SONO seduta al tavolo sotto il portico, con il caldo sole del mattino che mi scalda la schiena, e guardo la bizzarra selezione di fiori creata da mia madre. Al centro del tavolo c’è un enorme piatto di portata contenente corolle rosse, arancioni, viola e gialle, e mi chiedo perché la mamma abbia deciso di decapitare quei poveri fiori. Non le sono mai piaciute le composizioni formali; ha sempre preferito un aspetto più naturale, casuale, ma fare a pezzi i fiori e sparpagliarli su un piatto è qualcosa che non mi risulta abbia mai fatto prima. Forse si sta di nuovo «esprimendo», come quella volta che ha dipinto sulla parete della camera da letto un enorme polipo, o quando insisteva per comunicare solo attraverso le canzoni. È stata eccitata per tutta la mattina, oggi, e quando è emersa dalla cucina all’ora di pranzo, strizzando gli occhi nel sole e scendendo per le scale con le infradito, ho preso coltello e forchetta aspettandomi che avesse preparato una qualche delizia gastronomica. Invece ha posato sul tavolo una ciotola di vinaigrette.

«Intingile qui, tesoro», mi esorta sedendosi di fronte a me e indicandomi il piatto pieno di corolle.

Io la fisso, un po’ preoccupata. È possibile che il cancro si sia propagato al cervello?

«Sono fiori, mamma», protesto, come se lei fosse una vecchina un po’ stordita. «O meglio, lo erano prima che tu li distruggessi.»

«Allora», continua con entusiasmo, prendendo coltello e forchetta e ignorandomi, «qui ci sono fiori di erba cipollina, maggiorana, nasturzio e calendula. E sotto ci sono mentuccia, spinacione, acetosella e peperoncino. Hanno un bell’aspetto, non credi? Quasi dispiace mangiarli.»

«Mangiarli? Ma sono fiori, mamma», ripeto.

«Ewan dice che sono commestibili. Onestamente, tesoro, ho imparato così tanto nelle ultime settimane. Pensa, coltivavo questi fiori deliziosi nel giardino e non sapevo di poterli mangiare.»

Non mi sorprende che sia un’idea di Ewan. È proprio da lui. Se non altro significa che mia madre non ha il cancro al cervello, e che semplicemente le succede di non capire esattamente le cose.

«Sei sicura che abbia detto questo?»

«Oh, sì. Lezione numero quattro: fiori commestibili. Ho preso appunti.»

Nelle ultime settimane mia madre ha iniziato a seguire Ewan ponendogli domande e annotando le sue perle di saggezza in un taccuino. Sostiene che sono lezioni di giardinaggio, anche se non sono sicura che lui abbia mai avuto la possibilità di scegliere se diventare o meno il suo insegnante oppure esprimere il proprio parere al riguardo. Ha la pazienza di un santo e la sopporta con indicibile umorismo e gentilezza, fatto di cui gli sono segretamente molto grata. La tiene occupata e dà a me un po’ di sollievo dalle sue storie bizzarre, che racconta sempre più spesso da quando è svenuta.

«Oh, buongiorno signora farfalla», cinguetta la mamma quando una Vanessa atalanta rossa passa svolazzando sul nostro pranzo. «Sei venuta a unirti alla festa?»

«Non ho intenzione di mangiare quella roba», le dico. «Probabilmente ha i piedi sporchi.»

«Oh, signor ragno! Anche a lei piace l’aspetto del nostro pranzo eh?»

Un uccellino marrone atterra sul tavolo e occhieggia il piatto di corolle, saltellando nervoso avanti e indietro.

«Ovvio che apprezzano l’aspetto del piatto», commento. «Sono abituati a vederlo nelle aiuole, dove quei fiori dovrebbero essere.»

«Oh, è proprio come in Biancaneve», esclama lei, raggiante. «Manca solo un cerbiatto che si avvicina al tavolo. Te lo ricordi, tesoro? Biancaneve della Disney con tutti gli animali della foresta. Lo guardavamo sempre quando eri piccola. E c’era quella canzone... Come faceva?»

«Non ne ho idea.»

Mia madre inizia a canticchiare qualcosa dalla melodia irriconoscibile. Non è mai stata molto intonata, ma ricordo che mi piaceva quando mi cantava le ninnenanne o inventava buffe filastrocche.

«Basta un poco di zucchero», gorgheggia. «Oh no, quella era Mary Poppins, vero? Gli uccellini e le api cantano sugli alberi... no, era qualcos’altro. Come faceva, Meggie? Lalala...»

