È IL Gigante Bianco che cerca di strangolarmi nei miei sogni. Incombe su di me senza volto, le spalle così lontane, in alto, che la sua testa sparisce tra le nuvole. È lui che puzza di carne cruda. Come una braciola sanguinolenta su un tagliere. Una costina d’agnello prima di essere messa sulla griglia. Rosei vermicelli di maiale escono dal tritacarne. Interiora di pollo. Trattengo il fiato quando si avvicina, temendo di vomitare.
Non so per quale motivo, ma l’ho fatto andare su tutte le furie. È arrabbiatissimo. Si avventa su di me coprendo la luce e mi afferra serrandomi le mani enormi intorno alla gola. Cerco di gridare, ma non ho aria nei polmoni. Sento le sue dita callose affondare dolorosamente nella trachea, sotto la mandibola, esercitando una pressione fortissima appena sotto le orecchie. Tento di deglutire, una volta, due, ma non posso, e mi ritrovo a boccheggiare come un pesce fuori dall’acqua, e mi sembra che stia per esplodermi la testa. Immagino gli occhi schizzarmi fuori dalle orbite e attraversare la cucina come proiettili, come nei cartoni animati. Cerco di allentare la presa di quelle mani giganti, ma sembrano attaccate alla pelle con la colla. Il mondo intorno a me diventa grigio, i colori svaniscono come i disegni tracciati con il gesso sull’asfalto quando inizia a piovere. La luce si affievolisce, spegnendosi lungo un tunnel che si assottiglia, finché non rimane che un puntolino bianco in lontananza.
Sta per sparire.
Sparisce.
Non c’è più.
«Sciò, sciò! Vattene via!»
Un cane sporco e arruffato è seduto in mezzo alla cucina e scodinzola con aria speranzosa.
«Che cosa ci fai qui, stupida creatura? Vattene!»
Faccio per afferrarlo per il collare, ma lui crede che voglia giocare e si rotola sulla schiena, la lingua a penzoloni.
«Alzati!»
La mia esperienza con gli animali è a dir poco limitata e non ho mai pensato di approfondirla. A tredici anni mi affezionai in modo irrazionale a un criceto di nome Jeremy che mia madre mi aveva regalato per il compleanno. Per mesi, dopo la morte di Jeremy, ogni volta che pensavo ai suoi vispi occhietti neri e al suo minuscolo nasino rosa mi venivano le lacrime agli occhi e dovevo pizzicarmi parecchie volte per riprendere il controllo. Era assurdo che dovessi essere tanto afflitta per una bestiolina che non faceva altro che dormire di giorno e correre sulla sua ruota di notte tenendomi sveglia. Non aveva senso continuare a pensare a Jeremy, e detestavo il fatto che i miei sentimenti fossero così sproporzionati rispetto a ciò che avevo perso. In quel momento decisi che poiché gli animali evidentemente suscitavano in me sentimenti irrazionali, era ovvio che non ero tagliata per allevarne uno.
«Non dovresti essere qui», ordino al cane. «Sei tutto sporco. Per favore, vattene.»
Indico la porta aperta della cucina e cerco di pensare a quale possa essere il comando per far allontanare un cane.
«Vattene! Esci! Di là!»
Il cane si rotola dalla parte opposta, agita furiosamente la coda e abbaia.
«Vedo che voi due avete fatto amicizia.»
Mi giro e vedo Ewan appoggiato allo stipite della porta con un sorriso divertito sulle labbra. Sembra che non abbia dormito e non si sia rasato per una settimana e ha le mani coperte di graffi e segni di morsi.
«Suppongo che sia tuo», esclamo indicando il cane.
Ewan si copre la bocca con la mano e cerca di soffocare uno sbadiglio. «Sì. Ma a quanto pare gli piaci. Non hai mai ipotizzato di tenere un cane, vero?»
«Assolutamente no. Portalo via di qui, per favore.»
«Sicura? Sembra che voi due andiate d’accordo.»
Rendendosi conto che non sono dell’umore giusto per scherzare, Ewan fischia e il cane vola attraverso la porta aperta, sedendosi ai suoi piedi nel patio e guardandolo con espressione adorante. Ewan si stropiccia gli occhi e sbadiglia di nuovo, e io sono così stanca che mi ritrovo a imitarlo. Lui mi lancia un’occhiata e sorride.
«Nel mio caso è colpa di un cane che ulula tutta la notte. Nel tuo?»
