«LONDRA puzza!»
Eravamo alla fermata dell’autobus, sedute sui sedili di plastica sotto la pensilina, e osservavamo la pioggerellina che cadeva sugli edifici grigi di smog, aspettando la 192.
«Davvero, tesoro?» domandò distrattamente la mamma, frugando nel borsellino per controllare di avere abbastanza moneta per arrivare dove dovevamo, qualunque fosse la nostra destinazione. Per quel che ne sapevo quella volta non aveva portato la torta Giamaica, il che significava che non avrebbe potuto convincere il guidatore a farci rimanere a bordo per qualche fermata in più. Se fossimo andate nella direzione opposta sarebbero bastate un paio di porzioni di gelato al cocco, ma per l’autista della 192 serviva la torta Giamaica, altrimenti dovevamo fare gli ultimi chilometri a piedi. Era una persona esigente.
«Se si vive a Londra si sentono solo gli odori delle macchine e degli autobus.»
Come se l’avessi evocata, passò davanti a noi una vecchia BMW con i finestrini scuri e lo stereo a tutto volume, che ci schizzò sui piedi l’acqua fangosa di una pozzanghera e ci sbuffò addosso una nuvola di fumo nero dalla marmitta. La puzza di benzina e olio mi fece venire la nausea.
«Ma a Londra non si sentono soltanto questi odori, giusto, tesoro?»
Mia madre chiuse il borsellino con aria contrariata. A quanto pareva avremmo dovuto fare a piedi l’ultimo tratto.
«Si sentono un sacco di odori meravigliosi, non appena vai oltre quelli del traffico, non trovi?»
Si girò verso di me e io mi strinsi nelle spalle. Era una cosa che facevo parecchio in quel periodo. Stringermi nelle spalle e autocommiserarmi. Pare sia una cosa che fanno tutti i ragazzini, al giorno d’oggi.
«Chiudi gli occhi», disse la mamma.
«Noo!» protestai. Per una ragione o per l’altra, mi chiedeva in continuazione di chiudere gli occhi. Per immaginare questo o visualizzare quello o ricordare qualcos’altro.
«Coraggio, tu inizia e io ti seguo.»
«No!» esclamai, scioccata dal fatto che continuasse a insistere. «L’ultima volta che l’abbiamo fatto ci hanno rubato le borse della spesa.»
«D’accordo, allora prima lo fai tu e poi lo farò io.»
Sembrava così entusiasta che cedetti, solo per farla felice.
«Ora inspira a fondo», mi disse, «e dimmi cosa senti.»
«Macchine e autobus», risposi aprendo di nuovo gli occhi.
«No, provaci con maggior convinzione», insistette lei, dandomi uno schiaffetto sul ginocchio. «Inspira lentamente e a fondo. E dimentica macchine e autobus. Passaci sopra e cerca di cogliere gli odori di sottofondo.»
Feci come mi diceva, respirando lentamente. «Bidoni della spazzatura.»
«E poi?»
Alzai le spalle. Non faceva lo stesso effetto tenendo gli occhi chiusi. Suppongo che la maggior parte del divertimento fosse vedere l’espressione insofferente degli adulti a cui era rivolto il gesto.
«Cassonetti.»
«E?»
«Cacca di cane.»
Mia madre sbuffò. «Ed è tutto?» mi chiese, contrariata.
«Perché, c’è altro?» replicai, sollevando le palpebre e guardandomi intorno. Quella era Tottenham, non erano le Bahamas. Quali odori si aspettava che sentissi? Crema solare e salsedine?
La mamma chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. «Sento profumo di patatine calde appena tolte dalla friggitrice», disse. «E di pollo croccante che arriva dal negozio del signor Donor.»
«Ma se è dalla parte opposta del viale!» protestai.
«E sento l’aroma del peperoncino piccante e dello zenzero che usano per condire il pollo alla griglia che cucinano alla bancarella di cibo giamaicano. E cumino, curcuma e curry del Raja Tandori.»