La guardo mentre canticchia sovrappensiero, persa nel ricordo dei tempi andati, delle fiabe, dei personaggi dei cartoni animati e di foreste incantate. Il sole strappa riflessi di fuoco ai suoi capelli scompigliati e le fa brillare gli occhi. Oggi persino le guance hanno un colorito roseo che non le vedevo da tempo.

Oggi è una buona giornata.

Si è alzata dal letto senza problemi e non si è mai lamentata di avere il corpo indolenzito. Non l’ho mai sentita dire: «Dev’esserci qualcosa che non va nel materasso, è l’unica spiegazione», oppure «Forse sono diventata sonnambula e ho sbattuto contro qualcosa». Oggi non è esausta, il che significa che non ha dovuto dire: «È il caldo che mi fa venire sonno», o «Se fossi sonnambula, questo spiegherebbe la stanchezza». Oggi non ha la nausea e non si sente male, dunque non ha motivo di domandarmi: «Credi che ci sia in giro un virus intestinale, tesoro?» E nemmeno di dirmi: «Credo di aver mangiato troppo cheesecake, ieri sera». Oggi non ci sono sintomi né scuse per giustificarli. Oggi, se faccio finta di non vedere quanto è magra, è quasi come se tutto andasse bene.

Ma non è oggi il problema. È domani. Perché c’è sempre un domani che deve arrivare.

«Hey-ho, hey-ho, andiamo a lavorar... questa è l’altra canzone di Biancaneve, vero? Con il piccolo popolo. Gli elfi. No, erano nani. C’erano Pisolo e Bozzolo... no, Bozzolo non c’era. Mammolo e Brontolo...»

Sono contenta di aver rinunciato ad andare a caccia di indizi sul mio passato. Questo è il posto in cui dovrei essere: seduta al sole, ad ascoltare mia madre che chiacchiera, ad assaporare un magnifico pranzo a base di... Be’, a stare seduta qui, comunque. Mi sento meglio, con meno sensi di colpa, più rilassata. Non sono più la figlia orribile che vuole distruggere l’essenza stessa della nostra vita insieme. In queste ultime settimane la mamma e io abbiamo trascorso meravigliosi pomeriggi a oziare al sole, facendo parole crociate, giocando a Monopoli e parlando di mille cose, dal riscaldamento globale (che mia madre attribuisce alle «mucche che scoreggiano») agli ultimi abiti della regina (che io trovo adatti a una donna nella sua posizione, ma che mia madre ravviverebbe con una sciarpa a fantasia psichedelica). E quando lei ha male, o si sente stanca, o ha mal di testa, sono contenta di essere qui a mettere su il bollitore, a ordinarle di sedersi a riposare o semplicemente di starle intorno.

Non ho raccontato a Mark che cosa è successo a Londra. Non lo credevo necessario. Dopo tutto, mi avrebbe detto soltanto di rintracciare i Chlorine, di seguire l’indizio successivo, di continuare a cercare... e davvero non avrebbe senso. Ho deciso di lasciare che le cose vadano come devono andare. Così gli ho riferito una versione leggermente modificata della mia gita: la casa che cercavo è stata demolita e trasformata in un takeaway cinese. Non c’era molto che potesse dire al riguardo. O quanto meno ero convinta che non avrebbe avuto molto da aggiungere, ma Mark è Mark e mi ha suggerito di chiamare il Comune, di chiedere di parlare con qualcuno del settore urbanistico o delle case popolari o qualcosa del genere, e di citare le leggi secondo cui ho il diritto di sapere chi viveva in quel posto prima. Non l’ho fatto perché non ne sento più l’esigenza. Non penso nemmeno più alle informazioni che potrebbero aspettarmi, o se il mio vero padre potrebbe essere uno della band, né chi fosse la ragazza madre che viveva in quella casa. Non mi passa per la mente che il prossimo venerdì sera i Chlorine suoneranno al Frog and Whistle, e che quaranta minuti di treno potrebbero essere l’unica barriera che mi separa dalla verità. Non è importante. Perché quando guardo il viso sorridente di mia madre, che mi osserva da sopra un piatto colmo di corolle di fiori, so che tutto ciò che davvero importa è che sono qui, a badare a lei e a condividere con lei questo ultimo periodo, come dovrebbe essere.

«Coraggio, mangia, tesoro. Non lasciare che la tua insalata si riscaldi.»

Ride. Non so perché, ma ha sempre trovato quella battuta divertente.

«Prima tu», la sfido.

«Dubiti delle mie abilità culinarie con i fiori?»

