AVREI sposato Johnny Miller. Sarebbe stato mio per sempre. Non mi sfiorò nemmeno l’idea che mi avesse invitata alla sua festa di compleanno solo perché mia madre forniva un eccellente servizio di catering e mi depositava davanti alle case della gente con montagne di sandwich, gelatine di frutta, torte, hot-dog e meringhe. Ai miei occhi, il fatto di essere l’unica femmina della classe ad aver ricevuto l’invito significava che Johnny doveva essere innamorato di me.
«Non c’è dubbio, ti ama», confermò Tracey Pratt mentre scrivevamo quel fatale tema intitolato I miei primi ricordi. «Promettimi che sarò la tua damigella», aggiunse. «Voglio indossare un abito rosa con le roselline. Te lo faccio vedere.»
Girò il foglio e iniziò a disegnare un vestito con enormi maniche a sbuffo e cuoricini ovunque.
«È davvero stupendo», mormorai estasiata, dando un’occhiata dalla parte opposta dell’aula, dove Johnny stava lanciando palline di carta contro la schiena di Podge Parkinson.
«Anche secondo me», convenne Tracey. «È di sicuro il più bello della classe. Sei così fortunata che ti ami!»
Io ero al settimo cielo e vedevo già la mia vita con Johnny spiegarsi davanti a me come un sogno meraviglioso. Mi vedevo con un sontuoso abito bianco, mentre le colombe si libravano nel cielo. Immaginavo due bambini, magari gemelli, e una bella casetta in campagna. Fantasticavo di salutare Johnny con un bacio quando partiva con la sua grossa auto lucente per andare in ufficio, dove faceva qualcosa di importante che richiedeva giacca e cravatta. Lui non avrebbe mai permesso che ci tagliassero il gas, e non avremmo dovuto raccogliere le perdite d’acqua in un secchio come faceva mia madre. Il padrone di casa non avrebbe mai bussato rabbioso alla nostra porta, e le tubature non avrebbero fatto rumore di notte. Avremmo avuto dei gattini e un giardino enorme, un caminetto e vacanze esotiche, e mi avrebbe portato dei fiori tutte le sere.
Come potevo aspettarmi che cinque minuti dopo i miei sogni sarebbero stati infranti? Che mi sarei ritrovata davanti ai miei compagni, rossa di imbarazzo, mentre Johnny Miller, l’amore della mia vita e la mia speranza di felicità futura, mi chiamava «stupida»? Che Tracey Pratt, la mia migliore amica e probabile damigella, si sarebbe rivoltata contro di me dandomi della bugiarda? Che per il resto del semestre sarei stata evitata dai miei amici, perché non volevano più avere niente a che fare con una che a otto credeva ancora che i gamberetti potessero correre sbuffando?
Non dimenticherò mai quel giorno, quando all’uscita di scuola mi avvicinai a Johnny Miller per dargli la risposta al biglietto di invito, dove avevo orgogliosamente contrassegnato la casella Sì, sono felice di partecipare alla tua festa.
«Non vedo l’ora», gli dissi educata, arrossendo, ancora aggrappata al mio sogno di un futuro insieme.
Alle spalle di Johnny, Podge Parkinson e Jamie Brunt ridacchiavano sotto i baffi.
«Assicurati che non porti i gamberetti», sussurrò Jamie. «Potrebbero scappare via!»
Podge scoppiò in una risata sibilante, da asmatico.
Johnny giocherellava con la cravatta della divisa scolastica, imbarazzato. «La festa è stata annullata», disse in fretta, e senza nemmeno guardarmi in faccia scappò via.
Io rimasi lì a fissare il biglietto d’invito. Avevo intenzione di mettermi il vestito azzurro nuovo e le ballerine con un pochino di tacco. Avrei dato fondo a tutti i miei risparmi per comperargli una pistola ad acqua.
Non ci fu bisogno di sentire sua madre gridare «Ci vediamo sabato!» alla mamma di Jamie, per sapere che la festa ci sarebbe stata.
Non mi volevano perché Johnny credeva che fossi una stupida e una bugiarda.
«Non devi essere così timida, sai?»
Mi blocco a metà di un passo. Come ha fatto a sentirmi? Mi sono mossa silenziosa come un topolino. O così credevo. Maledico mia madre per aver insistito perché portassi al nuovo giardiniere un caffè e una fetta di torta alle noci. In fondo lo paga, non posso credere che si senta in dovere di dargli anche da mangiare! Dopo essermi avvicinata di soppiatto e aver lasciato lo spuntino per terra, tra la sua felpa e una fila di cavolfiori, ero sinceramente convinta di poter tornare in casa senza che lui se ne accorgesse. Ma proprio mentre mi allontanavo in punta di piedi, sono stata bloccata dalla sua voce, proveniente da un punto imprecisato del frutteto. I rami dei meli che crescono troppo vicini tra loro sono un viluppo di foglie e frutti, così fitto che è impossibile vederci attraverso, ma lui doveva essere lì da qualche parte, a spiarmi mentre mi aggiravo di soppiatto in giardino.