«Che sta nella seconda traversa da qui.»
Mia madre fece un altro respiro. «E sento il profumo dello sformato di patate con il burro del pub di O’Connell. E poi salame della gastronomia italiana. Prosciutto di Parma, ciabatta appena sfornata e ragù alla bolognese...»
Iniziai ad avere l’acquolina in bocca.
«La carne succosa del Kebab Hut, i peperoncini jalapeños e la pita calda. E il pollo in agrodolce del Ming Che Takeaway. Polpettine di maiale e riso con i gamberetti fritti. Costine in salsa hoisin...»
A quel punto ci stavamo leccando le labbra, fantasticando di cibo caldo in quel giorno freddo e umido.
Mia madre respirò a fondo ancora una volta. «E poi sento la pancetta fritta del B&B della signora Brand; la minestra calda della mensa dei poveri. Oggi è a base di patate e porri, credo. Rotolo ripieno di marmellata e crema pasticcera della scuola elementare Saint Mary. Hamburger e hot-dog dello stadio di calcio. Cipolle fritte, senape e salsa di pomodoro...»
Pe-peee!!!
Saltammo sul sedile quando una macchina passò strombazzando e ci riportò bruscamente al presente. Ci guardammo a bocca aperta, gli occhi sgranati per lo spavento, e la mamma si mise una mano sul cuore.
Poi scoppiammo a ridere.
Sono ferma davanti alla stazione di Kings Cross e respiro profondamente cercando di identificare i profumi deliziosi della cucina multietnica di Londra. Ma tutto quello che riesco a sentire è la puzza delle macchine e degli autobus.
Fa una strana impressione tornare qui dopo quasi tre anni. Da quando mi sono trasferita a Leeds e la mamma è tornata ad abitare a Cambridge non ho più avuto motivo di tornare a Londra. Il traffico, il caos, il rumore, la folla, la puzza.
Sorrido tra me.
È bello essere a casa.
Mi faccio strada tra la gente che affolla l’atrio della stazione. Gente con ventiquattrore, valigie, sacchetti, trolley, borsoni, trasportini per gatti. Tutti stanno andando da qualche parte.
Cinque minuti dopo sto camminando per Gray’s Inn Road chiedendomi se sto facendo la cosa giusta. Ho un po’ di nausea. Forse sono tutti questi gas di scarico, ma non credo. Penso sia il nervosismo. Mi dico di smetterla di essere patetica. È molto probabile che questa mia ridicola missione si concluda con un buco nell’acqua. Probabilmente la casa che cerco sarà stata trasformata in un pensionato studentesco o in un B&B molti anni fa, e allora tornerò al treno e per l’ora di cena sarò di nuovo a Cambridge. O forse la casa non è mai esistita del tutto. Mia madre sbaglia spesso in queste cose. Non mi sono mai fidata a lasciarle annotare un numero di telefono, perché riesce sempre a scrivere male l’ultima cifra. In effetti ci sono così tante ragioni per cui potrei non trovare la casa che cerco, che quando me la trovo davanti, a meno di dieci minuti dalla stazione, non so come comportarmi.
È un edificio a tre piani alto e stretto con la facciata sporca, incuneato tra un negozio di alcolici dall’aria piuttosto discutibile e un bar greco. Fuori ci sono cinque o sei bidoni della spazzatura, attorno ai quali ronzano nugoli di mosche. Guardo il volantino che stringo in mano, controllando l’indirizzo tre, quattro, cinque volte. Non c’è dubbio, è proprio il numero 15. Dovrei già essere alla porta a picchiare il batacchio arrugginito. Quindi perché esito?
Che cosa faccio se è proprio quella? Rifletto. Se la persona che verrà ad aprire fosse un lontano parente? La zia o lo zio che non ho mai avuto? Un cugino? E se fosse davvero mio padre? Nel momento in cui busserò a quella porta la mia vita potrebbe cambiare del tutto. Ma è proprio quello che voglio. Quello che ho sempre voluto.
