NON riesco a nascondere lo choc quando mia madre viene a prendermi alla stazione. È così magra e pallida, l’ombra della donna formosa con i capelli rosso fiamma di un tempo. Indossa una felpa anche se siamo nel cuore dell’estate, e quando ci abbracciamo sento gli spigoli dei gomiti e delle scapole attraverso la stoffa. Mi viene voglia di piangere. Era già messa così male l’ultima volta che l’ho vista? Possibile che sia cambiata tanto in poco tempo?

«Meggy!» esclama, ignorando la mia espressione inorridita. Non vuole sentire commenti sul proprio aspetto, non vuole nemmeno che io riconosca che si sta consumando. Ma io non sono come mia madre. Io non sono una sognatrice.

«Santo cielo, hai un aspetto tremendo!»

Lei si toglie un po’ di farina dalla manica con una risatina stentata. «Oh, lo so! Stavo cucinando una crostata alla melassa e all’improvviso mi sono resa conto che rischiavo di fare tardi.»

«Mamma, avresti dovuto rimanere a casa», sbotto io, scocciata. «Avrei potuto prendere l’autobus.»

«Non dire sciocchezze, tesoro. Perché avresti dovuto?»

«Perché hai l’aria di una che sarebbe dovuta rimanere a letto.»

«Ho preparato le lasagne per cena, va bene?» annuncia, incamminandosi verso il parcheggio.

Io rimango piantata dove sono, aspettando che si fermi e si giri verso di me e prenda atto di ciò che non è stato detto, ma visto che lei non lo fa stringo la borsa e la seguo.

Il piccolo cottage di mattoni rossi in cui è cresciuta ha la facciata bianca e rose rampicanti che incorniciano le finestre. È anche il posto in cui ho trascorso i miei primi sei mesi di vita, in una calda famiglia allargata, accudita da una madre adolescente e dai nonni. Erano stati bei tempi, a quanto pareva, e tutti mi volevano bene. Ovviamente, non ho alcun ricordo di quel periodo, ma il posto mi è parso stranamente familiare quando ho aiutato mia madre a traslocare lì, tre anni fa.

«Ma certo che ti sembra familiare», mi disse mentre scaricavamo il furgone. «Sei nata qui.»

«Sì, ma io non me lo ricordo!»

«Non ha importanza, è comunque parte di ciò che sei. Per quanto riguarda la tua mente, questo è il posto a cui appartieni. Sei come un salmone che ha ritrovato per istinto la via di casa.»

«In tal caso dovrei morire da un momento all’altro.»

«Non credo che sarai tu a farlo, cara», borbottò lei, lottando con un’enorme pianta in vaso da scaricare.

Era la prima volta che la sentivo accennare alla sua malattia. Avrei voluto fermarla, prenderla per le spalle e assicurarle che non c’era nessun problema se ne parlava, che io volevo lo facesse, ma mi aveva colto così alla sprovvista che rimasi lì, con una grossa friggitrice tra le braccia, mentre lei barcollava lungo il vialetto sommersa dalle foglie di un’enorme yucca.

All’interno il cottage è piccolo e con i soffitti bassi, ma molto accogliente. Nel salotto c’è un caminetto circolare, travi a vista e una cucina economica che mia madre adora. Il giardino, stretto e lungo, è sommerso di verdure a foglia verde, alberi da frutta e pali di sostegno per i legumi. Il portico è zeppo di vasi che traboccano di bacche ed erbe aromatiche. Oltre il giardino vedo il frutteto con i meli i cui rami carichi di frutti si curvano fino a terra. Sembra una giungla.

«Ha un aspetto un po’ incolto, in effetti», ammette mia madre mentre ce ne stiamo sotto il portico nel sole del tramonto, tra un vaso di ceramica che ospita della rucola e un vecchio secchio di latta da cui spuntano peperoncini verdi. «Non so perché, ma ultimamente non riesco a starci dietro. Ci tornerò domani mattina e darò una bella pulita.»