«Cosa c’è? Hai paura?»
Mi volto di scatto, scrutando attraverso i rami e le foglie, irritata da quell’insinuazione. Mi sta trattando con condiscendenza, mi prende in giro per la mia reazione di ieri, quando l’ho minacciato con la spugnetta per i piatti. Be’, mi dispiace, ma non credo sia assurdo spaventarsi se uno sconosciuto dall’aspetto trasandato irrompe nella tua cucina senza preavviso. Sto per dirglielo, quando lui parla di nuovo.
«Su, non fare la timida, dolcezza. Abbi un po’ di fiducia in te stessa. Credo che potresti essere uno schianto se solo lo volessi.»
Rimango a bocca aperta. Dolcezza? Schianto? Razza di sfrontato! Dev’essere uno di quegli uomini che si credono irresistibili, dei casanova o delle «adorabili canaglie», capaci di ammaliare le ragazze con un sorriso malandrino e gli occhi che brillano. Sfortunatamente per lui, trovo che i suddetti individui siano misogini, irritanti e banali, e non noto proprio nulla di affascinante in loro.
«Sei molto bella, lo sai?»
Ha una voce dolce e profonda, che porta con sé il sapore dell’estate; per un attimo, mio malgrado, sento un sorriso aleggiare agli angoli della bocca. Bella? Davvero? Mark non me l’ha mai detto. Una volta ha commentato che ero molto carina con i capelli infilati dietro le orecchie, però non ha mai usato la parola «bella». Ma che cosa mi salta in mente, di sentirmi lusingata da quest’uomo? Non dovrebbe parlarmi in questo modo. Se mia madre insiste per farlo lavorare qui, dovrà imparare che il suo compito è tagliare l’erba e potare la siepe, punto. In pratica sono la sua datrice di lavoro, per l’amor del cielo!
Mi inoltro nel frutteto scostando i rami, e calpesto un rotolo di spago, delle cesoie e una cassetta di legno che lui ha abbandonato alla rinfusa senza curarsi della sicurezza degli altri. Dopo essermi aperta un varco con la forza tra le foglie di un melo, mi ritrovo a guardarlo dritto in faccia.
«Sono fidanzata», lo informo secca, inciampando su un pezzo di rete che mi si è impigliato intorno al piede. «Con un docente di fisica.»
Lui mi guarda senza battere ciglio. «Buon per te», commenta. Mi fissa incuriosito mentre barcollo verso di lui scalciando via la rete che mi intrappola le caviglie.
«È proprio la persona che fa per me», insisto io. «È un fisico molto quotato.» Mi aggrappo al tronco di un albero per non cadere. «Quindi non credo sia appropriato che tu...»
«Vuoi che ti aiuti?» mi interrompe lui, chinandosi per liberarmi.
«Ce la faccio da sola, grazie», ribatto, così brusca che lui indietreggia. Rendendomi conto che tutto quel dibattermi è servito soltanto a stringere ulteriormente la rete intorno ai piedi, decido di appoggiarmi al tronco con le braccia conserte, come se stessi comodissima. «Comunque, dicevo, ho un fidanzato», proseguo come se niente fosse. «E quindi non credo sia appropriato che tu mi chiami ‘dolcezza’ e faccia commenti sul mio aspetto. Inoltre, giusto per la cronaca, non c’è niente di te che mi incuta timore, a parte il fatto che ieri ti sei introdotto nella mia cucina senza usare la cortesia di bussare.»
Lui mi fissa perplesso, come se stessi parlando in un’altra lingua. Cerco di ricordare se inavvertitamente ho usato delle parole difficili che potrebbe non conoscere. Poi, lentamente, la comprensione si fa strada sul suo viso.
«Oh, non avrai pensato... No, non stavo parlando con te!»
Io mi guardo intorno confusa, come se ci fosse la possibilità che qualcun altro si nasconda nel frutteto. E poi capisco. Adesso mi è tutto chiaro: è in imbarazzo perché ora sa che sono fidanzata, e così sta cercando di rimangiarsi i commenti sessisti di poco fa. Forse teme che il mio ragazzo sia un palestrato alto un metro e novanta, pronto a pestarlo a sangue se sapesse che mi ha definita uno schianto. In realtà, l’unica volta che ho visto Mark geloso è stato quando l’ho battuto a Trivial Pursuit, e anche allora si è trattato più di fastidio che di gelosia vera e propria, ma questo il giardiniere non lo può sapere.