O no?
Sento il telefono squillare nella borsa e ci frugo dentro sperando di trovarlo prima che scatti la segreteria. E se fosse mia madre? Se avesse avuto un altro malore? E se invece è il dottore che mi avverte che è svenuta di nuovo? Forse dovrei andare a casa. Forse non è il momento giusto per fare questa ricerca.
Ma il nome che lampeggia sul display non è quello di mia madre e nemmeno quello del medico. È Mark.
Tengo in mano il telefono, ma non mi decido a rispondere. So che la mia esitazione non farebbe una buona impressione su Mark. Al posto mio lui avrebbe già bussato e starebbe ponendo al proprietario una serie di domande preparate in anticipo, spuntandole, interrogando, annotando indizi, scavando. Sento le sue parole risuonarmi nella mente. «Devi fare qualcosa, qualunque cosa, per porre fine a questa situazione ridicola, Meg. E devi farlo subito. Perché presto...»
«Lo so», dico ad alta voce senza nemmeno rendermene conto. «Non dirlo.»
La proprietaria della casa tiene un bambino urlante in bilico su un fianco e mi guarda con aria diffidente.
«Non capisco che cosa desidera», grida con un marcato accento americano per farsi sentire sopra gli strilli del bambino.
Siamo in due, penso.
Probabilmente si sta chiedendo se sono mentalmente instabile, a presentarmi così, senza preavviso, con in mano un pezzo di carta di ventun anni fa sul quale è segnato quell’indirizzo, per chiederle se ha mai conosciuto mia madre oppure – dal momento che non può essere molto più vecchia di me – se è possibile che le nostre madri fossero amiche. O se suo padre la conoscesse. O un qualunque altro parente. Forse però erano le persone che vivevano lì in precedenza a conoscere mia madre. Per caso sa chi sono? Ha mai sentito parlare di Valerie May?
Salta fuori che la sua famiglia vive in Texas e che non è mai stata in Inghilterra (cosa che sembra aver generato un certo risentimento), che abita lì da sei mesi, non ha idea di chi ci stesse prima, e non ha mai sentito parlare di una Valerie May anche se trova che sia un bel nome.
«Sta cercando di rintracciare sua madre?» mi chiede con aria addolorata.
«Oh no, io vivo con lei. Sto cercando di appurare se un tempo conoscesse qualcuno che viveva in questa casa.»
«E non può chiederglielo?»
«È complicato.»
«Ha perso la memoria?»
«Ehm... qualcosa del genere, sì.»
«Oh, ma è terribile», esclama lei, dando dei colpetti sulla schiena del piccolo. «È successo a mia nonna. Continuava a dire a tutti che era una campionessa di danza hawaiana.»
Sorrido per gentilezza. Poi mi viene in mente che potrebbe sembrare maleducato ridere dell’anziana nonna e soffoco la risata.
«A quanto pare era confusa», commento, fingendo di apparire interessata.
«Oh no, era davvero una campionessa di danza hawaiana. Solo che continuava a dirlo a tutti, ed era diventata una tale scocciatura!»
Il bambino lancia uno strillo assordante, ma lei non si scompone e si limita a dargli dei colpetti sulla schiena, un po’ più forte.
«Oh! Allora è suo padre che vuole rintracciare?» grida, il viso che d’un tratto si illumina come se avesse finalmente capito la situazione.
«Non esattamente. Anche se sarebbe fantastico. È piuttosto... chiunque, in realtà. Chiunque sappia... qualunque cosa.»
«Chiunque sappia qualunque cosa», ripete lei, sconcertata.
Che situazione assurda. Sembro un’idiota.
«Non sono sicura di poterla aiutare», urla la donna.
Io annuisco, per farle capire che ci sono già arrivata ma che la ringrazio comunque per la pazienza.
E adesso che cosa faccio? mi chiedo. La mossa più logica sarebbe ringraziare e filarsela, e invece rimango lì, un po’ imbarazzata.