«Incubi», rispondo, assonnata, senza riflettere. Subito vorrei rimangiarmi tutto. Non ho mai parlato con nessuno dei miei incubi. Non voglio che la gente creda che in me c’è qualcosa di sbagliato, che non so controllare i pensieri folli che a volte mi passano per la testa notte dopo notte. Non voglio che qualcuno possa pensare che sono mentalmente disturbata.
«Oh, gli incubi sono terribili», concorda Ewan. Si accovaccia nel patio e prende la testa del cane tra le mani, accarezzandola con tale vigore che temo possa fargli del male, ma l’animale non smette di scodinzolare. «L’anno scorso continuavo a fare un sogno orribile nel quale mi sembrava di cadere in un pozzo. Mi ha tormentato per mesi.»
«Sul serio?» domando, sollevata all’idea di non essere l’unica.
«Già. Era spaventoso. Mi svegliavo tutto sudato, aggrappato alla sponda del letto per non cadere. Mi pareva di sentire la puzza di melma delle pareti del pozzo e l’acqua che mi scorreva intorno ai piedi.»
«Sentivi l’odore?» indago, rassicurata dal fatto che altra gente avverta sensazioni olfattive in sogno.
«Era orrendo. E anche dopo che mi svegliavo, quel tanfo mi perseguitava per tutta la mattina.»
Anch’io! rischio di esclamare. Per tutto il giorno sento odore di manzo crudo e salsiccia e pollo non cucinato...
«Come sono i tuoi incubi?» mi chiede Ewan.
Devo parlargliene? No, non posso. Sembrerei pazza. Ma lui in fondo mi ha raccontato il suo e mi ha chiesto del mio, e sono così stanca che voglio solo togliermi quelle immagini dalla testa, parlarne con qualcuno...
«C’è un gigante che cerca di strangolarmi, e puzza di carne...» Le parole mi sgorgano dalle labbra senza che quasi me ne accorga. «Sento le sue dita intorno al collo, stringono, e gli occhi stanno per schizzarmi dalle orbite, quando tutto diventa buio e io penso di essere morta.»
Ewan ha un’aria sconvolta. Mi fisso i piedi, desiderando all’improvviso di poter tornare indietro. Chissà che effetto gli avrò fatto, a parlare di giganti? Lui potrà anche avere dei sogni folli, ma dopo tutto è un tizio che parla con gli alberi. Da un tipo così c’è da aspettarselo: passa la maggior parte del giorno a pensare assurdità.
«Sembra spaventoso», commenta Ewan, guardandomi da sotto in su senza smettere di accarezzare il cane. Appare onestamente dispiaciuto per me.
Lo è! vorrei gridare. Ho la sensazione di morire, di abbandonare il mio corpo, e non riesco ad allentare la stretta di quelle mani enormi e callose...
«In effetti fa un po’ paura», ammetto, minimizzando, e persino mentre le pronuncio quelle parole sembrano estranee nella mia bocca: io non riconosco mai di avere paura di qualcosa. Mai.
«Io credo che sarei terrorizzato», aggiunge lui, partecipe.
Ci guardiamo. Noto che nelle scorse settimane Ewan si è abbronzato, fisso la striscia un po’ più rossa sul naso, dove si è scottato. Anche i capelli si sono schiariti al sole, e alcune ciocche color miele spiccano sui riccioli castani. Distolgo lo sguardo, arrossendo.
«Comunque», aggiungo in fretta, «com’è che hai un cane che ti tiene sveglio la notte?»
Realizzando che la conversazione ha cambiato direzione, Ewan si alza e guarda il cane. «Il suo padrone era un mio cliente, il signor Gorzynski, un vecchietto che viveva qui vicino. È morto la settimana scorsa. Diceva sempre che avrebbe voluto che il cane rimanesse con me, e così eccoci qui, una nuova squadra.»
«Perché ha voluto lasciare il cane proprio a te?» domando, stupita che qualcuno possa voler affidare una qualunque creatura vivente a Ewan.
«Diciamo solo che ha un’abilità particolare che torna utile nel mio lavoro», risponde lui, sibillino.
«Vuoi dire che gli piace sedersi a bere il caffè?»
Ewan mi guarda con aria scherzosamente scioccata. «Ehi, signorina May, sbaglio o ha appena fatto una battuta?»
Mi morsico le labbra per non sorridere.
«Per la cronaca», continua lui, «siamo al lavoro dalle nove di stamattina senza nemmeno una tazza di caffè e una fetta...» Sbircia alle mie spalle, verso la torta messa a raffreddare sul piano di lavoro. «... di torta al cioccolato a darci energia.»
