La storia della tradizione manoscritta del Principe fu alquanto breve: dal dicembre 1513, quando Machiavelli comunica a Francesco Vettori che l’opera è in fase di avanzata gestazione, al gennaio 1532, allorché appaiono le due prime edizioni a stampa, pressoché contemporanee, presso Antonio Blado a Roma e Bernardo da Giunta a Firenze. Diciotto anni dunque, quattordici dei quali, fino al 21 giugno 1527, trascorsi durante la vita dell’autore, un autore che non sembra interessato ai fata libelli, né sembra impegnarsi per una stampa dell’«opuscolo» pur operando in ambienti di già elevata cultura tipografica. Questi elementi inducono a escludere la presenza di un archetipo in senso stretto all’origine della trasmissione manoscritta: piuttosto è probabile che un autografo, ovvero più autografi (o idiografi) perduti, costituiscano la fonte da cui deriverebbero, con un maggiore o minor numero di contaminazioni orizzontali, i testimoni superstiti.1
Diciannove risultano i manoscritti indipendenti dalle stampe, otto dei quali riconosciuti come descripti (vale a dire copia di manoscritti parimenti conservati) da Giorgio Inglese nell’edizione critica del 1994 (Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo), e perciò esclusi dalla recensio nell’edizione nazionale Martelli-Marcelli (Roma, Salerno ed., 2006). Ecco gli undici testimoni presi in esame: A (Carpentras 303), B (Vaticano Barberiniano latino 5093), D (München 787), E (Perugia G 14, 425), G (Gotha B 70), L (Laurenziano XLIV 32), M (Marciano Ital. II 77), P (Parisinus Ital. 709), R (Riccardiano 2603), U (Vaticano Urbinate Latino 975), W (Charlecote Park, L2).2
Il lavoro di collazione compiuto per le due edizioni critiche e le accurate tabelle di fenomeni congiuntivi elaborate da Inglese hanno valore probabilistico a causa dei risultati talora anomali e contraddittori prodotti da testimoni che manifestano segni di contaminazione e comunque l’intervento di amanuensi dotti come il Buonaccorsi, oppure di calligrafi come il copista di A, da identificarsi con l’amanuense che allestì l’idiografo dell’Arte della guerra (V = Biblioteca civica di Verona 511 Ubic. 90 2).3
Il testo Inglese si fonda sul ramo g (vedi infra, n. 5) assumendo il Monacense (D) come «codice-base» (Inglese 1994, pp. 157-159); il testo Martelli sul ms. A, che egli ritiene abbia conservato spesso le mende dell’archetipo, e pertanto consenta di «ricostruire in parte l’originario trattato». Più precisamente Martelli suggerisce che l’amanuense di A possa aver ricevuto una precisa raccomandazione ne varietur che lo avrebbe indotto a trascrivere, anche senza capire, «quello che leggeva o che pensava doversi leggere» (Martelli 2006, p. 354 e passim).4
L’edizione nazionale del Principe muove dal presupposto che l’«opuscolo» machiavelliano sarebbe stato redatto lungo un arco di tempo non breve e manifesterebbe una serie di interventi alquanto difformi e disorganici. Da un tale selvaggio esemplare d’autore avrebbe tratto origine un archetipo capace di imprigionare tutta la tradizione superstite: dall’autografo sarebbe derivato un archetipo (Arch), da tale archetipo un primo sub-archetipo (Arch1) a partire dal quale discenderebbe il solo manoscritto conservato a Carpentras; da Arch1 seguirebbero Arch2 e Arch2’, il quale ultimo, però, avrebbe mutuato lezioni dall’archetipo primiero; e parimenti da Arch deriverebbe (dunque su un piano di parità stemmatica rispetto ad Arch1) Arch3, capostipite comune del Monacense e del Gothano, i quali però sono additati da Martelli come «punto d’arrivo di un processo di correzioni e di manipolazioni da parte di successivi revisori».5
Il copy-text per la presente edizione è stato fornito da «Biblioteca italiana» (www.bibliotecaitaliana.it), ricavandolo dall’edizione commentata a cura di Giorgio Inglese, Torino, Einaudi, 1995 (che a sua volta riprendeva, con qualche emendamento o variante, il testo dell’edizione critica 1994 dovuta al medesimo Inglese). Si ringraziano il direttore di Biblioteca Italiana, Amedeo Quondam, e la responsabile redazionale Francesca Ferrario.