Sono contenta che mia mamma sia nella casa cui appartiene. È dove merita di essere. Lo squallido appartamento di Londra in cui vivevamo non rifletteva nulla di lei. Era come se comprimesse la sua gioia di vivere, come se lottasse per contenere dentro le pareti l’energia che irradiava da lei. Era scialbo e privo di carattere, con stanze piccole e quadrate e senza particolari degni di nota. In questo cottage ci sono nascondigli segreti, pezzi di storia, stranezze e peculiarità. Ogni stanza ha qualcosa da raccontare, la propria personalità. Ci sono aria fresca, luce, natura e spazio per respirare. E soprattutto ci sono le radici del passato di mia madre, radici che spero possano tenerla con i piedi per terra, attaccata alla realtà quando dovrà affrontare le difficoltà future. Non so quasi nulla della sua vita prima che nascessi, perché è bravissima a evitare di parlarne, ma so che è cresciuta qui con i suoi genitori e un gatto di nome Fluffy, qui ascoltava i dischi e ballava nella sua camera, qui mio padre veniva a chiamarla quando uscivano insieme. So che tutti questi eventi sono accaduti in questo luogo, e spero che quando si avvicinerà alla fine simili ricordi – ricordi veri – le torneranno in mente, scalzando il mondo di fantasia che si è creata. Voglio che possa riflettere sulla propria vita con chiarezza, che possa guardare al tempo trascorso su questa terra – nel bene e nel male – esattamente come è stato. Senza bugie e confusione, con lucidità e perfetta comprensione. Che cosa potrebbe darle pace più di questo?

Il cottage è pervaso da un profumo dolce e zuccherino. Mia madre sta preparando i cupcake e ce ne sono dodici allineati sul piano di lavoro, ciascuno arricchito di glassa rosa e guarnizioni colorate.

«Quello è per te», dice indicandone uno che è grande il doppio degli altri. «E ci metterò sopra tutte le tue decorazioni preferite.»

Guardo la ciotola colma di gelatine di tutti i colori dell’arcobaleno e in cuor mio calcolo le calorie che conterrà quel dono fatto con le migliori intenzioni, per non parlare della quantità di coloranti artificiali e additivi. Non mangio dolci da quando so che cosa ci mettono dentro.

«Fantastico», esclamo sorridendo. «E gli altri undici per chi sono?»

«Li porterò all’istituto per malati di cancro. Povera gente», sospira, come se non fosse una di loro.

Mi ha sempre fatto uno strano effetto entrare nella «mia» camera. È come ripercorrere la mia infanzia in un sogno febbricitante in cui tutto è distorto e sottosopra. Ci sono tutte le cose di quando ero bambina – il piumino a fiori rosa, le foto incorniciate di due coniglietti che brucano dei denti di leone, il registratore, il piccolo specchio di plastica – ma questa non è mai stata davvero la mia stanza. Non era in questo cottage che saltavo sul letto o giocavo o leggevo. Mia madre la tiene come se fosse un santuario, per quanto trasferito da Tottenham a Cambridge. Diplomi e riconoscimenti scolastici sono allineati su uno scaffale, su un altro c’è il mio primo microscopio. Ha conservato persino tutti gli eserciziari in uno scatolone accanto all’armadio. Presa dalla nostalgia, ci infilo la mano e ne pesco uno – Letteratura inglese, nono anno, prof. Hamble – e lo sfoglio ricordando la fatica che mi costava scrivere con quella grafia minuta e precisa. È ordinatissimo e grazioso, con le date a margine e i titoli sottolineati, ma le pagine sono per metà bianche.

Leggo la consegna in cima a una pagina: «Scrivi un mito di tua invenzione in 500 parole, spiegando perché i pinguini hanno perso la capacità di volare».

In una grafia impeccabile avevo scritto: «Mi rifiuto di svolgere il compito assegnato in quanto parte da un presupposto completamente sbagliato. Al Museo di Storia Naturale mi hanno detto che non c’è alcuna prova evolutiva che i pinguini abbiano mai saputo volare».

Il professor Hamble aveva aggiunto sotto, in rosso: «Ne parliamo alla fine dell’ora».

Dopo la disgraziata esperienza alle elementari odiavo la letteratura e tutte quelle sciocche storie e poemi pieni di personaggi immaginari e scenari irreali. Mi opponevo con forza all’idea di essere costretta a leggere opere di fantasia, e dissi al professore che di certo mi avrebbero guastato la mente.