«Che tragedia», lo prendo in giro, stupita e al tempo stesso divertita dalla sua audacia. «Devi solo sperare che qualcuno si impietosisca e ti porti uno spuntino prima che tu deperisca.»
Ewan sorride. «La speranza è l’ultima a morire.»
Aspetto che se ne vada, ma lui rimane lì con aria pensosa.
«Se vuoi posso prepararti una tintura madre per gli incubi. Melissa, lavanda, camomilla...»
«No, grazie», rifiuto in fretta, perché non voglio tornare sull’argomento. Ho già la sensazione di aver parlato troppo.
«Può aiutare a combattere lo stress. So che è un periodo difficile, per te, con tua madre...»
«Non sono stressata. Sto benissimo, grazie. Ti porto il caffè», rispondo mettendo fine alla conversazione.
Ewan mi rivolge un breve cenno del capo, dopodiché si gira e torna in giardino. Io appoggio i gomiti sul piano di lavoro della cucina e mi copro il viso con le mani, strofinandomi gli occhi stanchi con il palmo delle mani. Sono esausta. E ho un mal di testa terribile. Perché gli ho raccontato dell’incubo? È come se mi fossi spogliata nuda e mi fossi messa a correre avanti e indietro per il giardino davanti a lui.
«Sai qual è la cosa migliore di Digger?»
Sollevo il capo di scatto, sorpresa di vedere Ewan ancora lì.
«Cosa?»
«Digger, il cane. La sua miglior qualità è che sa ascoltare. Se ho bisogno di chiacchierare di qualcosa, lui è lì. È sempre tranquillo, non interrompe mai, ed è molto discreto.»
«Non ho nulla di cui discorrere», rispondo, sbrigativa.
Guardo Digger seduto sotto il portico, ansimante e con un filo di bava che gli cola dalla bocca.
«E anche se così fosse, di certo non perderei tempo a parlare con un vecchio cane bastardo.»
«Fa’ come credi. Magari te lo lascio qui lo stesso per un po’. Caso mai cambiassi idea.»
«Perché mai dovrei voler attaccare bottone con un cane? Dovrei essere fuori di... Ehi! Torna indietro! Non puoi lasciarlo qui!»
Ma Ewan è già a metà vialetto e si inoltra nel giardino fischiettando.
Io e il cane ci guardiamo.
«Tu non entri.»
Lui guaisce e appoggia la testa sulle zampe. Per un attimo penso di aver ferito i suoi sentimenti e mi sento in colpa.
«Oh, non essere così patetico.» Mi alzo per chiudere la porta della cucina. «Non sto rivolgendomi a te, non sono pazza come il tuo padrone.»
Il cane mi fissa con aria d’accusa.
«Intendevo il tuo nuovo padrone», preciso in fretta, «non il signor Gorzynski. Sono certa che lui fosse perfettamente sano di mente e non perdesse tempo a parlare con te.»
Il cane solleva la testa e lancia un acuto ululato.
«Che cosa cavolo ti succede?» domando, colta in contropiede. «Smettila di fare lo sciocco. Che cosa penserebbe il signor Gorzynski se ti vedesse?»
Il cane emette un altro lungo lamento straziante.
«Perché continui a ululare ogni volta che pronuncio il nome del signor Gorzynski?»
Il cane guaisce di nuovo e io mi copro le orecchie. Sto per chiudere la porta quando mi viene in mente una cosa.
«Oh, ti manca il signor... il tuo vecchio padrone.»
Il cane posa la testa sulle zampe anteriori e mi fissa con aria triste.
«È per questo che ululi tutta la notte? Ti manca?»
Mi siedo sul gradino e tolgo una foglia dal pelo del cane, muovendomi con cautela per timore che possa girarsi e mordermi, ma lui si limita a fissarmi con i tristi occhioni scuri. Esitante, gli accarezzo un orecchio. È soffice e caldo. Lo accarezzo ancora. Lancio un’occhiata verso il giardino per assicurarmi che Ewan non sia in vista e mi guardo intorno per controllare che non ci siano altre persone nascoste tra i cespugli in attesa che io mi umili. Quando sono sicura di non avere testimoni, parlo a bassa voce con il cane.
«Non essere triste, devi ricordare i bei tempi. I momenti felici in cui uscivate a passeggio insieme e stavate seduti sul divano oppure vi sdraiavate al sole in giardino. Devi pensare a quando giocavate insieme nel parco e sonnecchiavate davanti al fuoco o guardavate la televisione.»
Mi poso la testa sulle ginocchia, in una posizione singolarmente simile alla sua, e continuo ad accarezzargli le orecchie.