«Certo che no. Voglio solo che tu abbia l’onore di assaggiare per prima questi deliziosi gerani, o qualunque cosa siano.»

Lei fissa il piatto come se non fosse del tutto convinta, prima di prendere un grosso fiore arancione e infilarselo in bocca. Lo mastica lentamente, con aria contemplativa, e io cerco di non scoppiare a ridere nel vedere i petali che le sporgono dalle labbra. Lei continua a masticare per quella che mi sembra un’eternità, passandosi la lingua sull’interno delle guance e assumendo un’espressione sempre più simile a quella di chi ha morso un limone, e infine inghiotte.

«Era buono?» le domando con aria innocente.

«Mmm...» Annuisce, cercando di risultare convincente. «Ottimo.»

«Bugiarda.»

Un sorriso fa capolino sul suo viso.

«Vado a preparare dei toast con i fagioli», annuncia, e scoppiamo a ridere.

Ewan viene due volte alla settimana. Lo sento lavorare in fondo al giardino: scava, falcia, sega, taglia, cantando Paul Weller o parlando alle piante e agli insetti. Lo spio dalla finestra della mia camera mentre estrae radici, pota cespugli, toglie i vecchi sostegni per i rampicanti e ne mette di nuovi. Lo evito, la mente offuscata dai ricordi della banconota da venti sterline e della nostra ultima, gelida conversazione, e da un profondo senso di colpa. Ogni volta che viene gli porto una fetta di torta e il caffè, sempre con l’intenzione di ricucire il rapporto, ma anziché cercarlo nel frutteto o tra i filari di fagioli, gli lascio lo spuntino poco lontano, dove so che lo troverà, cercando sempre nuove scuse per evitarlo ancora per un giorno. Il mio orgoglio, ostinato come un bue, permette raramente alle parole «mi dispiace» di uscire dalle mie labbra.

Oggi appoggio il caffè e la torta alla banana sull’erba accanto alla sua borsa, una vecchia sacca di tela che ha lasciato aperta e dalla quale spuntano un cestino per il pranzo, una bottiglia d’acqua e una Barbie con le scarpe da ginnastica e un reggiseno rosa. La osservo incuriosita, chiedendomi che cosa penserebbe mia madre se sapesse che il giovanotto che considera fantastico è un feticista a cui piacciono le bambole bionde e prosperose, quando dal frutteto sento giungere la voce di una bambina.

Avanzo in punta di piedi tra gli alberi e trovo una ragazzina con i capelli biondo miele e corti pantaloncini rosa, una maglietta rosa e un paio di scarpe da ginnastica rosa con lucine che lampeggiano sul tacco. Non si accorge di me, assorta com’è nei suoi giochi, così mi nascondo dietro un melo e la osservo, chiedendomi chi sia. L’idea che Ewan – con la sua tendenza a parlare con gli alberi, le calze bucate e il vecchio furgone scassato – possa avere una figlia è francamente terrificante. E poi sarebbe un padre molto giovane.

«Benvenuto nel mio castello, principe Robbie», esclama la bambina aprendo una porta invisibile. «Ma che bell’unicorno! Lascialo qui all’ingresso, e chiederò a Rosie, la mia cameriera, di dargli una carota. Prego, accomodati. Rosie, ci porteresti del tè, per favore? Il principe ha fatto un lungo viaggio per venire a trovarmi. Ma come stupirsi? Dopo tutto, io sono la più bella del mondo.»

Io alzo gli occhi al cielo. Principi? Castelli? Che sognatrice! In effetti potrebbe ben essere figlia di Ewan.

«Ora capisco che vuoi chiedermi qualcosa, principe Robbie», dice la ragazzina parlando con un melo. Sussulta e alza le mani al cielo, sorpresa. «Oh, ma certo che ti sposerò!» Tende con grazia la mano davanti a sé. «Che anello meraviglioso! Dev’essere l’unico diamante rosa e viola che esiste al mondo. Quanto vale? Un milione di miliardi di sterline? Oh, sono davvero fortunata a sposare il principe più bello e più ricco della terra! Ora devo fare un sonno di bellezza, perché domani è il giorno del nostro matrimonio e migliaia di ospiti mi guarderanno.»

Si sdraia per terra, chiude gli occhi e finge di russare. Io inorridisco per il modo ridicolo in cui i bambini scelgono di sprecare il loro tempo. Pochi secondi dopo essere andata a dormire, la bambina balza in piedi di nuovo, sbadigliando e stiracchiandosi. A quanto pare otto ore sono trascorse in meno di otto secondi.