«È assolutamente irrealistico», osservai, «che Romeo abbia pensato che Giulietta fosse morta e si sia ucciso, e che successivamente lei si sia svegliata e, vedendo che Romeo era morto, si sia suicidata. Quante probabilità ci sono che sia capitato davvero? Non credo sia mai accaduto a nessuno. Mai.»

Alla riunione genitori-insegnanti il professor Hamble comunicò a mia madre che ero «una ragazza strana con scarsissima immaginazione» e che avrei potuto trarre beneficio da una sovraesposizione a storie di genere fantastico. Ah, se solo avesse saputo!

Sullo scaffale accanto al microscopio sono allineati i miei vecchi libri, sorretti da reggilibri di legno a forma di bruco. Leggo i titoli: Chi sono io? - Viaggio all’interno del corpo umano; 101 fatti interessanti che probabilmente non sai; Guida propedeutica all’allevamento dei criceti; Esploriamo il sistema solare; Una rana con il tè? - Strane abitudini da tutto il mondo; La storia del Jiggly Wop. Prendo quest’ultimo e osservo la copertina invecchiata, chiedendomi che cosa ci faccia un’opera di fantasia tra i testi di scuola. Era il preferito di mia madre, da piccola, e ricordo che me lo leggeva quando avevo all’incirca sei anni. Allora era anche il mio favorito, ma avrei giurato di averlo buttato via insieme con tutti gli altri volumi di favole che possedevo. Era una fiaba molto sciocca, piena di animali parlanti e altri ridicoli prodotti dell’immaginazione che potevano servire solo a inquinarmi la mente e farmi andare alla deriva. Pensavo di averlo gettato nel cassonetto dei rifiuti con Alice nel Paese delle Meraviglie, Lo hobbit e altri esempi di assurdità a cui mia madre mi aveva esposto nel tentativo di corrompere il mio buon senso; evidentemente è sfuggito alla mia missione distruttiva. Ho ascoltato quella storia così tante volte che rammento ancora le parole.

In una terra lontana, viveva una creatura che non sapeva esattamente cos’era...

Passo le dita sulla copertina, seguendo i contorni dello strano Jiggly Wop: le orecchie da elefante, i piedi palmati, il corpo a strisce bianche e nere... Per un attimo un sorriso mi aleggia sulle labbra prima che riprenda il controllo e lanci il libro nel cestino della carta straccia.

«Non c’è da meravigliarsi che i bambini siano così stupidi», borbotto.

Durante la cena, a base di lasagne e insalata fresca dell’orto, mia madre chiacchiera delle sue verdure e di un cuoco che guarda sempre in tivù, di branzini e di rape, qualunque cosa pur di impedirmi di chiederle della malattia.

«Mamma», la interrompo alla fine, «come stai?»

«Benissimo», mi risponde con brio, scattando in piedi per sparecchiare.

«Davvero?»

«Certo.»

«Sei dimagrita, vero?» suggerisco, consapevole di minimizzare in modo plateale.

«In effetti mi sa che ho perso qualche chilo», ammette tirandosi la cintura troppo larga della lunga gonna viola. «Ho dovuto far stringere l’elastico un paio di volte.» Raccoglie la sovrabbondanza di stoffa nel pugno, e sembra onestamente sconcertata. «Comunque dovevo perdere qualche chilo», aggiunge allegra. «Troppi budini. Sai come sono.»

«Sei andata dal dottor Bloomberg di recente?»

«Sì, la settimana scorsa», risponde, immergendo i piatti nel lavandino pieno di acqua e detersivo al limone.

«E?»

«E cosa?»

«Cosa ti ha detto?»

«Oh, non molto. Sai come parla a vanvera. Venendo a noi, ho preparato la crostata alla melassa e una mousse al cioccolato. Quale preferisci per dessert?»

Scuoto il capo, incredula, ma lei si rifiuta di guardarmi. «Quello che ti pare.»

Il giorno seguente mi sveglia il profumo di salsicce e bacon. Per un momento, nel dormiveglia, rannicchiata sotto le mie vecchie lenzuola rosa nel letto con il materasso che affonda, immagino di essere ancora una ragazzina nell’appartamento di Londra. Sento il calore del sole del mattino che filtra dalle fessure nelle tende e sogno di attraversare di corsa Hampsted Heath, mentre la mamma mi aspetta a braccia spalancate, pronta a prendermi.

