[1] Sogliono el più delle volte coloro che desiderano acquistare grazia appresso uno principe farsegli incontro con quelle cose che in fra le loro abbino più care o delle quali vegghino lui più dilettarsi; donde si vede molte volte essere loro presentati cavagli, arme, drappi d’oro, prete preziose e simili ornamenti degni della grandezza di quelli.2 Desiderando io adunque offerirmi alla vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato,3 in tra la mia supellettile,4 cosa quale io abbia più cara o tanto esistimi quanto la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche;5 le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate, e ora in uno piccolo volume ridotte,6 mando alla Magnificenzia vostra. E benché io iudichi questa opera indegna della presenza di quella, tamen confido assai che per sua umanità gli debba essere accetta,7 considerato come da me non gli possa essere fatto maggiore dono che darle facultà a potere in brevissimo tempo intendere tutto quello che io, in tanti anni e con tanti mia disagi e periculi, ho conosciuto e inteso.
[2] La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample o di parole ampullose e magnifiche o di qualunque altro lenocinio e ornamento estrinseco, con e’ quali molti sogliono le loro cose descrivere e ordinare, perché io ho voluto o che veruna cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata.8 Né voglio sia imputata prosunzione se uno uomo di basso e infimo stato ardisce discorrere e regolare e’ governi de’ principi; perché così come coloro che disegnano e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti e, per considerare quella de’ luoghi bassi, si pongono alto sopr’a’ monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e, a conoscere bene quella de’ principi, conviene essere populare.9
[3] Pigli adunque vostra Magnificenzia questo piccolo dono con quello animo che io ’l mando; il quale se da quella fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro uno estremo mio desiderio che lei10 pervenga a quella grandezza che la fortuna e l’altre sua qualità le promettono.
[4] E se vostra Magnificenzia da lo apice della sua altezza qualche volta volgerà li occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna.11
1 Niccolò Machiavelli saluta il Magnifico Lorenzo de’ Medici il giovane. In dativo figura l’apostrofe epistolare nel Gothano e nel Monacense; ad Magnificum Laurentium Medicem nel ramo y; in italiano nel ms. P e nelle edizioni Bladiana e Giuntina. Ma quel che più importa è la presenza del nome di Lorenzo di Piero, in luogo di quello di Giuliano, al quale il trattato avrebbe dovuto essere indirizzato secondo quanto progettato nella lettera al Vettori del 10 dicembre 1513. Giuliano, di complessione alquanto debole come attestano i documenti relativi al periodo 1512-16, mancò il 17 marzo 1516, e Machiavelli, che doveva scrivere a un «principe» ben vivo affinché le sue pagine fossero di qualche utilità, ne sostituì il nome con quello del nipote Lorenzo. L’attributo di «magnifico», in luogo di «eccellente», ripetuto poi nel corso della dedicatoria, ha fatto pensare a Roberto Ridolfi e altri che l’apostrofe non fosse successiva al settembre 1516, perché dopo l’8 ottobre di quell’anno Lorenzo fu insignito del ducato di Urbino e del correlativo titolo di «eccellenza». La debolezza di tale argomento è additata da Mario Martelli nell’edizione nazionale: tuttavia sarebbe di maggiore interesse poter stabilire se Machiavelli si limitasse a sostituire il nome del dedicatario, lasciando immutato il testo epistolare, o riscrivesse nel 1516 una nuova dedicatoria.
2 «acquistare grazia appresso uno principe» è dunque l’esplicito intento perseguito dall’autore. La menzione di cavalli, armi, drappi d’oro, pietre preziose, etc. richiama alla mente l’aneddoto riccardiano (B.R.F. 785, c. 56r) – riconosciuto come senz’altro apocrifo nella seconda parte, e comunque erroneamente riferito a un Piero de’ Medici – secondo il quale il dedicatario del Principe avrebbe mostrato maggiore gratitudine al donatore di una coppia di cani piuttosto che a Niccolò. In sostanza, non abbiamo alcuna prova che Machiavelli abbia mai presentato il suo opuscolo a Lorenzo.
3 In luogo di ho trovato, presente in tutti gli altri manoscritti, nonché nelle edizioni a stampa Bladiana e Giuntina, il ms. conservato a Carpentras (A) reca la lezione trovando, accolta da Martelli nel testo dell’edizione nazionale. La lezione tràdita da tutti i manoscritti contro A sopperisce il necessario verbo reggente all’intero periodo, e consente l’interpunzione forte dopo la «continua lezione delle antiche»; prima di avviare un nuovo periodo: «Le quali avendo io con gran diligenzia…». Martelli ritiene altresì che la costruzione priva di reggente non solo non sia anomala in Machiavelli (a suo dire segnato da una «congerie di sconcordanze»), ma non sia neppure solecistica, rientrando nella categoria della «paraipotassi relativa», studiata da Ghino Ghinassi nel 1971 (Casi di ‘paraipotassi relativa’ in italiano antico, «Studi di grammatica italiana», 1, 1971, pp. 45-60). Su questi aspetti cfr. qui la Nota al testo.
4 «supellettile» è calco dalla voce latina e tecnicamente propria del lessico giuridico supellex: «un corredo del padre di famiglia, costituito di cose destinate all’uso quotidiano […]. Non meraviglia che la sua denominazione abbia subito un mutamento, in rapporto ai costumi della città e all’uso degli oggetti» (così Mario Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari, Laterza, 200817, p. 319; e dello stesso vedi I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura, ivi, 20014, pp. 14 e 177-178).