Dell’edizione Inglese si sono pertanto conservati i criteri fonetici di trascrizione, con qualche mutamento nell’interpunzione e nei capoversi; abbiamo inoltre preferito sciogliere, nella forma estesa e’, l’apostrofo libero (che presso Inglese segnala fusione dell’articolo e con la -e finale della parola che precede). Nella costituzione del testo si è inoltre tenuta presente l’edizione critica nazionale e si sono collazionati direttamente i manoscritti A, M e P. Nel commento figurano registrate e discusse le lezioni difformi rispetto all’edizione Inglese, e vengono chiarite anche le diverse scelte d’impianto assunte dall’editore nazionale.
Alla luce delle collazioni, sembrerebbe ricostruibile uno stemma bipartito: con un ramo y, a sua volta suddiviso in tre sotto-rami a (ms. E, U, B), b (ms. L, P, W, R) e il solo M; e un secondo ramo g testimoniato da D e G. Particolare valore può attribuirsi al consenso Mg come testimonianza di lezione genuinamente machiavelliana.
1 Il Principe/De principatibus: in latino è il titolo del trattato comunicato a Francesco Vettori nella ben nota lettera del 10 dicembre 1513, in latino sono i titoli dei capitoli (eccezion fatta per quelli riportati dal manoscritto buonaccorsiano oggi a Parigi), in latino è il titolo negli unici due manoscritti che ne recano uno (il Monacense e il Gothano). In italiano il titolo nelle due editiones principes; e, come ebbe a osservare Mario Martelli 2006 (p. 49, n. 45), esiste «una tradizione che per quasi cinque secoli ha conosciuto il celebre opuscolo machiavelliano come Il Principe».
2 Una puntuale ed efficace descrizione dei testimoni è curata da Nicoletta Marcelli nell’Appendice A all’ed. nazionale 2006, pp. 325-339.
3 Il che, naturalmente, non implica che anche il ms. A del Principe sia un idiografo. Cfr. Marcelli nell’ed. nazionale 2006, pp. 328-329.
4 Sul dibattito filologico intorno al testo del Principe si vedano, dopo l’edizione Inglese 1994: Mario Martelli, Saggio sul Principe, Roma, Salerno ed., 1999; Giorgio Inglese, Il Principe e i filologi, «La cultura», 38, 2000, pp. 161-166; Martelli, I dettagli della filologia, «Interpres», 20, 2001, pp. 212-271; e ancora Inglese, Postille machiavelliane, «La cultura», 42, 2004, pp. 517-520. Dopo l’edizione Martelli 2006: dapprima due interventi sul «Corriere della sera»: il 24 aprile intervista rilasciata da Martelli a Dino Messina, e il 25 aprile replica di Inglese e Maurizio Viroli; poi R. Ruggiero, Il ‘Principe’ dei ghiribizzi. Un vaglio testuale, in «Belfagor», 61, novembre 2006, pp. 688-704 e Dalle congiure fiorentine alle secche del ‘Principe’, ivi, 62, maggio 2007, pp. 267-282; infine Mario Pozzi, Rassegna machiavelliana, in «Giornale storico della letteratura italiana», 124, 2007 [ma 2008] (fasc. 607), pp. 423-448.
5 I rami della tradizione individuati da Giorgio Inglese nell’edizione 1994 sono y (con i subarchetipi a, b, e con il Marciano in posizione a sé stante); esterni a y sono il Monacense e il Gothano (indipendenti secondo Inglese, accomunabili sotto il comune subarchetipo g a parere di Martelli). All’ipotesi di una fonte comune per D (Monacense) e G (Gothano) Martelli dedica le pagine 412-427 della Nota; Inglese, pur additando almeno sei errori comuni, riteneva che le lacune dell’uno difformi da quelle dell’altro e le «lezioni originali, contro errori ed omissioni di tutti gli altri testimoni» inducessero a rigettare l’apparentamento tra Monacense e Gothano (De principatibus, pp. 115-117). Inoltre, secondo Martelli, il Marciano (M) non è collocabile «in un settore preciso dello stemma»; altresì Inglese ritiene che M, da solo, rappresenti un sottogruppo di y, fonte comune ai rami a e b (De principatibus, pp. 100-107).