IL problema non era che fossi nata prematura. Era il fatto che mi rifiutavo di crescere. Mio nonno insisteva che il sole mi avrebbe stimolata, così trascorsi le prime settimane di vita su una coperta nel portico del giardino, lo stesso che adesso è ingombro di vasi di coccio da cui spuntano foglie di insalata, fragole e peperoncini verdi.
«La bambina ancora non cresce, Brenda», comunicò un giorno il nonno alla nonna, misurandomi con una canna di bambù, di quelle che si usano come sostegno per le piante rampicanti. «Ho idea che sia venuta su da un seme cattivo.»
«E se la mettessimo nella serra?» suggerì lei. «Per i pomodori fa miracoli.»
«Non ho costruito una dannata serra per farci crescere una bambina», obiettò il nonno. «Credo che la penombra sarebbe più adatta.»
Così mi trasferirono vicino alla siepe, dove prendevo il sole del mattino e il pomeriggio stavo all’ombra. Ma dopo una settimana ancora non ero cresciuta, e mia madre iniziava a preoccuparsi.
«Avrà abbastanza acqua, papà?» chiese al nonno. «È stata un’estate molto arida. Persino i meli sono secchi.»
Allora mi spostarono vicino all’irrigatore, ma nemmeno l’acqua servì. Temendo che sarei avvizzita ulteriormente, mandarono a chiamare d’urgenza il dottor Bloomberg. Lui mi rigirò nelle sue grosse mani, mi pizzicò braccia e gambe e convenne che ero ancora piuttosto magra per una bambina di quattro settimane.
«Dovrebbe essere paffuta e in carne, a quest’ora», dichiarò con aria autorevole.
Guardò mia madre, che aveva solo sedici anni, e scosse il capo come se quella sfortunata situazione fosse inevitabile.
«Le grandi querce ci mettono non meno di vent’anni per produrre una ghianda», decretò.
Mia madre arrossì e si guardò i piedi. Sapeva esattamente che cosa intendeva dire il dottore. Non c’era da stupirsi che il bambino fosse così piccolo, visto lei non era ancora completamente cresciuta.
Ma il nonno non aveva intenzione di permettere a chicchessia di insultare sua figlia, e mettendo un braccio sulle spalle di mia madre con aria protettiva, ribatté: «Ai ciliegi non ci vuole niente per produrre i primi frutti».
Il dottore lo ignorò.
«Dalle un cucchiaino di questo tutti i giorni», le disse, consegnandole una bottiglietta. «È bicarbonato di sodio, un ottimo agente lievitante. E di notte tienila nell’asciugatrice.»
Mia madre lo ringraziò calorosamente, intimidita dalla sua cultura superiore.
«Grazie al cielo c’è il dottor Bloomberg», esclamò, correndo a prendere un cucchiaino.
Una settimana dopo, però, non c’erano ancora cambiamenti.
«Non so più cosa fare», singhiozzava la mamma, stringendosi al seno il mio corpicino. «Non è cresciuta neanche un po’ ed è ancora acerba. Ho persino la sensazione che stia diventando verde.»
«Hai provato a parlarle?» suggerì mia nonna come ultima spiaggia.
Il nonno la guardò come se fosse impazzita. «Parlarle? Cos’hai in testa, donna?»
«Be’, si parla alle piante per farle crescere, così ho pensato...»
La sua voce si affievolì mentre il nonno sbuffava e alzava gli occhi al cielo.
Mia madre era sconcertata. «Ma cosa le dico?»
«Non credo che abbia importanza, cara», rispose la nonna.
Pur essendo scettico, il mio energico nonno decise che se si decideva di provarci, voleva essere il primo. Spedì la nonna fuori dai piedi e infilò la faccia sotto la mia copertina, naso a naso con me.
«Pronto?» chiese serio. «Pronto?»
«Non stai parlando al telefono, Bob», sbuffò la nonna. «Non ti risponderà.»
«Allora non avrebbe senso parlarle, no?» ribatté lui. «Non dare retta a tua madre, Valerie», disse alla mamma, uscendo dalla stanza. «Dovrebbe essere internata. A te non abbiamo mai parlato quando eri piccola, e sei venuta su benissimo.»
«Era soltanto un’idea», mormorò la nonna seguendolo fuori dalla porta.
Quando fummo sole, mia madre decise che valeva la pena di provarci.
«Non so esattamente di cosa dovrei conversare con te», esordì guardandomi a disagio. «Non credo che abbiamo gli stessi interessi. A me piace cucinare e leggere. A te penso non piaccia altro che ciucciare la copertina e gorgogliare. Io adoro ballare, ma adesso che ci sei tu non esco molto. A essere onesta, non so nemmeno che cosa dovrei farci con te. Ma suppongo che non sia un tuo problema, eh?»