Ma tutto a un tratto sento una mano che mi afferra la gola, le dita ruvide e callose sulla pelle delicata che stringono, schiacciano, premono contro la mia trachea. Non riesco a respirare. Non respiro! E qualcuno mi grida parole che non riesco a capire.

Mi metto a sedere di colpo, annaspando in cerca d’aria, le mani sulla gola che tentano di staccare quelle che mi soffocano. È sempre lo stesso orribile incubo. Non vedo nessuno. Non c’è nessuna faccia, solo quella voce – profonda e rabbiosa – e l’impressione di soffocare. E l’odore. Il puzzo dolciastro e rivoltante della carne cruda. L’altro giorno l’ho quasi raccontato a Mark, tanto era intenso il desiderio di condividerlo con qualcuno, ma senz’altro avrebbe concluso che sono strana e forse persino un po’ instabile. Mi lascio cadere di nuovo sul cuscino, il sudore si raffredda sulla schiena e il cuore mi batte forte.

«Buongiorno! Sto preparando le crêpe. C’è del caffè appena fatto sul tavolo, e salsicce e bacon sono quasi pronti. Come le vuoi le uova? Fritte? Strapazzate? Con il pane tostato? È fresco, l’ho fatto stamattina.»

«Mamma, non posso mangiare tutta quella roba», protesto sedendomi a tavola, ancora in pigiama.

«Voglio rimpinzarti come si deve finché stai qui», spiega lei, versando la pastella in una padella sfrigolante. «Sei troppo magra.»

La osservo mentre fatica a sollevare la pentola con entrambe le mani. Quanto peserà adesso? Cinquanta chili? Meno?

Mentre inclina la pentola da una parte e dall’altra per spargere la pastella sul fondo, mi accorgo che il suo corpo oscilla leggermente. Poi posa la padella sul piano cottura sbattendola forte e rimane immobile, aggrappandosi al manico come per reggersi.

«Mamma? Va tutto bene?»

Nessuna risposta.

«Mamma?»

«Non è niente», mi risponde con un filo di voce.

«Lascia fare a me.» Mi alzo e mi avvicino al fornello.

«Assolutamente no!»

Si gira e mi lancia uno sguardo inviperito, neanche avessi cercato di aggredirla. Insinuando che potrebbe non essere più in grado di cucinare ho minacciato il suo modo di vivere. Mi rivolge un sorriso pallido e fa un respiro profondo.

«Vuoi lo sciroppo o lo zucchero sulle crêpe?»

Malgrado le mie proteste, dopo colazione la mamma insiste per andare nell’orto e iniziare a ripulire. Per i primi venti minuti sembra avere più energia di me, il che mi sorprende e mi conforta. Taglia, pota, sfronda, rifila, maneggiando le cesoie come un turbine. Mentre lavoro accanto a lei, inciampando nei viluppi di radici e foglie via via che li raccolgo e li infilo in un sacco della spazzatura, permetto stupidamente a una scintilla di speranza di accendersi dentro di me. Forse la debolezza di prima è stata solo un cedimento momentaneo. Non può essere molto malata se sembra così piena di energie, no? Continua a chiacchierare mentre lavora, e a canticchiare canzoni dei Beach Boys, di David Bowie e degli Abba.

Raccoglie diverse erbe aromatiche e me le mette sotto il naso per farmele annusare.

«Non è delizioso?» mi chiede raggiante.

È una mattina calda e luminosa, e il ricco odore della terra si mescola al profumo di rosmarino, mentuccia e melissa. Gli uccellini cinguettano sugli alberi e per un po’ è facile dimenticare che la vita non è perfetta, che questa non è un’estate come le altre, che potrebbe persino essere l’ultima che passiamo insieme. Malgrado la partenza zelante, tuttavia, non ci vuole molto prima che le energie di mia madre inizino ad affievolirsi. Trascina i piedi e si massaggia la schiena, guarda desolata il giardino incolto, sopraffatta dalla prospettiva di tutto quel lavoro ancora da fare. La luce nei suoi occhi svanisce, sostituita a poco a poco dalla fatica.

