’ populi, debbe lasciarle indreto. Alla casa Sforzesca ha fatto e farà più guerra el castello di Milano, che vi edificò Francesco Sforza, che veruno altro disordine di quello stato:39 però la migliore fortezza che sia è non essere odiato dal populo; perché, ancora che tu abbi le fortezze e il populo ti abbia in odio, le non ti salvano; perché e’ non mancano mai a’ populi, preso che gli hanno l’arme, forestieri che gli soccorrino.40 Ne’ tempi nostri non si vede che quelle abbino profittato ad alcuno principe, se non alla contessa di Furlì,41 quando fu morto il conte Ieronimo suo consorte: perché mediante quella possé fuggire l’impeto populare e aspettare il soccorso da Milano e recuperare lo stato; ed e’ tempi stavano allora in modo che il forestiere non poteva soccorrere il populo. Ma di poi valsono ancora a lei poco le fortezze, quando Cesare Borgia l’assaltò e che il populo, suo inimico, si coniunse col forestiere.42 Pertanto allora e prima sarebbe suto più sicuro a lei non essere odiata dal populo, che avere le fortezze. Considerato adunque tutte queste cose, io lauderò chi farà le fortezze e chi non le farà; e biasimerò qualunque, fidandosi delle fortezze, stimerà poco essere odiato da’ populi.

1 Se le roccaforti e molte altre difese che i principi ogni giorno apprestano siano utili o inutili.

2 «tenuto divise»: il precetto divide et impera.

3 «particulari di quegli stati»: condizioni specifiche dei singoli stati.

4 Si avverte da parte del ‘tecnico’ dell’amministrazione – tale Machiavelli è in virtù della propria esperienza concreta, piuttosto che non teorico delle forme di governo – il fastidio di dover discutere «in modo largo», cioè generico.

5 «gli ha armati»: li ha ordinati in esercito cittadino.

6 In forte connessione con il capitolo precedente Machiavelli va implicitamente suggerendo una soluzione al problema di stabilità istituzionale prospettato nell’analisi del basso impero sopra proposta: allorché siano inquadrati militarmente alcuni sudditi di una provincia occupata, quelli divenuti tuoi soldati ne ricaveranno un beneficio diretto (il soldo e gli altri privilegi connessi alla posizione militare), gli altri potranno essere trattati con minori riguardi. In sostanza il territorio risulterà presidiato da un gruppo militare costituito evidentemente dalla parte più fedele al principe, scelta tra la medesima popolazione.

7 «iudicando essere necessario quegli avere»: costrutto infinitivo ‘ritenendo sia necessario che abbiano maggior merito coloro che…’.

8 «o per viltà o per poca fede»: viltà e poca fede dei popoli, non dei principi (come vollero Osimo e Russo).

9 «queste opinioni»: l’offesa per il vedersi considerati vili o infedeli. – «concepe»: suscita.

10 «di sopra»: cap. XII.

11 Machiavelli non adduce alcuno degli esempi di cui sarebbero «piene le istorie», ma effettivamente non mancano nei libri liviani cenni al progressivo arruolamento di contingenti di auxilia nei territori via via occupati da Roma, soprattutto dopo la guerra sociale del 98-90 a.C.; tuttavia è da rilevare che tale modello risultò efficace solo fin tanto che lo stato godette di una sostanziale e indipendente stabilità politico-istituzionale. Altresì, e Machiavelli lo ricorda espressamente al termine del cap. XIII (n. 29), la coscrizione dei Goti nelle legioni a guardia dei confini determinò invece il crollo militare dell’impero. Non si esiterebbe a pensare che l’assenza qui (dopo tutto ciò che è stato detto nel cap. XIX) di un esempio esplicito sia determinata dalla volontà di evitare contraddizione in adiecto (cfr. la successiva n. 13).