Insomma, è tutto finito. L’avventura è conclusa prima ancora di essere iniziata. A questo indirizzo non c’è nessuno che mi possa dare delle informazioni. Non ho trovato mio padre. E nemmeno qualcuno che possa aiutarmi. Non ho scoperto niente di niente. E anche se mi sono detta e ripetuta che probabilmente sarebbe stato un tentativo inutile, anche se una parte di me avrebbe voluto rinunciare da subito per ragioni che non capisco appieno, solo ora mi rendo conto di quanto ci avessi sperato, di quanto in cuor mio fossi sicura che avrei avuto delle risposte.
«È venuta da lontano?» chiede la donna, notando che ci sono rimasta male.
«Cambridge.»
«Oh, caspita! Dove c’è l’università, vero? Non ci sono mai stata. Ha fatto un così lungo viaggio!»
Quando le rispondo che Cambridge si trova a soli quaranta minuti di treno dalla stazione in fondo alla strada, lei non mi crede, così tiro fuori l’orario e glielo faccio vedere. Lei non sembra ancora convinta.
«Dimentico sempre che piccolo Paese è questo!» esclama.
Mi chiede dell’università, della cattedrale, dei celebri gioielli della Corona. Le spiego che sta pensando alla Torre di Londra e scopro che non è stata nemmeno lì.
«Sono davvero contenta di averla conosciuta», mi dice dieci minuti dopo, come se il nostro incontro fosse stato accuratamente organizzato. «Mi dispiace di non esserle stata utile.»
«Non importa», le assicuro, e a questo punto sono così stufa di sentir piangere il bambino che è la verità. La tristezza per aver fallito nella mia ricerca di informazioni è passata in secondo piano, e la mia priorità ora è andarmene con i timpani intatti. Mi viene la tentazione di chiedere se il bambino stia bene.
Sto scendendo le scale, quando la donna grida: «Potrebbe provare dal padrone di casa, Tony».
Mi giro a guardarla.
«È in affitto?»
Lei prende dalla tasca un ciuccio e lo mette in bocca al bambino. Che finalmente si tranquillizza.
«Oh, sì», risponde cullando il piccino. «La casa non è di mia proprietà. Non gliel’avevo detto?»
Lontano dal rumore del traffico, nell’atrio di un fast food, chiamo Tony, il padrone di casa. Non è il posto ideale per telefonare, con la gente che entra ed esce, l’odore del pollo fritto che arriva dalla cucina del locale, ma non ho osato rimandare perché non so esattamente cosa succederà. Ricomincerò a dubitare di me stessa, a dirmi che quello che faccio non ha senso, che non mi condurrà a nulla e che dovrei essere a casa. Oppure, in alternativa, mi ecciterò di nuovo convincendomi che questa è la chiave di tutto, e che quella connessione Vodafone è l’unico elemento che mi separa dalla tanto agognata verità. Davvero non ho idea del perché questa situazione mi ispiri sentimenti così contrastanti, e mi sto davvero irritando con me stessa. Dovrebbe essere la cosa più facile del mondo. Io voglio delle informazioni. Tony il padrone di casa potrebbe essere in grado di darmele, e per parlare con lui devo fare questa telefonata...
«Cosa c’è ancora? Sto cercando di fare la doccia!»
«Ehm... pronto... parlo con Tony?»
«Joan?»
«Ehm... no, mi chiamo Meg, Meg May. Io... ehm... mi ha dato il suo numero l’inquilina che abita al 15 di Gray’s Inn Road...»
«Oh, credevo che fosse mia moglie. Non è del Comune, vero? Ho già detto che avrei capito da dove viene quell’odore...»
«No, no. Io... so che è una strana domanda, ma sto cercando di mettermi in contatto con chiunque sia vissuto in quella casa circa vent’anni fa. Ventuno, per la precisione. So che è passato molto tempo, ma mi chiedevo se lei fosse già allora il proprietario, e di conseguenza...»