5 Emergono alcuni concetti fondamentali della dottrina storiografica classica e della mentalità machiavelliana: a essere degne di memoria, degne di essere tramandate alla posterità come oggetto di una storiografia intesa quale fondamento della pedagogia politica, sono le «azioni delli uomini grandi», ossia i fatti più importanti, più rilevanti nel quadro degli accadimenti di uno stato. Tali azioni sono conoscibili attraverso due fonti: l’autopsia, la conoscenza diretta di quei fatti, e dunque la «lunga esperienza delle cose moderne», e l’interpretazione storica che discende dalla consuetudine con lo studio della storia antica, la «continua lezione delle antiche».
6 L’autore presenta l’«opuscolo» come il precipitato coerente e sintetico dei propri anni di studio e pratica politica; a tale ‘brevità’ Niccolò farà riferimento subito dopo, scrivendo che la concisione del discorso dà la possibilità al dedicatario di impratichirsi «in brevissimo tempo» in una materia appresa dall’autore lungo molti anni e con gravi disagi e pericoli. Qui Machiavelli manifesta un’idea classicistica della scrittura letteraria: solo una grande diligenza e una lunga pratica consentono una sintesi efficace.
7 Benché io ritenga questa mia opera indegna di essere presentata a voi, tuttavia ho fiducia che sarà ben accetta per la vostra sensibilità e gentilezza: «tamen» è forma latina (= tuttavia), e latinismo è «umanità» nel senso di humanitas, ossia ‘sensibilità e nobiltà d’animo’.
8 «La quale opera»: pronome relativo ad avvio di periodo, secondo uno stilema latino, non tra i più eleganti. Della paraipotassi relativa si è detto supra, n. 3: tale costrutto ricorre di frequente nel Principe e talora rende non agevole al lettore moderno il riconoscimento del sostantivo sottinteso. Machiavelli prende qui posizione in ambito letterario: non ho voluto scrivere con un periodare ampio, né con lessico elevato, né mi sono valso di artifici stilistici e abbellimenti retorici puramente esteriori, per mezzo dei quali molti autori sono soliti ornare e ripulire i propri scritti; perché ho voluto o che nessuna cosa onori la mia opera, ovvero che essa sia ben accolta per la varietà della materia e l’importanza del tema trattato. Si noti che «veruna», ossia alcuna (nel senso di ‘nessuna’) è privo di una negazione per influenza ipercorrettiva dei precedenti «non ho ornata né ripiena». L’espressione «clausule ample» è stata dai commentatori riferita alle clausulae metricae in senso stretto, ossia all’eleganza stilistica consistente nel concludere un periodo con uno stico ritmico («chiuse di periodo sonore ed eleganti»: glossa Carlo Varotti; «conclusioni ritmicamente calcolate»: Inglese; «sonanti e magniloquenti conclusioni di frasi o di periodi»: Martelli); tuttavia la presenza dell’aggettivo «ample» e l’intero contesto inducono a credere, con il Russo, che qui Machiavelli con «clausule» intenda piuttosto l’intero andamento del periodo, strutturato classicamente attraverso una calcolata successione di proposizioni dipendenti. Si veda Eduard Norden, Sulla storia della clausola ritmica, appendice II in La prosa d’arte antica. Dal VI secolo a.C. all’età della rinascenza, edizione italiana a cura di Benedetta Heinemann Campana, con una nota di aggiornamento di Gualtiero Calboli e una premessa di Scevola Mariotti, Roma, Salerno ed., 1986 (Stuttgart, Teubner, 1898, 1909, 1915), tomo II, pp. 913-967.
9 Immagine efficace, condita da un accenno di ‘falsa modestia’: non sia imputata a presunzione l’idea, da parte di un uomo di condizione «bassa e infima» (cioè bassa e bassissima), di voler discettare intorno al «governo dei principi», infatti il cartografo si pone in fondo alla pianura per disegnare i monti e le alture, e si colloca sopra i monti per valutare le vallate; e così per conoscere bene la natura dei popoli occorre essere principe, per conoscere quella dei principi essere uomo del popolo. Machiavelli si qualifica dunque «populare» e dice di trovarsi in «basso e infimo stato»: basso e infimo è appunto lo stato di colui che dall’ufficio di secondo cancelliere della repubblica, di cancelliere dei Dieci e della magistratura militare dei Nove, si è ritrovato disoccupato, confinato, carcerato, torturato. Maggiore attenzione merita forse il «populare»: la famiglia Machiavelli è infatti di estrazione «popolare»; inurbata dalla Val di Pesa è la stirpe di Niccolò. Ma si vorrebbe leggere in queste parole qualcosa di più: a consigliare il principe sulla natura del popolo dovrà essere un uomo esperto del governo popolare, non vicino a quel ceto ottimatizio che, dopo aver favorito il ritorno dei Medici sul volgere dell’estate 1512, non vedeva l’ora di disfarsene nuovamente (su questo si legga opportunamente Martelli 2006, Introduzione).
10 «vi conoscerà … che lei pervenga»: Machiavelli oscilla nell’impiegare il pronome di cortesia voi e il più colloquiale lei.
11 Nel nome della «fortuna», quella fortuna alla quale sarà dedicato il cap. XXV e penultimo del trattato, Machiavelli chiude la dedicatoria: se il destinatario leggerà con attenzione l’opera, vi scoprirà l’augurio che raggiunga quella grandezza che la fortuna e le altre sue qualità fanno prospettare; e se il dedicatario volgerà gli occhi in basso, vedrà come ingiustamente Niccolò sia perseguitato da una grave e costante fortuna avversa. La fortuna agisce dunque in due modi: insieme alle buone qualità consentirà al principe di elevarsi sommamente; nei confronti dell’autore si mostra invece maligna, manifestando «le variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì», dirà appunto Machiavelli avviando il cap. XXV.