12 Per l’espressione cfr. cap. III, n. 2.

13 Il ragionamento risente ancora dell’influenza esercitata dall’esemplificazione storica offerta nel cap. XIX: la maggior sicurezza per lo stato è che le milizie siano composte da cittadini a pieno titolo, cioè dai soli sudditi originari del principe, non dalle popolazioni assoggettate: un legame diretto espresso attraverso l’anafora del pronome di seconda persona: «il tuo stato […] in quelli tuoi soldati […] nello stato tuo antico […] appresso di te».

14 Pistoia per mezzo delle sue interne divisioni in fazioni e Pisa con le roccaforti: cfr. cap. XVII, n. 5.

15 «nutrivano … le differenzie»: mantenevano viva la discordia civile.

16 «in uno certo modo bilanciata»: è la politica degli equilibri condotta efficacemente da Lorenzo il Magnifico.

17 «la parte più debole si aderirà alle forze esterne»: la complessa analisi politica prevede una congiunta considerazione dei profili di politica interna (dialettica sociale nei territori assoggettati) e di politica estera (rapporti delle città suddite con le forze d’invasione). Il percorso machiavelliano sarà chiarito dal successivo esempio di Venezia. Cfr. cap. XII, nn. 28-30.

18 Propongo una parafrasi: ‘I Veneziani, indotti dalle ragioni ora proposte, fomentavano nelle città dominate le fazioni popolare («guelfi») e nobiliare («ghibellini», filoimperiali). Sebbene non consentissero loro («li»: i «cittadini» menzionati subito dopo) di arrivare al conflitto armato, tuttavia mantenevano quella disunione affinché i popoli assoggettati non si ribellassero al dominio di Venezia. E questo non giovò loro perché, sconfitti nella battaglia di Agnadello, «una parte di quelle» prese coraggio e sottrasse loro «tutto lo stato»’. – «Una parte di quelle» può indicare sia una delle due fazioni (e nel caso specifico quella ghibellina e nobiliare, restando invece fedeli a Venezia i ceti meno abbienti) sia ‘una parte delle città suddite in terraferma’; e probabilmente l’obiettivo è di indicare entrambi i concetti, ora dal punto di vista della politica interna (conflitto di classe nei territori dominati) ora dal punto di vista della politica estera (rapporti di Venezia, in stato di guerra, con le città soggette). A consolidare tale duplice profilo è la glossa esplicativa incuneatasi nel manoscritto A, dove il copista, stupito per l’enfatico «tolsono loro tutto lo stato» volle aggiungere l’epesegetico «di Lombardia»: in verità dello ‘stato di terraferma’ (cioè dei territori occupati perduti da Venezia dopo la catastrofe militare di Agnadello), gli unici a non essere presto recuperati dalla dominante furono proprio alcune città lombarde, come Brescia tradizionalmente filoimperiale. Cfr. Ruggiero 2005, pp. 487-490 e 2007, p. 270.

19 «Arguiscono»: dimostrano.

20 «fagli fare»: induce a muovere contro di lui.

21 Il ruolo della «fortuna» nell’offrire l’«occasione» a un principe virtuoso per manifestare la propria grandezza era già in cap. VI, nn. 10-11 e 13-16.

22 «con astuzia»: badando di essere sempre in grado di reprimerla, come l’autore dirà subito dopo.

23 «et praesertim»: e soprattutto.

24 «largamente»: diffusamente, qui largo indica ‘a lungo’, con ampiezza d’argomenti, mentre al principio del capitolo «quello modo largo» indicava ‘in modo generico’ (cfr. n. 4). – Pandolfo Petrucci, principe ‘civile’ di Siena dal 1487 al 1512 (ma soprattutto a partire dal 1500, quando fece uccidere il suocero Niccolò Borghesi), dovette abbandonare la città nel 1503 e riparare a Lucca per sfuggire al Valentino; ma vi tornò ben presto e ancora nel luglio 1505 Machiavelli, in legazione a Siena, lo descrive come un politico abile e spregiudicato.

25 «che sono di qualità … di appoggiarsi»: la proposizione relativa indica una limitazione. Potranno essere acquisiti facilmente e con relativa sicurezza quegli avversari che hanno comunque bisogno di appoggi, non ‘tutti’ coloro che da principio si mostrarono avversi al nuovo regime.