«Tutte le cose belle che facevi con il signor... con il tuo vecchio padrone... nessuno può portartele via. Quei ricordi rimarranno per sempre qui dentro.» Do qualche colpettino sulla testa del cane. «E quando ti senti triste, puoi sempre rannicchiarti accanto a un suo vecchio maglione e in un certo senso sarà come averlo di nuovo vicino.»
Il cane chiude gli occhi.
«È triste, vero, perdere qualcuno che si ama? Ma devi essere forte, devi essere un cane coraggioso. Perché hai tutta una vita davanti a te e il tuo vecchio padrone non vorrebbe saperti infelice. So che ti riesce difficile immaginare di poter essere di nuovo felice come un tempo, ma devi andare avanti e cercare di vivere il meglio possibile.»
Il cane inizia a russare sommessamente. Vedo una lacrima cadere sul pavimento del portico ai miei piedi e mi rendo conto che è mia.
«Devi solo avere coraggio», mormoro.
«Maledetta bestia», impreca Mark posando la borsa in corridoio e spazzolandosi i pantaloni estivi color crema.
«È soltanto un po’ di fango», gli dico chiudendo la porta d’ingresso. «Era solo eccitato all’idea di conoscerti.»
«Meg», risponde lui in un tono che mi fa capire che sta per dire qualcosa di importante che farei meglio ad ascoltare con attenzione. «Ho appena trascorso ore a guidare nel traffico. Non mi aspettavo certo che un cane sporco mi saltasse addosso nel momento in cui ho aperto la portiera. Questi pantaloni vanno lavati a secco, capisci? E le tintorie sono aperte solo fino alle cinque durante la settimana, quindi dovrò uscire presto dal lavoro e...»
Starnutisce. «... e lo sai che sono allergico agli animali e...»
Ecciù!
«... e comunque che cosa ha in testa quel maledetto giardiniere a permettere al cane di combinare questo macello?»
Ecciù!
«È un bravo cane», ribatto, cercando di aiutare Mark a pulire i pantaloni.
«Ha scavato buche in tutto il giardino davanti, lo sai?» replica lui, scostando la mia mano.
«Sì, ma lui è un cane da tana, non per niente si chiama Digger, scavatore. A quanto pare è molto utile, ma temo che Ewan abbia qualche problema a smorzare il suo entusiasmo.»
«Chi cavolo è Ewan?»
«Il giardiniere.»
«Oh, lui. Be’, di certo non è un cane di razza e probabilmente ha un sacco di malattie. I cani portano pulci, zecche, acari, tenia, ascaridi... Non riesco a capire perché si dovrebbe volerne uno. A parte i pastori, avere un cane è del tutto inutile al giorno d’oggi.»
«Be’, a qualcuno piace avere degli animali da compagnia», obietto, esitante.
«Per quello bastano gli altri esseri umani.»
«Ma forse le persone trovano più facile conversare con gli animali che con gli esseri umani. Se si sentono depressi, o soli...»
«Meg», mi rimprovera serio, «solo le persone tristi o disperate parlano con gli animali.»
Io giocherello con una ciocca di capelli, imbarazzata, e cerco di non pensare alla lunga conversazione che ho avuto con Digger stamattina. Che cosa mi è preso? Intendevo solo rivolgere due parole gentili a un animale che sembrava triste, e un’ora dopo ero ancora seduta lì a raccontargli di mia madre, della mia infanzia, dei miei sogni, delle ansie e le paure per il futuro... È tutta colpa di Ewan. Non avrei mai fatto una cosa tanto assurda se non fosse stato per lui.
«Le persone che parlano con gli animali», continua Mark, controllando con attenzione i pantaloni per cercare tracce residue di sporco, «sono le stesse che parlano con Dio. O con le fate. O da sole. Sono persone incapaci di relazionarsi con i propri simili. Che non sanno gestire altrimenti le proprie emozioni. Persone come tua madre.»
Per un attimo ho voglia di prenderlo a schiaffi, poi rammento a me stessa che Mark ha ragione. Annuisco, rimproverandomi mentalmente per quella reazione. Di certo non parlerò mai più con quel cane.
«Sì», concordo. «È esattamente il genere di assurdità che farebbe lei.»
«E guardati», continua, togliendomi un paio di peli di cane dalla camicia, «anche tu sei un disastro. Devi insistere perché lasci quel bastardino a casa.»
Cerco in fretta altri peli che possano infastidirlo. Ho passato un’eternità a farmi bella per lui, a scegliere i vestiti che preferisce.
«Hai ragione», ammetto, irritata sia con Ewan sia con Digger. «Glielo dirò.»