«Se ho mantenuto i contatti? Non è l’Associazione Amici Ritrovati questa!»
«No, io...»
«Come faccio a ricordarmene?»
«Be’, pensavo... mi dispiace, sto cercando di rintracciare una persona, e quando ho trovato il volantino di una band che si chiamava Chlorine con quell’indirizzo sul retro...»
«Oh, perbacco! Non sarai una groupie, vero? Cavolo, sono secoli che nessuna di voi mi chiama più. Senti, non posso darti il numero di Fizz, o Fuzz, o come diavolo si faceva chiamare. Se ne è andato un sacco di tempo fa e da allora non l’ho più visto. Chiaro? Quindi arrivederci...»
«Aspetti!» grido, non sapendo perché. Sembra che stia per saltare fuori qualcosa, anche se ancora non ho avuto il tempo di rifletterci su. «Allora i ragazzi della band...» ragiono, «... i Chlorine... vivevano in quella casa?»
«Esatto, sì. Potrebbe essere stato più o meno il periodo che dicevi, ora che ci penso. Facevano un gran casino giorno e notte. Hanno persino distrutto la cucina. Il dannato batterista una volta ha buttato un televisore fuori dalla finestra e ha quasi ucciso un senzatetto che passava per strada. E poi c’erano quelle due groupie che si sono trasferite da loro. Proprio una brutta storia.»
«Groupie? Vuole dire due giovani donne?»
«Difficile che stia parlando di uomini, non credi? E comunque non erano nemmeno delle donne vere e proprie. Piuttosto delle ragazzine. Avevano a malapena finito la scuola. E una di loro aveva già un bambino! Ho cercato di buttarli fuori tutti quanti, ma è saltato fuori che il dannato batterista aveva una laurea in giurisprudenza e...»
«Mi scusi, ha detto bambino?»
Mi copro un orecchio con la mano e mi avvicino ancora di più alla parete per escludere il rumore di un camion della nettezza urbana che sta passando lentamente davanti al locale.
«Sì, un affarino minuscolo. Povero piccino.»
«Di chi era?»
«Come faccio a saperlo? Avrebbe potuto essere di chiunque di loro. Sai come sono i ragazzi di quelle band, pantaloni stretti e tutte quelle balle lì.»
«E la madre?»
«Non lo so. Finché mi pagano l’affitto chi se ne frega di chi ci vive? Non ho idea di chi fossero le ragazze. Solo un paio di giovanissime groupie, una delle quali ovviamente si era fatta mettere incinta da uno della band. Non rimase a lungo, comunque. Quella col bambino, intendo. E non posso darle torto.»
«Sa per caso dove sia andata?»
«Ti sembro uno a cui frega qualcosa di dove va gente simile? Senti, se vuoi sapere il perché e il percome vai a chiederlo direttamente a loro.»
«Ma come...»
«Hai il volantino di uno dei loro concerti, no?»
«Sì, ma è vecchissimo.»
Sento una risata gracchiante, da fumatore. «Non crederai sul serio che un branco di falliti come quelli abbia fatto strada, vero?»
Mi ci vuole un quarto d’ora per raggiungere il Frog and Whistle, e durante il tragitto oscillo tra la convinzione di essere sul punto di scoprire che mio padre suonava nei Chlorine e la certezza che sto sprecando tempo e dovrei andarmene a casa. Quando arrivo al pub sono sudata, confusa e ho una grossa macchia sul davanti della camicia perché sono andata a sbattere contro una donna con un ghiacciolo all’arancia. Mi hanno offerto droga, chiesto l’elemosina e sono stata quasi travolta da un taxi che è passato con il rosso. Voglio solo andare a casa. Ma se stessi per scoprire qualcosa?
Non posso rinunciare proprio adesso.