«Mamma», le propongo esitante, strappando erbacce da una fila di cespi di insalata ed evitando di guardarla negli occhi. «Non sarebbe una buona idea prendere qualcuno che ti dia una mano con il giardino? Magari solo per un paio d’ore alla settimana.» Trattengo il fiato, aspettandomi che risponda bruscamente come stamattina.

«Perché dovrei?» mi chiede, fissando con un pezzo di spago verde il ramo indisciplinato di una pianta di fagioli.

La preoccupazione di averla turbata cede subito il passo al desiderio di prenderla a schiaffi. L’ostinazione a negare tutto inizia a darmi sui nervi. Cerco di fare un respiro profondo, ma sento che la mia pazienza si sta esaurendo.

«Perché», rispondo nel modo più pacato possibile, «c’è davvero molto da fare per una persona sola.»

«Ma sono perfettamente in grado...»

«So che sei perfettamente in grado», ribatto a denti stretti, «ma il giardino è troppo impegnativo perché tu possa farcela da sola.»

«Meg May», replica lei, piazzandosi le mani sui fianchi e fissandomi con aria severa, «mi sono arrangiata da sola fin da quando sei nata. Ho cucinato, strofinato, pulito, lavato e stirato. Ti ho cucito i vestiti, ho fatto la spesa e pagato le bollette. Ho riparato forni, stuccato soffitti, messo in posa pavimenti e montato scaffali. Non dirmi che non so arrangiarmi da sola. Sono riuscita a coltivare frutta e verdura quando non disponevo di un minuto di tempo libero e tu mi stavi ancora attaccata alle sottane, e se ce l’ho fatta allora, di certo ce la posso fare adesso che ho tutto il tempo del mondo e nessuno di cui occuparmi.»

So che non è il caso di insistere. Mi ha battuto. Non c’è modo di farla ragionare. Costringerla ad affrontare la realtà è, ed è sempre stato, come nuotare contro la marea. Non importa con quanta forza lotti per avvicinarti alla terraferma, arriva sempre un’onda troppo alta che ti risucchia indietro fino al punto di partenza. È questo che Mark non capisce. Continua a chiedermi perché tollero le ridicole fissazioni di mia madre, ma non sa quanto sia stancante cercare di raggiungere le lontane terre della realtà. A volte è più facile lasciarsi andare alla deriva insieme con lei in un mare di fantasticherie.

«D’accordo», mi arrendo, sollevando le mani in segno di resa, «era solo un’idea. Vado a mettere su il caffè.»

Lascio cadere per terra i guanti da giardinaggio e mi incammino verso casa sul vialetto lastricato, tra aiuole piene di verdure rigogliose. Ma prima di arrivare alla porta sul retro mi fermo, scandagliando la mente per cercare di dare un senso alle parole di mia madre.

«Quando hai coltivato verdure, prima?» le chiedo.

La mamma si scherma gli occhi e li socchiude, la paletta che le dondola dalla mano.

«Come?»

«Hai detto che riuscivi a occuparti dell’orto con me che ti stavo attaccata alle gonne. Quando? Siamo andate via di qui quando avevo sei mesi e ci siamo trasferite nell’appartamento a Tottenham. Lì non c’era il giardino.»

Mi fissa come se non riuscisse a capire che cosa le sto chiedendo e dovesse mettere in ordine le parole secondo uno schema logico.

«Avevamo una fioriera», risponde infine.

«Coltivavi frutta e verdura in una fioriera?»

«Certo! Solo roba piccola, naturalmente. Carotine, rapanelli...»

«Io non me ne ricordo.»

«Be’, è evidente», ribatte lei. «Ma questo non significa che non l’abbia fatto.»

Le si sono formate delle chiazze rosse sulle guance e si affanna a staccare piccoli frammenti di fango dalla paletta.

Sono troppo accaldata e stanca per continuare a indagare se ci sia del vero in quello che ha detto, e torno in casa con la sensazione di aver oltrepassato ancora una volta un confine invisibile.

Mentre aspetto che sia pronto il caffè apro la porta d’ingresso e prendo la bottiglia di latte che è stata depositata sul gradino. C’è qualcosa di rassicurante nei paesini in cui le bottiglie di latte continuano ad apparire durante la notte, quasi per magia. È molto meglio che doversi fare strada nel caos di un supermarket aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, e sono contenta che a mia madre sia risparmiata questa incombenza stressante.