Io la guardai incuriosita e mi agitai tra le sue braccia. Lei avvicinò il viso al mio e fissò i miei grandi occhi marroni.
«Ti prego, cresci», sussurrò. «Non sarò la madre migliore del mondo, ma ti voglio bene.»
Io mi infilai le dita in bocca, e quando le sbavai tutta la felpa lei sospirò, esausta e preoccupata.
«Be’, immagino che potrei raccontarti una storia», decise. «Almeno avrò qualcosa da dirti.»
Si schiarì la voce e iniziò.
«In una terra lontana, viveva una creatura che non sapeva cos’era...»
Per la prima volta, rivolsi a mia madre un sorriso sdentato, e lei giura che alla fine della storia ero cresciuta di almeno due centimetri.
Oggi il dottor Bloomberg mi guarda nello stesso modo in cui deve aver osservato mia madre tanti anni fa: con occhi colmi di pietà e condiscendenza, come se fossi una bambina che non ha capito le regole del gioco.
Conoscerlo è come incontrare finalmente Babbo Natale. Da che ho memoria, è stato una figura fantastica che mi ha accompagnata durante l’infanzia, e tuttavia non ho mai creduto fino in fondo che esistesse. Quando mi fa accomodare nel suo studio, l’imponente scrivania di mogano è l’unico ostacolo che mi impedisce di allungare una mano e accarezzare i suoi soffici capelli bianchi o toccargli il naso solo per controllare che sia reale. Cerco di immaginarlo più giovane di vent’anni, mentre le sue grosse mani mi strizzano e mi pungolano come se fossi un melone acerbo, ma non riesco a figurarmelo diverso da com’è adesso. È una di quelle persone che sembrano essere sempre state anziane, presente sulla Terra dall’inizio dei tempi. Ed è stranamente rassicurante pensare che è stato testimone di un periodo che io non ricordo. La sua stessa esistenza convalida la mia.
«Mi dispiace che sia stato uno choc per lei», dichiara con gentilezza, osservando preoccupato la mia espressione.
Scuoto il capo coraggiosamente, ma quando apro la bocca non esce alcun suono.
«No... no», balbetto alla fine, «non è stato uno choc. Sapevo che non le rimane molto tempo. Naturalmente, questo lo sapevo.»
Malgrado il dolore lancinante, come se mi avessero colpito allo stomaco con un martello pneumatico, non voglio che il dottor Bloomberg, un collega che si affida alla scienza e alla ragione, pensi che mi sono in qualche modo illusa. Non mi umilierò davanti a una persona così intelligente e non voglio apparire tanto vulnerabile da essere trattata con condiscendenza. Il dottore è palesemente un uomo saggio e di grande cultura, e non sopporto l’idea che possa capire fino a che punto sia stata male informata, e quanto sia stata sciocca a credere che mia madre potesse vivere più di un anno. Potrà aver giudicato lei una ragazza ingenua, un tempo, ma non esiste che gli lasci l’impressione di essere fatta della stessa pasta.
«C’è chi prova conforto nell’affidarsi a uno psicologo», suggerisce con cautela, facendo scivolare verso di me un dépliant. Davanti c’è la fotografia di un orrendo paio di occhiali e uno slogan: Ti aiutiamo a trovare una nuova prospettiva.
«Non ho bisogno di una terapia di sostegno», affermo brusca, rovistando nella borsetta per cercare bloc-notes e penna. «Se solo potesse dirmi che cosa devo aspettarmi...»
Prendo appunti come se fossi a lezione, interrompendolo parecchie volte per chiedergli di approfondire alcuni dettagli. Alla fine il dottor Bloomberg rinuncia a cercare di indorarmi la pillola e mi spiega le cose come stanno. Senza dubbio la mia franchezza lo ha colto in contropiede, ma a me piacciono l’ordine, le regole, i dati di fatto, non importa quanto siano scientifici e sgradevoli. Non sono una specialista della fuga come mia madre, non vivo in un mondo di fantasie, io!
«Ho l’impressione che mia madre non si renda conto di quanto è malata. È come se si rifiutasse di ammetterlo», chiarisco al dottore, aspettandomi che sia scandalizzato quanto me. Ma lui annuisce con aria solenne, come se quello che ho appena detto fosse accettabile.
«La negazione è un efficace meccanismo di difesa», dichiara. «Un modo per venire a patti con la realtà. Le persone trovano un’infinità di espedienti per affrontare ciò che la vita riserva loro.»