Il Frog and Whistle non sembra per niente allegro come il nome lascerebbe pensare. È un locale vecchio e squallido, con vetri scuri alle finestre e la porta scrostata. Indugio all’esterno, chiedendomi se sia proprio necessario entrare. E anche se un tempo in quella casa fosse vissuta una ragazza con un bambino piccolo? mi chiedo per l’ennesima volta. Potrebbe essere stata chiunque. E poi, perché mia madre avrebbe dovuto vivere lì? Ma se non era così, perché avrebbe dovuto avere un volantino con quell’indirizzo?
«Oh, falla finita ed entra, idiota!» esclamo.
Un vecchietto che stava lottando per aprire la porta del pub si gira e mi guarda esterrefatto.
«Scusi, non stavo parlando con lei», dico in fretta e furia, tenendogli la porta aperta per farmi perdonare.
Inizio a capire perché Mark a volte sia così spazientito con me. Ci sono solo due possibilità: avanti o indietro. Che cosa c’è di così difficile?
Impaziente, entro subito dopo il vecchietto, sconvolta all’idea che una persona che si muove tanto lentamente possa prendersi il disturbo di uscire di casa, e vengo subito aggredita da un tanfo di fumo stantio, birra e puzza di orinatoi. Stento a credere che qualcuno possa passare il proprio tempo in un posto del genere, e a giudicare dal fatto che il pub è praticamente deserto non sono l’unica a pensarla così. Gli unici clienti (a parte il vecchietto, che si è seduto a un tavolo d’angolo senza nemmeno ordinare da bere) sono un tizio con il basco e un rottweiler e una donna con una pinta di birra e le parole ROBA CHE SCOTTA stampate sul sedere dei pantaloni della tuta. È un luogo buio e triste, il cui unico aspetto positivo è che se non altro è fresco.
Mi avvicino al banco, determinata a trattenermi il meno possibile.
«Scusi, conosce una band che si chiama Chlorine?» chiedo, andando dritta al punto.
Il barman, un tipo flaccido di mezza età con una canottiera grigia, solleva lo sguardo dalla foto di una donna in abiti succinti che ammicca dalle pagine del quotidiano aperto davanti a lui.
«Qual è la capitale della Turchia?» domanda, secco.
«Scusi?»
«Turchia. Qual è la capitale?»
Si infila la penna in bocca e la mastica oziosamente.
«Ankara.»
Abbassa lo sguardo e mi rendo conto che in realtà sta cercando di finire un cruciverba.
«Allora non è così che si scrive ‘catarro’», borbotta cancellando qualcosa.
«Goal!» grida il vecchietto dal suo tavolo.
Sta guardando un maxischermo appeso alla parete che, noto sconcertata, trasmette una partita di biliardo.
«Tutto bene, Jimmy?» grida Roba che Scotta dal suo sgabello, strizzandogli l’occhio con aria civettuola.
Devo uscire di qui al più presto.
«Ho sentito dire che a volte i Chlorine suonano qui. È vero?»
«Sì», sbadiglia il barman, gettando la penna sul banco e sollevando in alto le braccia per stiracchiarsi. L’orlo della canottiera si solleva e cerco di non vedere il rotolo di carne bianca che straripa dalla cintura dei jeans.
«Sto cercando di rintracciarli. Non è che per caso ha un numero a cui possa contattarli?»
Il barman annuisce lentamente. «Sì.»
Raccoglie la penna e io mi preparo a prendere il numero e andarmene. Ma anziché scrivermelo, lui si infila la penna sotto l’orlo della canottiera e la usa per grattarsi la pancia.
«Posso avere quel numero?» domando, nauseata.
«No», risponde il barman.
«Goal!» grida di nuovo il vecchietto.
«Sta’ zitto, Jimmy», borbotta il padrone del rottweiler, con accento irlandese.
«Perché no?» domando io.
«Donne», risponde il barman, come se quella parola fosse di per sé una spiegazione.
«Scusi?»
«Wizz dice di non dare il numero alle donne.»
«Wizz?»
«Il cantante.»
«Io non sono una specie di groupie...»
«Sta cercando sostegno economico per un bambino?» Il barman mi guarda dall’alto in basso. «Perché mi sa che è un po’ troppo giovane per quello.»