«Ah, d’accordo», replico annuendo con l’aria di chi non ci crede neanche un po’. «Non stavi parlando con me. Quindi è evidente che ti stavi rivolgendo a...» Fingo di cercare qualcuno nei paraggi. «... quel bruco, vero?»
Mark dice sempre che il sarcasmo è la forma più bassa di umorismo ma sinceramente a me piace. È palese che non c’è nessuno lì, oltre a noi, perciò dovrà ammettere che stava cercando di attaccare discorso con me e che si è cacciato in una situazione molto imbarazzante. Non mi è mai piaciuta l’espressione «non al mio livello» perché è piuttosto arrogante, ma in fin dei conti il mio ragazzo è un fisico e lui soltanto... Insomma, che cosa cavolo pensava di fare?
Il giardiniere è a disagio, e tenta di nascondere un sorriso che, chiaramente, è dettato dal senso di colpa e dall’imbarazzo per il suo comportamento inadeguato.
«No, non stavo parlando al bruco», ammette, studiando la disgustosa creatura gialla e pelosa che striscia su un ramo. «Non lo definirei mai una bellezza. E nemmeno timido, se è per questo. Prima ho provato a chiacchierare con lui, ma non ha spiccicato parola. No, in effetti stavo parlando a questa pianta.»
Dà un colpetto al tronco del melo di fianco a lui e io per poco non scoppio a ridere di fronte a quella bugia ridicola. Tutto qui quello che ha saputo inventare? Se mi avesse detto che era davanti a uno specchio e parlava con se stesso sarebbe risultato più convincente. Ma mentre alzo gli occhi al cielo come per dire Per favore! mi rendo conto che lui è serissimo.
Gli rivolgo un’occhiata interrogativa. «Cosa?»
«Be’, guardalo», risponde. «Non ha frutti. I suoi rami sono rivolti verso l’interno come se cercasse di nascondersi. Le sue foglie sono piccole e opache, come se non volesse attirare l’attenzione. È evidente che si vergogna di se stessa. È il classico esempio di pianta timida.»
Lo scruto per capire se sta scherzando. «Una pianta timida?» ripeto. Dev’essere una delle frasi più strane che abbia mai pronunciato.
«Una delle più timide che mi sia capitato di incontrare, in effetti. Ed è un peccato, perché, come le stavo dicendo», aggiunge con grande enfasi, «potrebbe davvero fiorire se si lasciasse andare un po’. Sarebbe una vera bellezza. Stavo cercando di incoraggiarla, capisci?»
Mi ci vuole un momento per realizzare che, primo, lui è serissimo; e, secondo, se è serio significa...
«Non stavo cercando di rimorchiarti», prosegue lui. «E mi dispiace di averti dato l’impressione sbagliata.»
Benché si stia sforzando di sembrare dispiaciuto di fronte al mio imbarazzo, noto che trattiene a stento un sorriso e mi è chiaro, ancora una volta, che la mia figuraccia lo ha divertito.
«Non immaginavo... Io...» balbetto. Come faccio a rimediare? Non posso aver creduto davvero che stesse dicendo quelle cose proprio a me. Ma aspetta un attimo, perché dovrei essere io a sentirmi sciocca? In fondo è lui quello che chiacchierava con il melo!
«Quale persona sana di mente parlerebbe con gli alberi?» domando, brusca, cercando di riportare l’attenzione su di lui e di distoglierla dal mio imbarazzante equivoco.
«Un sacco di persone», risponde lui, senza scomporsi. «Lo si fa da sempre. In tutto il mondo i popoli pensano di poter comunicare con gli alberi, e il loro spirito ha un ruolo di primo piano in moltissime culture diverse. Nativi americani, indù, celti...»
«Solo perché in quelle culture sono ancora radicate delle credenze primitive», ribatto in tono autorevole, decisa a dimostrare che è lui quello che uscirà dalla discussione sentendosi sciocco, non io. «Ma questa è l’Inghilterra del ventunesimo secolo. Se vuoi far crescere un albero provi con i fertilizzanti, non sprechi tempo a parlargli.»
«Le sostanze chimiche non sono neanche lontanamente efficaci come un po’ di incoraggiamento gentile o qualche carezza.»
«Carezze? Stai scherzando...»
«Non puoi certo picchiarli, no?»
«E in che modo, di preciso, questo aiuterebbe un albero a crescere?»
Lui assume un’aria pensierosa, come se gli avessi fatto una domanda affascinante e sconcertante insieme, sulla quale riflette da molto tempo. «Non lo so di preciso...»