Lancia un’occhiata al mio blocco degli appunti, dove ho disegnato una tabella dividendo la malattia di mia madre in categorie: sintomi, medicine, appuntamenti in ospedale...
«Allora cosa facciamo?» domando.
Lui mi sbircia da sopra gli occhiali, inarcando le sopracciglia cespugliose come se gli impedissero di vedere bene.
«Mia cara ragazza, non dobbiamo fare proprio niente. Probabilmente è l’unica cosa che le permette di non impazzire.»
Lo fisso, incredula, guardando svanire l’aura di luce che avevo proiettato intorno a lui. Non può essere serio. Com’è possibile che un uomo di così grande cultura e razionalità ritenga che sia un bene per mia madre illudersi? Sbaglia. Deve sbagliarsi. Comunque non ho intenzione di rimanere seduta lì a perdere tempo discutendo con lui.
«La ringrazio di avermi ricevuta, dottore», mi congedo bruscamente, e mi alzo. Mi sento la testa leggera e mi tremano le gambe, ma lo attribuisco alla mancanza di ossigeno nella stanza. Porgo la mano al dottor Bloomberg con aria professionale.
Si alza anche lui, e lentamente si sporge sulla scrivania per prendere la mia mano nelle sue con estrema delicatezza. I suoi occhi sono colmi di comprensione e io vorrei gridargli: «La smetta! La smetta di commiserarmi!» Mi sento nuda e vulnerabile, come se potesse vedere che sciocca sono stata, e capire, nonostante le mie proteste, che pensavo al tempo rimasto a mia madre in termini di anni. Le sue mani sono calde e pesanti, e mentre guardo i peli bianchi sulle nocche mi viene in mente che quelle stesse mani una volta mi hanno tenuta, girata, visitata, per poi passarmi a lei. Lacrime calde mi inondano gli occhi e la gola comincia a bruciarmi.
«Arrivederci», mormoro, cercando di stringergli la mano.
«Arrivederci, Meg.»
Afferro la borsetta ed esco in tutta fretta dallo studio. Ma prima di chiudere la porta mi giro a guardarlo. Si è già seduto alla scrivania e sta consultando la cartella del prossimo paziente.
«Mettermi nell’asciugatrice non mi ha aiutata a crescere, sa?» gli dico.
Lui mi guarda sconcertato. «Scusi?»
Mi blocco, chiedendomi che cosa mi sia preso. Come accidenti mi è saltato in mente di tirar fuori una sciocchezza simile? Speravo davvero che si sarebbe ricordato, e che così facendo mi avrebbe dato delle conferme, avrebbe reso il passato reale? Apro la bocca per parlare, ma non riesco a scegliere se spiegare o scusarmi, se solleticargli la memoria o rimangiarmi quello stupido commento. Di colpo mi sento molto confusa.
«Niente», mormoro tirandomi dietro la porta e uscendo rapidamente dall’edificio. Mentre torno a casa a piedi mi sento scossa e nauseata e continuo a pensare che deve esserci una soluzione.
«Forse dovresti trovarle un altro medico», mi sta suggerendo Mark al telefono mentre cammino sull’asfalto rovente del marciapiede. «Magari uno psichiatra, qualcuno che la aiuti ad affrontare la situazione. Dopo tutto ci sono un sacco di incombenze di cui occuparsi, Meg. Per esempio, ha fatto testamento? E a proposito della casa, dei risparmi...»
«Scusa, Mark», lo interrompo. «Ti dispiace se parliamo d’altro?»
Istintivamente, appena uscita dallo studio del dottor Bloomberg, l’ho chiamato, certa che avrebbe condiviso la mia profonda indignazione nel sentirmi dire che occorre preservare lo stato di negazione di mia madre. E in effetti è persino più scandalizzato di me, e sottolinea subito le conseguenze pratiche che ne deriverebbero. Amo il fatto che capisca da dove vengo, e la frustrazione che prova per me è commovente, ma all’improvviso mi pento di aver sollevato la questione. Desidero che mi dia il suo sostegno in questa battaglia contro la follia e l’illusione, però voglio anche che capisca quanto è difficile, e sembra proprio che lui non se ne renda conto. Ai suoi occhi è semplicissimo: separare la finzione dalla realtà. Invece nel mio mondo le cose non sono mai state così facili.
«Non tornerò per l’inizio del semestre, Mark», lo informo. «Anzi, non so nemmeno se ritornerò per quest’anno.»