«Qui nessuno vuole nulla del genere», dichiaro scandendo bene le parole. «Voglio solo mettermi in contatto con qualcuno della band. Uno qualunque.»
Il barman si sporge sopra il giornale e mi fissa con occhi vacui. Io aspetto una risposta, ma sono quasi certa che stia per chiudere le palpebre. Credo che potrebbe addormentarsi da un momento all’altro.
«Allora, posso avere quel numero?» insisto alzando la voce.
Lui spalanca gli occhi di colpo. «No, non può. Donne.»
«No, io non sono...»
«Goal!» grida il vecchietto.
Dio, è un caso disperato.
«Come si scrive ‘catarro’?» borbotta il barman fissando il cruciverba.
«Non lo so», sibilo. «Ho solo bisogno di quel numero...»
«C, A, T, A, R, O», grida Roba che Scotta.
«Sicura?» replica il barman, infilandosi la penna nell’orecchio e girandola.
«Fa niente», mormoro, voltandomi per uscire dal pub.
«Sono qui l’ultimo venerdì del mese», dice l’irlandese con il rottweiler mentre passo accanto al suo tavolo. Sta fissando la pinta che ha davanti, e mi ci vuole un attimo per rendermi conto che si è rivolto a me.
«Scusi?»
«I Chlorine. L’ultimo venerdì del mese sono qui, se vuole mettersi in contatto con uno di loro.»
«Oh.»
Sono così stanca e confusa che per un attimo non sono sicura che sia una cosa positiva. Avevo appena deciso di lasciar perdere questa caccia assurda e adesso, a quanto pare, la sfida è tornata di nuovo alla ribalta.
«Grazie», dico all’irlandese. «Mi è stato molto utile.» Anche se non sono certa che sia così.
In segno di gratitudine mi sporgo per fare una carezza al cane, ma quello ringhia e scopre i denti più affilati che abbia mai visto, così faccio un salto indietro ritraendo le mani casomai tentasse di azzannarmele.
L’irlandese non solleva neanche lo sguardo dalla birra.
«L’ultimo venerdì del mese», ripeto indietreggiando verso la porta mentre il cane mi guarda con aria feroce. «Fantastico. Un vero colpo di fortuna.»
«Non direi», mormora l’irlandese. «Ci sono l’ultimo venerdì di ogni mese. Non li vogliono da nessun’altra parte.»
Un quarto d’ora dopo sono sul treno delle 21.10 diretto a Cambridge, con una fetta di pasticcio di carne e verdure tipico della Cornovaglia che ho comprato da un venditore ambulante alla stazione, e mi sento di nuovo ottimista al punto che sono sovreccitata.
E se davvero fossi sulle tracce di qualcosa? Se mia madre era davvero una groupie e Wizz fosse mio padre? Se lui mi avesse cercata per tutti questi anni ma non sapesse dove trovarmi? Magari la mamma ha cercato di tenermi nascosta la verità perché mio padre era un rocchettaro drogato che viveva una vita di vizi, suonava la chitarra elettrica notte e giorno e buttava televisori addosso ai barboni... Potrei avere un ricongiungimento emotivo con mio padre e scoprire un’altra parte di me. Magari anch’io inizierei a buttare televisori dalla finestra. Non ho mai dimostrato di avere talento per la musica, ma forse è perché non ci ho mai provato.
Tra un boccone di pasticcio e l’altro inizio a canticchiare, studiando la mia voce per cogliere un possibile potenziale. Penso che tutto sommato sono intonata, finché non mi va di traverso una briciola e comincio a tossire e ansimare mentre la signora seduta accanto a me mi dà dei colpetti sulla schiena.