Sospiro. Se c’è una cosa che non sopporto sono questi tipi new age, gente che se ne va in giro ad abbracciare gli alberi e a blaterare di vibrazioni e spiriti, anime ed energia, come se avesse la più pallida idea di che cosa significhi energia, nel vero senso scientifico della parola. Persone che affermano di credere ai fantasmi e alla telepatia senza nemmeno essere in grado di difendere le proprie teorie con dei dati o delle spiegazioni attendibili, e che basano la loro supposta conoscenza soltanto su un’intuizione o una sensazione.
«Gli alberi non hanno un’anima, o uno spirito, e di certo non ti capiscono», dichiaro. «Sono tutte fesserie.»
Anziché difendersi, come farei io se fossi nei suoi panni, lui alza le spalle. È evidente che la mia opinione non gli interessa, e non ha intenzione di rinunciare alle sue convinzioni infondate. Non ho mai capito come certa gente possa essere così, lo trovo frustrante e sconvolgente. Se qualcuno confuta le tue teorie, lo scopo del gioco è provargli che tu hai ragione e lui torto.
«Be’», ribatte lui come se niente fosse, «non c’è nulla di male a comportarsi in modo un po’ assurdo ogni tanto, no? Penso che tutti abbiamo bisogno di un pizzico di irrazionalità nella vita, di quando in quando, non credi?»
Mi fissa sorridendo, gli occhi nocciola che brillano allegri nel sole. Al contrario, non c’è nessun bisogno di irrazionalità nella vita, penso io. Che senso avrebbe? Quel tizio è ridicolo. Ma, chissà perché, sono io quella che arrossisce.
«Il giardino è un gran caos», mi affretto a dire. «E tu non dovresti perdere tempo a preoccuparti di un singolo albero. Sono sicura che a mia madre non interessano poche misere mele.»
«Misere!» esclama lui, fingendo indignazione. «Come puoi fare un’affermazione simile? Le mele non sono mai misere.»
Ruota con delicatezza uno dei piccoli frutti verdi appesi al ramo di un albero vicino e osserva il sole scintillare sulla buccia lucida.
«Guardala», mi dice, con lo stesso tono estasiato che chiunque altro userebbe di fronte a un Monet. «È perfetta.»
Me la porge, tenendola sul palmo calloso, e io la prendo con riluttanza, guardandola con aria sprezzante.
«Gli uomini hanno viaggiato in lungo e in largo per il mondo per delle misere mele, come le chiami tu», aggiunge. «Pensa a Ercole.»
«Non mi interessano i fumetti.»
A quanto pare trova divertente il mio commento. Anzi, scoppia a ridere. Non ho idea di che cosa possa aver detto di tanto buffo, e se c’è qualcosa che non sopporto è che la gente rida di me. Soprattutto se non so perché.
«Cosa c’è?» domando, scocciata.
«Non è un fumetto. Ercole era un eroe della mitologia greca che dovette affrontare dodici fatiche, e l’undicesima fu recarsi in una terra lontana a prendere delle mele che crescevano in un giardino cinto da alte mura.»
Mi fissa per vedere se ho capito. Io invece lo guardo con aria annoiata, per dimostrargli che non me ne importa niente di quelle storielle. Di certo non mi imbarazzerò perché non conosco delle favole. Anzi, considero la mia ignoranza in materia un segno di intelligenza superiore, la prova che ho questioni ben più importanti a cui pensare. È chiaro che chiunque conosca le fiabe a menadito ha sprecato la propria giovinezza.
Il giardiniere accarezza i rami malaticci dell’albero timido e continua a raccontare, ma non sono sicura se lo faccia per me o per il melo.
«A Ercole fu assegnato il compito di andare a prendere delle mele che crescevano in una terra lontana. Strada facendo si imbatté in Prometeo, che era stato incatenato a una roccia da Zeus, come punizione per aver donato il fuoco agli uomini. Ogni giorno un’aquila gli mangiava il fegato, che ricresceva durante la notte solo per essere divorato di nuovo la mattina seguente. Ercole, inorridito da tanta sofferenza, uccise l’aquila con una freccia e liberò Prometeo dalle catene. Quest’ultimo, per dimostrargli la sua imperitura gratitudine, lo mise in guardia sulla pericolosità dell’impresa a cui si accingeva. I mortali che entravano nel giardino, lo avvisò, sarebbero stati uccisi dal drago che viveva al suo interno. Consigliò a Ercole di chiedere ad Atlante di introdursi nel giardino al posto suo, perché lui era immortale e quindi poteva raccogliere le mele senza timore di perdere la vita.