Non gli ho rivelato che a mia madre rimane meno tempo di quanto pensassi. Non voglio che sappia che sono stata vittima di un equivoco per tutto questo tempo. Lui avrebbe approfondito la questione prima, avrebbe fatto ricerche, scavato sotto la superficie della finzione e si sarebbe armato della verità. In questo preciso istante si darebbe da fare per contattare psichiatri, agenzie di pompe funebri, sacerdoti, consulenti finanziari, avvocati, e per sbrigare tutte le faccende cui mi ha appena accennato. Ma io non ne ho il coraggio, tutto qui, e mi sento inutile e abbattuta. Però non ho mai fatto la figura dell’incompetente davanti a Mark, e non intendo iniziare ora.
«Credo sia giusto che tu rimanga lì», concorda lui. «Sembra che a tua madre serva aiuto per affrontare la situazione. Ti porterò le tue cose domani stesso.»
«Lo faresti davvero? Sarebbe fantastico.» Tiro un sospiro di sollievo all’idea di non dovermi occupare almeno di questo. Il mio cuore si gonfia di gratitudine e affetto. Mark è una roccia, sempre presente quando ho bisogno di lui, sempre forte ed efficiente, capace di prevedere, pianificare, verificare che tutto sia in ordine. Con lui mi sento al sicuro e protetta, e pur essendo perfettamente in grado di badare a me stessa, ogni tanto – e ammetterlo mi costa – è bello avere qualcuno su cui fare affidamento.
«Hai parlato con il dottor Coldman?» mi chiede.
Durante l’estate avrei dovuto lavorare come assistente ricercatrice del dottor Larry Coldman, ma ho avuto a malapena la possibilità di cominciare. Mi sento malissimo all’idea di piantarlo in asso, eppure che cos’altro posso fare?
«No, lo chiamerò domani e gli spiegherò tutto», rispondo.
«Hai detto al tuo tutor che devi interrompere gli studi per un anno?»
«No, non ancora.»
«Dovrai disdire l’appartamento. Che contratto avevi?»
«Non lo so.»
«E le chiavi di casa? Ci sono dei libri che devi restituire alla biblioteca? Qualche lavoro in sospeso?»
«Io... Mark, per favore, possiamo rimandare il discorso a più tardi?»
«È meglio sistemare tutto, Meg. Un ritardo nella restituzione di qualche libro può rapidamente sfuggire al controllo, e senza nemmeno rendertene conto ti ritrovi nel caos.»
«Certo. Giusto. Farò una lista.»
«Buona idea. Le liste sono molto utili. Allora ci vediamo domani. Sarò lì per le quattro. Magari alle quattro e un quarto se c’è traffico. Ma se non trovo code potrei arrivare persino un po’ prima, dipende. Se il traffico sulla circonvallazione è scorrevole...»
«Ciao, Mark.»
«Okay, ciao, piccola.»
Mi sono sempre chiesta come avrei reagito se mi fossi trovata a faccia a faccia con un intruso. Avrei gridato come una pazza? Avrei provato con la tecnica «stordisci e scappa» che mi hanno insegnato alla lezione di autodifesa l’anno scorso, nella palestra dell’università? Avrei afferrato la prima arma a portata di mano – un coltello da cucina, un vaso pesante, un attizzatoio − oppure mi sarei bloccata?
Ebbene, a quanto pare farei tutte e quattro le cose, in questo preciso ordine.
Quando un giovanotto trasandato fa irruzione nella cucina di mia madre dalla porta sul retro, sono così spaventata che grido, sollevo le braccia nella posizione base dell’autodifesa − ma forse sembra solo che stia ballando YMCA −, afferro il primo oggetto che mi capita sotto mano (nel mio caso una spugnetta per i piatti), e poi rimango lì, terrorizzata.
«Cosa... cosa vuoi?!» strillo, minacciandolo con la spugnetta come se questa fosse un crocifisso e lui un vampiro.
Lui si blocca, una mano ancora sulla maniglia e un’espressione sbalordita sul viso non rasato. I miei occhi corrono su e giù per il suo corpo, cercando un coltello o addirittura una pistola. Vedo i jeans scoloriti e la maglietta logora, le mani sporche. Ha i capelli arruffati, lunghe ciocche gli cadono sulla fronte, e uno sbaffo di terra sul mento. Non può essere più vecchio di me, forse ha persino qualche mese in meno, e in cinque secondi decido che vive allo sbando, di sicuro è un tossicodipendente, e senza dubbio è qui per rubare gli oggetti di valore di mia madre e rivenderli per comprarsi la cocaina. Noto le sue braccia forti e muscolose e concludo che non è molto più alto di me, ma è senza dubbio più forte, e contro di lui non ho alcuna possibilità.