La viuzza in cui vive è silenziosa e tranquilla, le case sono piccole e modeste, costruite a una distanza tale da garantire la privacy senza essere isolate. È la situazione ideale per lei, che pur essendo un tipo energico, comunicativo e un po’ eccentrico, è tutto sommato una solitaria. Sta bene con le sue pentole e il suo orto, a parlare con le piante e gli animali o persino da sola. Esce soltanto quando è strettamente necessario, andando dentro e fuori dai negozi in fretta e a testa bassa. Credo non abbia mai parlato con i nostri vicini, perché è convinta che le persone che vivevano nella via in cui è cresciuta siano morte da tempo o si siano trasferite altrove, e non capisce perché dovrebbe fare conoscenza con i nuovi inquilini.

«Perché dovrei parlare con loro?» dice sempre. «Ho già tutto quello che mi serve.»

Quando stavamo a Tottenham aveva qualche minimo contatto con gli altri attraverso il cibo, perché lasciava sformati o cestini di muffin sui gradini dei vicini, ma quello che loro scambiavano per un invito a fare amicizia in realtà non lo era affatto; si trattava soltanto del desiderio di vedere gli altri mangiare bene. Al signor Ginsberg, che aveva perso la moglie e i denti, lasciava minestre nutrienti e gustose. Per gli studenti indiani che stavano sui libri fino a notte fonda preparava piatti di curry da riscaldare. E sulla porta della signora Wallace, che avrebbe dovuto dimagrire per potersi mettere una protesi all’anca ma non aveva la più pallida idea di come limitare le calorie, non faceva mai mancare sani stufati a base di verdure. Torte e biscotti andavano invece alla ragazza emaciata del piano di sotto, che secondo mia madre soffriva di un disturbo dell’alimentazione, ma che in realtà era un’eroinomane. Eppure, ogni volta che una di queste persone tentava di attaccare discorso con la mamma, lei aveva sempre una scusa pronta, una valida ragione per cui doveva correre via e proprio non poteva fermarsi. Credo che all’inizio si sentissero in imbarazzo, e che il suo atteggiamento li lasciasse perplessi. Non capivano se voleva o no la loro amicizia, e i loro sforzi per ripagarla in qualche modo incontravano sempre un rifiuto. Dopo un po’, però, finirono semplicemente per accettarla. Davanti alla nostra porta comparivano un giorno sì e uno no piatti appena lavati, accompagnati talvolta da un biglietto di ringraziamento. Se qualcuno si azzardava a bussare, mia madre apriva con un cordiale sorriso sulle labbra, chiacchierava e rideva con entusiasmo per qualche minuto e poi tornava in casa senza invitarli a entrare. La definivano adorabile, meravigliosa, particolare e persino pazza, ma in genere la gente imparava ad accettare i suoi piatti senza tante storie e a non offrire nulla in cambio. Lei non avrebbe permesso che le cose si svolgessero altrimenti.

Mentre porto dentro il latte, senza pensarci scuoto la bottiglia e ne esamino il contenuto per assicurarmi che non ci siano fatine intrappolate all’interno; poi mi rendo conto di cosa sto facendo e mi rimprovero per essere così sciocca. Quando ero piccola la mamma e io partivamo spesso a caccia di fate nei parchi, perlustrando in punta di piedi i cespugli al mattino presto con le bottiglie di latte vuote in mano, pronte a catturarne una; ben presto, però, la logica mi aveva insegnato che anche quello non era altro che finzione, e la volta successiva che mia madre mi aveva invitato alla caccia alle fate le avevo urlato: «Smettila di fare la stupida! Non sono più una bambina!» Credevo che lo facesse per divertirmi, e invece lei ci andò anche senza di me.