«Dopo un duro viaggio sulle montagne, Ercole giunse infine ai piedi del muro di cinta del giardino, e lì trovò Atlante: reggeva l’intera volta celeste sulle spalle come punizione per aver mosso guerra contro Zeus.
«‘Se accetti di entrare nel giardino e portarmi le mele’, gli disse Ercole, ‘terrò il cielo sulle mie spalle finché non tornerai.’
«Ad Atlante piacque l’idea di cedere a qualcun altro quel peso enorme per un po’, e acconsentì. Passò il suo fardello a Ercole e penetrò nel giardino, dove sconfisse il drago e si impadronì delle mele. Ma quando tornò e vide Ercole faticare per reggere la volta celeste, si rese conto che sarebbe stato un pazzo a riprenderla sulle proprie spalle.
«‘Puoi tenerti il cielo’, gli disse, ‘e io mi terrò le mele.’
«A quel punto Ercole dovette pensare in fretta. Finse di accettare il patto e promise ad Atlante che, se si fosse ripreso il cielo solo per un minuto, mentre lui si procurava un cuscino per stare più comodo, sarebbe tornato immediatamente e lo avrebbe sorretto per sempre. Atlante, confidando nel fatto che Ercole avrebbe mantenuto la parola, acconsentì. Ma non appena si rimise il fardello sulle spalle, Ercole afferrò le mele e fuggì, seguito dalle imprecazioni di Atlante.»
Il giardiniere accarezzò con aria sognante il melo, perso in un mondo tutto suo.
«È la storia più ridicola che abbia mai sentito», commento.
Lui alza le spalle, come se essere definito ridicolo non gli facesse alcun effetto.
«Era solo per farti capire fino a che punto possono arrivare le persone per qualche misera mela», osserva.
«Non dimostra proprio niente. Anzi, non ha senso. Ci sono così tante assurdità. Per esempio, non c’è alcuna prova dell’esistenza degli dèi. E nemmeno dei draghi. E anche supponendo che il cielo sia un luogo fisico, dove magari tu credi che tutti andremo un giorno, di certo non ha una forma tangibile tale da poter essere retto sulle spalle. Inoltre, nessun fegato può rigenerarsi durante la notte. È anatomicamente impossibile. Quel tizio, Prometeo, sarebbe morto la prima volta che l’aquila lo ha attaccato, e se anche non fosse morto, avrebbe avuto bisogno di urgenti cure mediche. Ercole avrebbe dovuto chiamare un’ambulanza anziché preoccuparsi di un cesto di vecchie mele.»
Il giardiniere sorride, come se ci fosse qualcosa di divertente. I suoi occhi guizzano sul mio viso; sta cercando di decifrarmi. «Hai ragione», ammette. «Le tue sono tutte obiezioni ragionevoli. Suppongo che chi ha inventato questa storia non abbia riflettuto a dovere sui particolari.»
«Le persone a cui piacciono queste storie raramente ci riflettono a fondo», ribatto.
«Ma non sarebbe un granché se togliessi gli dèi, il drago, l’aquila e il cielo, non credi? Non rimarrebbe altro che un tizio che va a prendere delle mele e poi torna a casa.»
«E cosa ci sarebbe di sbagliato?» Non vedo dove sia il problema. «Se le persone sentono l’esigenza di raccontare storie, queste come minimo dovrebbero rispecchiare la vita vera.»
Il giardiniere mi guarda sconcertato, come se non avessi colto il punto. «Ma le favole sono fatte proprio per portarti lontano dalla vita vera. Per aiutarti a sfuggire alla realtà.»
«Perché mai si dovrebbe desiderare di sfuggire alla realtà?» obietto, scocciata.
Lui si gratta la testa. «Be’, perché a volte la vita è dura. Ogni tanto fa bene fuggire e permettere a se stessi di perdersi in un mondo fantastico...»
«Esatto, ci si può perdere», replico, inflessibile. «Ci si può perdere e non ritrovare più la strada per tornare indietro.» Mi accorgo che il cuore mi batte forte e ho alzato la voce.
Il giardiniere mi guarda con diffidenza, e mi accorgo che non è questa la reazione che si aspettava di suscitare con la sua storia.
«Non credo che fantasticare un po’ di tanto in tanto possa essere pericoloso», afferma.
Sento la collera montarmi nel petto. Non sa di che cosa sta parlando! Se pensa che fantasticare un po’ non possa fare male, che sia semplice divertimento, dovrebbe provare a vivere la mia vita per un giorno! Se pensa che non ci si possa perdere da qualche parte tra la realtà e la finzione, dovrebbe provare a vivere con mia madre. Ma che senso avrebbe dirglielo? Come posso aspettarmi che un uomo che parla con gli alberi capisca? È già dalla parte sbagliata del baratro tra la sanità mentale e la follia. E non ho intenzione di perdere tempo a tentare di farlo ragionare.