«Se ti avvicini mi metto a urlare così forte da tirare giù la casa!»
Lui fa un passo avanti.
Io agito freneticamente la spugnetta.
«Giuro che se ti avvicini ancora io... io...»
«Mi lavi?»
L’espressione è rilassata ora, sembra vagamente divertito mentre mi guarda con curiosità. Mi chiudo il colletto della camicia. Le mie gambe, ancora deboli per le notizie di quel mattino, ricominciano a tremare.
«Co... cosa vuoi?»
«Solo un bicchiere d’acqua», risponde, calmissimo.
Passo in rassegna gli episodi dei miei telefilm polizieschi preferiti cercando informazioni sui delinquenti che chiedono alle donne un bicchiere d’acqua per poi ucciderle. So che non appena gli volterò le spalle mi salterà addosso e mi butterà a terra. O forse tirerà fuori un coltello e mi taglierà la gola prima di fuggire con il lettore DVD di mia madre.
«Vattene da casa mia!» grido furiosa, lanciandogli addosso la spugnetta. Lo colpisce dritto in faccia con un fragoroso schiocco.
«Ehi, mi arrendo!» Alza le mani, stringendola. «Sono solo il giardiniere!»
«No, non è vero! Mia madre non ha un giardiniere!»
Prendo un coltello dallo scolapiatti, e il sorriso ironico dello sconosciuto si trasforma in panico.
«Sei pazza? Mi ha assunto stamattina!»
«Mia madre non lo farebbe mai.»
«Allora devo essermelo sognato!»
Proprio in quel momento sento sbattere la porta d’ingresso.
«C’è nessuno?» chiama mia madre.
La mia mente lavora alla massima velocità. Devo gridarle di scappare? Di chiamare la polizia? Cercare di guadagnare la libertà trascinandomi dietro la mamma e schizzare fuori dalla porta? Scruto ansiosa il giovanotto, nel tentativo di capire se si darà alla fuga o cercherà di attaccare. E se invece... rifletto guardando gli scarponi da lavoro incrostati di fango.
«Ah, vi siete già conosciuti, allora», cinguetta mia madre, posando una borsa della spesa sul tavolo. Ha il respiro affannato. Si mette le mani sui fianchi e aspetta di riprendere fiato. «Santo cielo, come sono fuori forma!» Ride. «Forse dovrei iniziare ad andare in palestra.»
Il suo sguardo passa da me al giovanotto e viceversa, quando vede il coltello che stringo nella mano tremante.
«Meg, cosa cavolo stai facendo?»
«Mamma, chi è quest’uomo?» le domando, brusca, già sapendo di aver commesso un terribile errore.
«Il giardiniere, è ovvio. Chi vuoi che sia?»
Mi toglie il coltello di mano e senza dare nell’occhio lo infila in un cassetto.
«È passato qui stamattina in cerca di lavoro e ho pensato che in effetti avevo bisogno di una mano. Ed è partito già così bene!»
«Ma avevi detto che non volevi un giardiniere», esclamo, incredula e imbarazzata.
«Quando mai l’ho detto?»
«Ieri!»
«Be’, ieri era ieri. Onestamente, tesoro, non capisco perché te la prendi tanto. In fondo è stata una tua idea, no?»
Alza gli occhi al cielo, come per dire: «Mia figlia, che sciocca!»
Lui le sorride.
«Vuole un bicchiere d’acqua, Ewan?» gli domanda educatamente, mettendo via la spesa.
«Se non disturbo troppo», risponde lui, guardandomi con un sorriso malizioso.
Io vorrei strisciare sotto il tavolo e sprofondare.
«Nessun disturbo. Meg, per favore, dagli un bicchiere d’acqua, ti spiace?» mi chiede, la testa già infilata in un armadietto.
Ammutolita per l’umiliazione, riempio un bicchiere con l’acqua del rubinetto e glielo porgo, evitando di guardarlo. Lui lo beve tutto d’un fiato, si asciuga la bocca con il dorso della mano sporca e mi restituisce il bicchiere.
«Grazie, sei molto gentile.»
Gli lancio una rapida occhiata. I suoi occhi nocciola brillano di ironia e un sorriso gli aleggia sulle labbra. Il fatto che sia palesemente divertito dal mio imbarazzo mi fa venire voglia di prenderlo a schiaffi.
«Non c’è di che», replico con un sorriso forzato.
Mi giro ed esco dalla cucina, calcolando quanto tempo gli ci vorrà per ripulire il giardino e sparire, così che non debba rivederlo mai più.