Mia madre non crede soltanto alle fate, ma a tutte le creature soprannaturali. È affascinata da spiriti e cristalli, lepricauni e alieni... tutto ciò che accende la sua immaginazione sfrenata e ingovernabile. Crescendo, ho associato il suo gusto per i vestiti lunghi, larghi e colorati alla sua inclinazione al misticismo, e per reazione indosso sempre abiti semplicissimi in colori neutri, così che nessuno possa accusarmi di essere eccentrica. Al posto delle ampie gonne variopinte e delle tuniche informi e sgargianti di mia madre, io scelgo camicie e magliette in tinta unita, scarpe basse e anonimi maglioncini con lo scollo a V. Tengo i capelli castano-topo tagliati a caschetto, indosso soltanto orecchini a lobo e mi permetto un’ombra di trucco solo in caso di emergenza. Anche per mia madre compero abiti semplici, vestiti che ritengo adatti a lei, e negli ultimi due anni ha persino iniziato a metterli. In questo momento il suo guardaroba è decisamente variegato: lo stile new age si mescola con capi Marks & Spencer.

Ceniamo con insalata fresca e gorgonzola, croccanti fette di bacon e avocado.

«È una delle ricette di Jamie», spiega la mamma. Chiama per nome tutti gli chef più famosi, tanto che per qualche tempo ho creduto che Jamie, Delia e Nigella fossero degli amici che aveva conosciuto da quando si era trasferita a Cambridge.

«Ainsley è proprio una sagoma!» ridacchia, intingendo un boccone di pane nell’olio aromatizzato all’aglio. «L’altro giorno mi ha fatto morire dal ridere. Non immagineresti mai che cosa ha detto...»

Ama moltissimo la cucina moderna. «Riduzione di balsamico» è diventata una delle sue espressioni preferite.

Dopo cena ci sediamo sul divano a mangiare gelato al caramello fatto in casa e a giocare a Scarabeo; mia madre cerca di barare formando la parola «pusticcio» («Sì che esiste! Ci siamo trovati proprio in un bel pusticcio. Si può dire!») e io fingo di essere molto meno intelligente di quanto non sia («Non credo proprio di poter formare una parola con le lettere G, T, A, O T.»).

«Stai cercando di farmi vincere?» mi chiede lei quando ha ormai ventitré punti di vantaggio.

«No.»

«Sì, invece.»

«Non è vero.»

«Non negarlo! Lo capisco dalla tua espressione, piccola sfacciata!» Infila le dita nel gelato e me ne mette un po’ sulla punta del naso.

«Ehi!»

Mi pulisco con la mano e gliela passo sulla guancia mentre lei strilla e cerca di spingermi via con la poca forza che le rimane dopo la faticaccia della mattina. Ha l’aria stanca, ma finge di essere vivace a mio beneficio.

«Meg May!» ride, pulendosi il viso. «Non è il modo di comportarsi per una studentessa universitaria! Dovresti avere un po’ di buon senso. Non potrai permetterti di fare queste sciocchezze quando sarai una fisica famosissima.»

«Mamma!» piagnucolo, coprendomi la faccia. «Non diventerò una fisica!»

Lei si morde il labbro, un po’ in imbarazzo, sapendo di aver sbagliato di nuovo. Secondo lei, negli ultimi due anni ho studiato tutto, dalla fisica alla chimica farmaceutica, e tutte le altre discipline che terminano in «-ologia».

«Io ci provo, tesoro», si scusa. «È solo che queste cose scientifiche proprio non le capisco. Non sono mai stata brava in scienze. Non so da chi hai preso.»

Nemmeno io, vorrei rispondere, ma mi morsico la lingua. Come abbiano fatto un pasticciere francese e una cuoca dilettante a generare una figlia che sa a malapena preparare un toast ma è in grado di capire le complessità della biologia è una domanda cui si è sempre rifiutata di rispondere.

«Io studio genetica, mamma», le spiego per la centesima volta. «Non è difficile da ricordare. DNA. Il genoma umano. Sono questioni piuttosto importanti.»

Lei sospira, pallida ed esausta. «Lo so. Suppongo che siano argomenti troppo difficili per me.»

«Ma se almeno ci provassi, ti renderesti conto che sono affascinanti. È quello che ci rende ciò che siamo. Riguarda la conoscenza di noi stessi.»

Lei sorride orgogliosa e mi dà un buffetto sul ginocchio, poi si alza e prende le coppette del gelato ormai vuote.

«Ma io so chi sei, tesoro», risponde uscendo dalla stanza.

Disperata, nascondo la testa sotto un cuscino.

«Io invece no», borbotto. «Grazie a te, non ho la più pallida idea di chi sono.»