Così gli metto in mano la mela. «Tienila», affermo con aria altezzosa. «Io non la voglio.»
Lui se la rigira tra le mani, sconcertato dalla mia acredine, e io mi volto per andarmene, inviperita dalla sua ignoranza.
Invece cado e mi ritrovo a faccia in giù tra due alberi. Avevo completamente dimenticato la rete che mi avviluppa i piedi.
«Ti sei...»
«Sto benissimo, grazie», rispondo prima che abbia il tempo di avvicinarsi.
Imbarazzata, tiro rabbiosamente la rete, che si strappa. Riesco a liberare una gamba, ma il groviglio rimane attaccato all’altro piede. Sollevandomi da terra, mi spolvero i vestiti ed esco a testa alta dal frutteto come se esibissi un nuovo accessorio all’ultima moda.
«È un idiota assoluto», racconto a Mark quando arriva, nel pomeriggio. «Insomma, una persona sana di mente non parla certo con gli alberi, no? E poi ha iniziato a raccontarmi una storia fantastica a proposito di mele, draghi e chissà cos’altro!»
«Sembra completamente pazzo. Quanto lo paga tua madre?»
«Oh, non lo so. Troppo. E sembra che non stia facendo niente di utile. A quanto pare ha bussato alla porta chiedendo lavoro. Probabilmente non sa nulla di giardinaggio. Sarà uno di quei nomadi che stanno nel campo vicino all’autostrada. Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere un delinquente.»
Mark stappa la costosa bottiglia di vino che ha portato e la mette al centro del tavolo, mentre io apparecchio sbattendo con rabbia coltelli e forchette. Lui mi segue raddrizzandoli.
«Be’, in effetti hai detto che volevi che tua madre assumesse un giardiniere.»
«Non questo.»
Mi mette le mani sulle spalle e mi fa girare verso di sé. «Dimenticati di lui. Come stai?»
Sospiro e mi abbandono contro di lui. Mi sento così al sicuro tra le sue braccia, così protetta; naturalmente lui non deve saperlo, però. Ho a malapena il coraggio di ammetterlo con me stessa. A ventun anni non dovrei avere bisogno di nessuno che mi protegga. E infatti non ne ho. È solo che a volte...
«Bene», rispondo raddrizzandomi.
Lui mi sorride, orgoglioso. «Non avevo dubbi», replica e mi dà qualche colpetto affettuoso sulla schiena. «Sei la ragazza più in gamba che conosco.»
Un pensiero irrompe nella mia mente senza essere invitato: E se non lo fossi? Se crollassi? Mi vorrebbe lo stesso? Scaccio quell’idea dalla testa, chiedendomi da dove sia saltata fuori.
«Mark! Che piacere rivederti!»
Mia madre entra in cucina, asciugandosi i capelli con un asciugamano rosa. Pur sapendo del suo arrivo è rimasta al piano di sopra a farsi un lunghissimo bagno. Lei insiste che non è vero, ma ho sempre l’impressione che non gli sia molto affezionata, non nel modo incondizionato che io vorrei, considerato che si tratta del futuro genero. Non la capisco. Mark è intelligente, alto, bello e viene da una buona (e piuttosto ricca) famiglia. Che cos’altro potrebbe desiderare per me?
«Hai un aspetto magnifico!» gli dice raggiante, attirandolo a sé per un bacio.
«Anche lei», risponde lui con poca convinzione. E quasi senza premurarsi di nascondere lo choc nel vederla così cambiata. Mark si sottrae rapidamente al suo abbraccio, sembra a disagio e un po’ spaventato. Non ha mai sopportato la malattia. Nella sua mente è collegata alla debolezza, che lui detesta. Lo ammiro per l’importanza che dà alla forza e alla resistenza, e mi piace pensare che siano valori che condividiamo, ma potrebbe almeno mostrare un po’ più di tatto.
«I fiori sono per lei», annuncia indicando dei bellissimi e delicati gigli bianchi che ha disposto armoniosamente in un vaso di vetro.
«Oh, che caro», esclama mia madre, raggiante. In realtà so che i gigli non sono tra i suoi preferiti. «Sei stato così gentile a portare qui le cose di Meggie. Non capisco però come mai le serva tutta quella roba. In fondo ha deciso di rimanere solo per un’altra settimana.»