«È il giorno del mio matrimonio! Rosie, aiutami a indossare l’abito nuziale.» Finge di infilarsi diversi capi di vestiario prima di ornarsi il capo con una vera coroncina di margherite che deve aver preparato per l’occasione. «Oh, come sono bella! Guardami! Sono pronte le mie quattrocento damigelle? Sono vestite di rosa come ho ordinato? Allora conducete da me l’unicorno che mi porterà in volo fino alla chiesa. Vieni, Rosie, puoi cavalcare l’unicorno con me, visto che sei la mia migliore amica.»

Monta su un unicorno invisibile, si lancia un’occhiata dietro la spalla (presumibilmente per controllare che Rosie sia sana e salva in sella), poi corre in cerchio, chinandosi per schivare i rami degli alberi e gridando: «Vai, vai!» Dopo qualche secondo afferra il tronco di un albero e inizia a girarci intorno sempre più veloce, urlando qualcosa a proposito di un tornado. A quanto pare quell’idiota dell’unicorno è incappato in una tempesta mentre volava verso la cerimonia. Scuoto la testa disperata, pronta a uscire allo scoperto e a mettere fine a quello stupido gioco, ma poi continuo a guardare, incuriosita. Una piccola parte di me vuole sapere come andrà a finire.

«Oh, Rosie, che viaggio terribile!» esclama la ragazzina, barcollando per le vertigini. «Per fortuna ora siamo qui davanti alla chiesa e lì ci sono i miei ospiti. Buongiorno! Buongiorno!» Si gira da una parte all’altra, salutando i meli e fingendo di stringere mani. «Oh, grazie, sì, sono davvero bellissima! Oh, e lì c’è il principe Robbie che mi aspetta.»

Inizia a canticchiare la marcia nuziale, fa qualche passo avanti e poi si inginocchia con espressione solenne davanti a un tronco.

«Vuoi tu, Jennifer Lucy Green, prendere il principe Robbie Williams come tuo sposo? Sì, lo voglio. E vuoi tu, principe Robbie Williams, prendere Jennifer Lucy Green come tua sposa? Sì, lo voglio. E prometti di badare sempre a lei e di comperarle cose bellissime compreso il nuovo set per capelli della Barbie, di darle l’ultimo dei tuoi orsetti gommosi e di lasciarle guardare Jessie e i cadetti dello spazio tutte le volte che vuole? Bene, ora vi dichiaro marito e moglie.»

Si alza in punta di piedi per baciare l’immaginario principe Robbie, poi prende una manciata di petali che ha ammucchiato lì vicino e li lancia in aria come coriandoli, lasciandoseli fluttuare sopra la testa. Gira lentamente su se stessa, il visetto rivolto verso il cielo, ridendo allegra quando i petali le piovono sul viso e le rimangono sui capelli. I raggi dorati del sole filtrano tra le foglie dei meli, facendo risplendere la sua pelle rosea e i capelli color del miele. Quando tutti i petali sono caduti li raccoglie e li lancia in aria di nuovo, ridendo. La guardo con attenzione, un sorriso mi aleggia sulle labbra. Mi sembra quasi di vedere il suo abito da sposa coperto di paillettes, le quattrocento damigelle vestite di rosa, il bel principe Robbie e l’unicorno che attende per trasportare la coppia felice in luna di miele in un’isola dei Tropici. Mi scopro persino a chiedermi esattamente quale isola.

Ma cosa cavolo mi viene in mente? Unicorni? Finti matrimoni? Che cumulo di sciocchezze!

«Non puoi sposare una persona il giorno dopo averla conosciuta», dico uscendo da dietro l’albero. «Non è così che funziona.»

La bambina sobbalza, sorpresa. È immobile a pochi passi da me, gli occhi sgranati e un petalo giallo appiccicato al labbro inferiore.

«Bisogna prenotare la chiesa in anticipo, tanto per dirne una. E come puoi organizzare un matrimonio così in grande, se non hai tempo? Comunque, non puoi essere innamorata di una persona che hai incontrato solo ieri. E poi, chi ha mai sentito parlare di unicorni volanti?»

La bambina si guarda intorno, ansiosa, cercando una via di fuga.

«E non credo proprio che potresti celebrare una cerimonia nuziale pochi minuti dopo essere sfuggita a un tornado. Sai che disastri fa un tornado? Le persone perdono le loro case. Muoiono. Intere famiglie vengono spazzate via. Un attimo sono nel proprio letto, e quello dopo il tetto è volato via e si ritrovano risucchiati in aria, tutti che gridano, tutto che cade intorno a loro, sangue ovunque...»