26 «servendolo con troppa sicurtà, straccurano le cose sua»: confidando troppo nella posizione di acquisito prestigio, finiscono con il trascurare gli interessi del principe.

27 «e’ favori intrinseci»: l’appoggio di cittadini interni allo stato di nuova conquista.

28 «verso di loro»: verso i nuovi principi (plurale generico).

29 Cfr. cap. III, n. 6.

30 Si noti l’insistenza: «favori […] favorito a favorirlo […] contentargli […] contentavano […] contentare […] favorironlo».

31 Machiavelli introduce in successione due profili: uno interno «quelli che disegnassino fare loro contro» e uno esterno «e avere uno refugio sicuro da uno sùbito impeto» (= e <pertanto> trovarsi ad avere un riparo difensivo da un’improvvisa aggressione esterna: il valore dell’infinito «avere» è completivo e appare assai sfumato tra il consecutivo e il finale).

32 «usitato ab antiquo»: continuamente impiegato fin dai tempi più antichi.

33 Niccolò Vitelli (1414-86) è il padre dei più volte ricordati Paolo e Vitellozzo. Principe ‘civile’ della sua patria, Città di Castello, fu a lungo sostenuto da Lorenzo il Magnifico, anche contro papa Sisto IV.

34 «si è visto disfare»: è stato visto distruggere.

35 Cfr. cap. VII, n. 13.

36 «funditus»: completamente. – «riperdere»: perdere nuovamente. La successione degli eventi fu alquanto complessa: nel giugno 1502 il Valentino si impadronì del ducato di Urbino, nell’ottobre Guidubaldo cercò di approfittare della congiura contro il Borgia orchestrata alla Magione (cfr. cap. VII, n. 16) per rientrare in possesso del suo stato, e in novembre fece appunto abbattere le fortezze (concentrando gli sforzi difensivi a San Leo e Urbino), ma fu definitivamente scacciato (e dovette riparare a Venezia) nel dicembre 1502. Infine riuscì a ritornare a Urbino solo nell’agosto 1503.

37 Cfr. cap. XI, n. 27, cap. XIX, n. 31 e cap. XXV, n. 31.

38 «E puossi discorrere … così»: se proprio occorre trovare una regola generale, si può procedere in tal modo.

39 In Discorsi II, 24 Machiavelli spiega esplicitamente come la costruzione del castello sforzesco a Milano (1450-72) rese gli Sforza troppo sicuri del proprio dominio, arroganti e perciò odiati dai sudditi, senza il cui appoggio non poterono resistere ai Francesi. A meno che non si voglia pensare che tale analisi fosse opinio communis (il che dalle fonti non risulta), il dettato del Principe appare fortemente ellittico: anche per tale ragione si è preferito interpungere con i due-punti dopo «stato» e non col punto-fermo (come Inglese e Martelli), dal momento che la proposizione che segue, aperta dal causale «però» (per hoc) è necessario chiarimento dell’assunto apodittico relativo al castello milanese.

40 «perché e’ non mancano mai … forestieri che gli soccorrino»: l’integrazione politica non riguarda più il contingente esempio sforzesco, ma si riferisce a quanto accennato supra, n. 18.

41 Caterina Sforza, vedova di Girolamo Riario. Era implicitamente ricordata nel cap. VII, cfr. n. 7.

42 Girolamo Riario, odiato per l’eccessivo aggravio fiscale, fu ucciso dai forlivesi nel 1488 (cfr. Discorsi III, 6 e Istorie fiorentine VIII, 34): Caterina resisté nella rocca di Ravaldino fino all’arrivo dell’esercito milanese. Perse poi lo stato il 19 dicembre 1499 sotto l’assalto del Valentino, e dopo la ribellione dei sudditi (Machiavelli aveva svolto una legazione a Forlì nell’estate 1499 e in Arte della guerra VII addita i difetti tecnici della rocca). Dopo la prigionia a Roma, Caterina si ritirò a Firenze.