Mentre apre il forno e controlla il pollo arrosto, agitando l’asciugamano per disperdere il fumo, sento gli occhi di Mark su di me. Non voglio ricambiare lo sguardo. Non sono riuscita ad affrontare le fantasie di mia madre come lui avrebbe voluto. Mamma non si è resa conto che non tornerò a Leeds, dal momento che per lei tutto va per il meglio. So che Mark è convinto che dovrei costringerla a guardare in faccia la realtà, però lui non si rende conto di quanto sia difficile. Comunque, sento che è contrariato.
«Per favore, metti un altro coperto a tavola, Meg», mi dice la mamma, punzecchiando il pollo con un forchettone. «Ewan cena con noi.»
«Il giardiniere? Come mai?»
«Perché ha lavorato sodo tutto il giorno e ho insistito che si fermasse a mangiare con noi, ecco perché. E ha un nome, sai? Non l’hanno battezzato Giardiniere.»
«Ma noi non invitiamo gente a cena. Non l’abbiamo mai fatto.»
«Be’», ribatte infilando di nuovo il pollo nel forno, «è ora di iniziare, non credi?»
Non so che cosa mi faccia sentire più a disagio, mia madre che va d’amore e d’accordo con il giardiniere o il fatto che Mark lo detesti. Dopo aver chiesto al giardiniere di togliersi gli stivali fuori dalla porta sul retro, Mark non fa alcun tentativo di nascondere il disgusto per lo stato dei suoi calzini logori, per il fango sotto le unghie e lo strappo sulla camicia sbiadita. C’è qualcosa nelle sue maniere che mi mette in imbarazzo. È vero, il giardiniere è trasandato, un sognatore ingenuo e senza dubbio estremamente rozzo, ma io non mi permetterei mai di far sentire inferiore qualcuno di proposito. Non cercherei mai di affermare me stessa facendo leva sulla mia superiorità intellettuale. Giusto? Sì, sono sicura che non lo farei mai.
A onor del vero, il giardiniere è sorprendentemente educato e per la maggior parte del pasto Mark e io sembriamo superflui. Mia madre ascolta ammaliata le sue storie sulla coltivazione di frutta e verdura e, a meno che non sia un attore fantastico, lui sembra altrettanto affascinato quando lei racconta come le cucina.
«Non uso mai pesticidi», le assicura, infilandosi in bocca una forchettata di patate arrosto.
«Sono assolutamente d’accordo!» esclama lei, posando il bicchiere sul vecchio tavolo di quercia con tanta forza da far schizzare il vino. Ha le guance rosse ed è più chiassosa del solito. Decisamente brilla.
«Ma come fai a tenere le lumache lontane dall’insalata senza usare pesticidi? Ho provato con i gusci delle uova, ma può essere un po’ rischioso.»
Più che brilla, in effetti.
«Basta spiegarglielo. Le lumache rispondono bene alle spiegazioni», dice il giardiniere. «Hanno il cuore e il cervello sensibili. Non intendono fare alcun male, solo che non si rendono conto di aver invaso il tuo orto.»
Mia madre annuisce, come se quella fosse una soluzione più che ragionevole. «Capisco.»
Mark e io ci scambiamo uno sguardo indignato.
«Non puoi crederci davvero!» lo prende in giro Mark.
Il giardiniere alza le spalle. «Certo che ci credo. Prova a dirgli che non le vuoi tra i piedi, che quella è la tua insalata e non ti va che altre creature la mangino. Non avventurarti in spiegazioni legali, però, perché le confonderesti.»
Guarda Mark dritto negli occhi, del tutto a suo agio. Mark lo fissa sospettoso, cercando di capire se stia scherzando o no. Lentamente, un sorriso illumina il viso del giardiniere.
«Oh, stavi scherzando», osserva Mark, che non è affatto divertito.
Ma il giardiniere scuote la testa.
Non saprei dire se è serio oppure no, e nemmeno Mark. La differenza è che a me non dà fastidio, mentre lui la prende come un’offesa personale se le persone riescono a confonderlo.
«Mi sorprende che tu abbia tempo per chiacchierare con le lumache», gli dice con perfidia. «Non sei già abbastanza occupato a parlare con i meli?»
Temo che il vino abbia dato alla testa anche a lui. Finora è riuscito a mordersi la lingua, accontentandosi di sorridere con condiscendenza e lanciare occhiate sarcastiche. Non ha fatto commenti quando il giardiniere ha suggerito che l’invidia può essere curata con una mistura di lavanda e melissa, e che i canti dei nativi americani incoraggiano la pioggia, o che sputare sui cavoli li libera dalle coccinelle. Ma lui non ha pazienza con la gente che blatera a vanvera.
«Davvero parli con gli alberi, Ewan?» gli domanda mia madre, protendendosi sul tavolo. «Affascinante!»