Quando infine arrivo a casa sono ancora eccitatissima. È così! Ne sono sicura. Mark aveva ragione, come sempre. Non avrei dovuto dubitare di lui. La reazione di mia madre nel vedere il volantino è stata un indizio. E io sono come un detective che cerca di fare luce sul proprio passato. Chissà quali segreti sto per scoprire... Se Wizz è mio padre, allora forse potrò riunire lui e mia madre e far sì che si riconcilino. Qualunque cosa sia accaduta in passato di certo sarà dimenticata e almeno per un po’ saremo una famiglia! Quando la mamma saprà che ho scoperto la verità non avrà più motivo di mentire, alzerà le mani al cielo e dirà: «D’accordo, mi arrendo!» e mi racconterà tutti i particolari che mi mancano per colmare le lacune. I suoi ultimi momenti saranno chiari e lucidi, e saremo oneste l’una con l’altra una volta per tutte, unite in quegli ultimi momenti di pace e comprensione.
Sul tavolo della cucina ci sono un piatto di spezzatino di agnello con le verdure e una ciotola di biancomangiare cosparsa di granella di zucchero multicolore. Entrambe le pietanze sono coperte da pellicola trasparente, e sento una fitta di senso di colpa. La mamma ha cucinato il biancomangiare solo per me. È il mio piatto preferito, ma è anche l’unico che lei non digerisce.
«Mi crea così tanta aria che potrei abbattere una foresta intera», ripete sempre, in modo non molto elegante.
Divoro il dolce e poi mi avvio in punta di piedi lungo il corridoio. C’è silenzio e le luci sono tutte spente, tranne quella accanto al telefono. Che mia madre ha lasciato accesa per arrivare sana e salva al piano di sopra. Ma quando passo davanti al salotto la vedo sdraiata sul divano, con un plaid sulle gambe. Sto per accendere le luci e dirle di alzarsi, che le verrà il mal di schiena se dormirà lì tutta la notte, ma mi fermo con la mano sull’interruttore.
Sembra così fragile. Infantile e vulnerabile. Non è la madre di una volta, che mi portava sulle spalle e mi tirava su a ogni mia caduta. Che mi faceva girare in tondo tenendomi per le braccia, che mi inseguiva nel parco o che mi metteva a testa in giù mentre io strillavo divertita.
È debole, ora. L’ombra della donna di un tempo.
Che cosa sto facendo? Avrei dovuto essere qui questa sera. Avrei dovuto ringraziarla per avermi preparato il biancomangiare rosa e mangiarlo mentre lei mi osserva mandare giù ogni cucchiaiata come se fossi ancora una bambina.
«Guardarti mentre lo mangi di gusto mi dà lo stesso piacere che se lo assaporassi io stessa», mi sembra di sentirle dire.
Ascolto il suo respiro bloccarsi nel petto ogni volta che inspira, con un suono molto simile a quello di un palloncino che si sgonfia. Sembra piccola sotto il plaid, e mi vengono in mente le volte che ci rannicchiavamo insieme sul divano del nostro appartamento, avvolte così strette in quella coperta da sembrare una persona sola. Mi sembrava grande allora, molto più di quanto lo sembri adesso, e mi diceva che era un gioco, che fingevamo di essere un panino alla salsiccia. Quando sono cresciuta mi sono resa conto che dovevamo dormire così perché il riscaldamento si era rotto di nuovo o perché non riusciva a pagare la bolletta del gas. Non le ho mai detto che lo sapevo. Non ero pronta a smettere di fingere di essere un panino alla salsiccia.
E se oggi fosse caduta, mentre io non c’ero? Se le fosse venuta un’altra crisi? Mark ha ragione, il tempo sta per scadere. Ma è tempo che dovrei trascorrere con lei, non a correre in giro cercando informazioni.
A cosa servirebbe, in fondo, distruggere il mondo che ha creato per noi due? Che senso avrebbe farlo a brandelli? Quelle sciocche storielle la fanno ridere. La rendono felice. E io non posso portargliele via. Non adesso.
Mi sento egoista e in colpa per essere andata a Londra di nascosto.
Prendo il volantino e lo appallottolo, schiacciandolo forte nel palmo della mano.
Questo indizio sul passato è arrivato troppo tardi.