Di colpo la piccola corre via, un’espressione di orrore sul visetto.

«Ehi, torna indietro!» le grido. «Voglio parlarti del modo di trattare i domestici e della discriminazione sociale!»

Quando riesco a uscire dal frutteto, Ewan è giunto in soccorso della bambina; inginocchiato accanto a lei, le asciuga le lacrime con il dorso della mano sporca di terra. La mette a sedere su una carriola rovesciata, le dà la fetta di torta di banana mezza mangiata e poi si dirige verso di me con aria bellicosa.

«Perché hai detto a mia nipote che la gente viene strappata urlante dal proprio letto?»

«Be’, lei pensa che i tornado siano una specie di gioco. Non ha mai visto il telegiornale?»

«Ha sei anni!»

«Be’, è ora che qualcuno le spieghi come stanno le cose. Crede che la gente esca dai tornado senza un graffio e che gli unicorni esistano davvero.»

«È un gioco!» ribatte lui, incredulo.

«Lo so benissimo. Ed è proprio questo il problema. Non sei preoccupato per i danni che simili assurdità potrebbero causarle?»

Confuso, lui si strofina la fronte, lasciandosi una striscia di sporco su un sopracciglio. «Perché diavolo dovrei preoccuparmi?»

Lanciando un’occhiata alla bambina, che ora sbocconcella allegramente la torta, faccio un passo verso Ewan e abbasso la voce.

«Ascolta, oggi sono finti matrimoni e unicorni volanti, domani dirà alla gente di aver visto una zucca danzare al chiaro di luna, o un cavolfiore che inseguiva un cespo di insalata sul vialetto del giardino. E allora che cosa accadrà?»

Lui mi fissa sconcertato.

«La gente si metterà a ridere, ecco cosa succederà. Diranno che è una bugiarda e una fanfarona e nessuno vorrà diventare suo amico. Tutti gli altri bambini a scuola la eviteranno, e lei dovrà sedersi a un tavolo e mangiare il pranzo da sola perché i compagni credono sia strana. Oppure diranno che è una lattante e non le permetteranno di giocare con loro, e lei non saprà mai che cosa ha fatto di sbagliato perché per quanto ne sa lei gli unicorni volano davvero e le zucche danzano al chiaro di luna, e questo perché nessuno le ha mai detto la verità. E lei non capirà perché nessuno le crede, finché non si renderà conto che gli altri devono avere ragione e che le cose non possono essere andate come crede lei, e allora si sentirà stupida e più confusa che mai.»

Ewan mi guarda sbalordito. «Sei ubriaca? Che cos’hai che non va? Ha solo sei anni, per l’amor del cielo. So che probabilmente alla sua età tu studiavi la tavola periodica degli elementi, ma ti assicuro che è normale da bambini giocare come fa lei. Si chiama immaginazione.»

«No, si chiama confusione. E se le sarà permesso di continuare diventerà sempre più confusa. E quando da grande ripenserà alla propria infanzia ricorderà castelli e unicorni e cavolfiori danzanti, e non avrà mai idea di che cosa sia successo davvero, perché la sua mente sarà un caos. E allora proverà risentimento nei tuoi confronti perché hai incoraggiato le sue fantasie, e questo originerà altra confusione, perché anche se sarà arrabbiata con te al tempo stesso ti vorrà bene!»

Ewan socchiude gli occhi e mi sbircia, pensoso. «E suppongo», dice lentamente, come se stesse mettendo alla prova una teoria, «che forse reagirà alla confusione cercando disperatamente di radicarsi nella realtà. Giusto?»

«Non c’è niente di più facile!» sbotto io, contenta che finalmente abbia compreso.

Lui mi scruta. Il viso si addolcisce mentre la collera svanisce.

«Se vuoi contribuire ad accrescere la confusione nella mente di quella povera bambina, fa’ pure», aggiungo, «ma sarà lei quella a soffrire, e non ti ringrazierà per questo. Hai capito?»

Annuisce, guardandomi con simpatia. «Sì. Sì, credo di aver capito.»

«Bene», concludo, soddisfatta perché per la prima volta lui è tornato sulle proprie posizioni e la ragione ha prevalso. «Bene, ti lascerò a occuparti della situazione come meglio credi, allora.»

Non so perché, ma mentre mi giro e mi incammino lungo il vialetto del giardino non riesco a scuotermi di dosso la fastidiosa sensazione di aver detto troppo, e che forse, dopo tutto, non sono stata io ad averla avuta vinta.