«Non è affascinante, è folle!» protesta Mark.
«Dipende dai punti di vista», obietta il giardiniere.
«Il mio è quello di una persona sana di mente», ride Mark, appoggiandosi allo schienale.
«A me piace parlare con gli alberi», mormora mia madre con aria sognante.
«Allora dovrebbe farlo», la incoraggia il giardiniere. «Loro lo gradiscono. Li aiuta a crescere.»
«No, mamma, non dovresti», intervengo io, furente. L’ultima cosa di cui ha bisogno è che qualcuno la sproni a comportarsi in modo bizzarro.
«Ma tesoro, se a loro piace e li aiuta a crescere...»
«Non esiste alcuna ragione scientifica per cui gli alberi dovrebbero crescere meglio solo perché si è carini con loro», la interrompe Mark.
«In verità», ribatte il giardiniere stropicciandosi il mento ispido con le unghie sporche, «ci sono diversi studi scientifici a dimostrazione del fatto che le piante rispondono alle emozioni umane. Il saggio di Cleve Backster, ‘Prove dell’esistenza di una percezione primaria nel mondo vegetale’, è probabilmente uno di più conosciuti. Dovreste leggerlo. Ha sottoposto le sue piante a dei test con il poligrafo e ha scoperto che reagiscono ai pensieri e alle minacce. Ed è stato dimostrato che oltre un migliaio di varietà di piante sono sensibili al tocco umano. Darwin fu il primo a suggerire che i vegetali possiedono un sistema nervoso centrale, basandosi sullo studio della Dionaea Muscipula. Che, per inciso, è la comune pianta carnivora.»
Mark e io lo fissiamo allibiti.
«Può anche darsi che a volte abbia la testa fra le nuvole», aggiunge guardandomi, «ma questo non significa che non abbia i piedi per terra.»
Arrossisco e abbasso gli occhi sul piatto. Mark, scocciato per essere stato surclassato da quello sfoggio di cultura, beve un sorso di vino.
«Non è affascinante?» commenta mia madre con dolcezza, senza rendersi conto che qualcosa non va. «Gradisci della macedonia, Ewan?»
«No, grazie», rifiuta lui alzandosi e massaggiandosi lo stomaco. «Se volete scusarmi, ho del lavoro da finire in giardino prima che si faccia tardi.»
«Oh no, hai faticato così tanto oggi!»
«La prego», insiste sollevando le mani. «Non mi piace lasciare un lavoro a metà. Uscirò dal cancello sul retro quando avrò finito. Grazie mille per la cena. Era veramente squisita.»
Sulla porta, si infila gli stivali infangati e ringrazia di nuovo mia madre prima di tornare nell’orto.
«Be’, non è una persona fantastica?» cinguetta lei.
Mark e io restiamo in un tetro silenzio, come la squadra sconfitta alla fine di una partita.
La mamma infine avverte la tensione e il suo sorriso si affievolisce. «Bene, credo che andrò a sdraiarmi per un po’», annuncia, e si dilegua.
Io inizio a sparecchiare e riempio d’acqua il lavandino. Mark rimane a tavola senza dire una parola, sorseggiando il vino e leccandosi le ferite. Poi tutto a un tratto annuncia: «Io non ho mai sentito parlare di quell’esperimento di Backster, e tu? Farò qualche ricerca. Probabilmente non si tratta di uno studio scientifico conclusivo. Chiederò a John Stokes all’università, lui di certo lo saprà. E chi è questo Backster, poi? Non è un nome familiare...»
Io a malapena lo ascolto. Dalla finestra osservo il giardiniere che scava, strappa erbacce e le ammonticchia sull’erba. Il sole ha appena iniziato a calare oltre l’orizzonte e dà una sfumatura dorata alle sue braccia muscolose. Lo vedo raccogliere una rana tra i pali di sostegno dei fagioli, tenerla nel palmo e parlarle. Indica il cancello del giardino, come se le stesse dando istruzioni, poi la depone sull’erba con delicatezza. La rana se ne va saltellando e lui ricomincia a zappare, fiducioso che la bestiolina troverà da sola la strada per uscire.
«Meg?»
All’improvviso mi rendo conto che non ho ascoltato una parola di ciò che ha detto Mark, e che l’acqua sta per traboccare dal lavandino. Chiudo in fretta il rubinetto.
«Scusa?»
«È completamente pazzo, no? Quel tizio, il giardiniere.»
Torno a guardare il giardino e vedo la ranocchia uscire saltellando dal cancello, come le è stato indicato.
«Oh sì, certo», annuisco, obbediente. «Completamente pazzo.»