«Be’, non pensiamoci più», conclude Mark con un sorriso forzato. «Ti ho portato un regalino.» Apre la borsa. «Chiudi gli occhi.»
Un regalo? Mark non fa mai regali. Crede siano «uno squallido sostituto dell’affetto». L’unica cosa che mi abbia mai dato è una penna a sfera nera, che secondo lui mi avrebbe aiutato ad avere ragione delle mie maiuscole un po’ indisciplinate. Chiudo gli occhi, eccitata. Saranno fiori? Cioccolatini? Un attimo dopo mi piego sotto il peso di una pila di libri che lui mi ha messo in mano.
«Tutti i consigli pratici di cui avrai bisogno nei prossimi mesi, così non dovrai preoccuparti di nulla.»
Leggo i titoli: Guida completa alle tasse di successione; Pianificazione finanziaria per chi ha meno di trent’anni; Qualcuno è morto e ti ha lasciato le sue cose...
«Credo che quest’ultimo sia in chiave ironica», osserva Mark, «ma potresti trovarci comunque qualche eccellente suggerimento.»
«Wow, Mark, non so che dire.»
Lui sorride orgoglioso. «Gli altri due sono letture più leggere. Per quando vuoi sollevare le gambe e concederti un po’ di relax. Mille cose che non hai mai saputo a proposito della ricerca sulle cellule staminali e Uomo-scimmia, donna-scimmia: riflessioni su L’origine delle specie di Darwin. E poi ho pensato che anche questo potrebbe tornarti utile.»
Tira fuori dalla borsa un altro libro e me lo agita davanti al naso. Sulla copertina c’è la foto di un tizio con un passamontagna nero. Il titolo, PARLA! è stampato in caratteri rossi.
«L’ha scritto un ex agente dei Servizi Segreti. Parla delle tecniche di interrogatorio.»
Mark posa il libro in cima alla pila che già reggo a fatica.
«Parte del contenuto potrebbe essere un po’ estremo, e immagino che non dovresti leggerlo prima di addormentarti.»
Guardo il soldato dall’aria minacciosa sulla copertina chiedendomi che cosa Mark si aspetti che faccia. Che colleghi mia madre al microonde con dei fili elettrici? Che la minacci con un mixer? So esattamente che cosa ha condotto a questo, e in un certo senso la colpa è mia. Non gli ho detto proprio tutta la verità, visto che gli ho lasciato intendere di aver contattato l’ufficio comunale (anche se non l’ho fatto), chiedendo di parlare con qualcuno a proposito di un takeaway cinese (che non esiste), citando le leggi che lui mi aveva suggerito (e che non ricordo nemmeno) e che dopo molti tentativi non sono approdata a nulla e sono stata costretta a rinunciare. Il risultato è la grande indignazione di Mark nei confronti dell’amministrazione locale e la conseguente decisione che se un metodo per ottenere la verità non funziona, anziché perdere il proprio tempo è meglio trovare un’alternativa. Suppongo che indossare un passamontagna e minacciare mia madre per indurla a confessare siano quell’alternativa.
Lui mi sorride, aspettando la mia risposta.
«Cosa posso dire?» Sorrido. «Grazie.»
«Sapevo che ti avrebbe fatto piacere. Ho riflettuto a lungo sul genere di libri che ti sarebbero stati utili e al tempo stesso ti avrebbero tenuto alto il morale.»
Si sporge verso di me e io lo bacio in fretta sulle labbra, lottando con la mole di libri.
«È una fortuna che tu mi conosca così bene», commento, grata.
«Andiamo a mangiarlo fuori, il dessert?» propongo a Mark dopo un misero piatto di lasagne vegetali preparato da me in assenza di mia madre. Pur essendo stata di ottimo umore per tutta la mattina, non appena è arrivato Mark si è sentita poco bene e se ne è andata a letto, lasciandomi sola a mettere a frutto quattro settimane di intense lezioni di cucina. Devo ammettere che potrei non possedere un talento naturale. Per fortuna, se si tratta di trasferire il gelato in due coppette, me la cavo molto meglio.
«Fa un po’ freddo, fuori», replica Mark.
Ha ragione. Oggi è il primo di ottobre. Le lunghe giornate calde sono finite, le sere si allungano, ma io mi rifiuto di riconoscere che l’estate sia terminata. Non voglio che finisca.
«Ma no, dai, è ancora caldo», insisto, aprendo la porta del retro, e immediatamente la brezza gelida mi fa venire la pelle d’oca. «Possiamo rannicchiarci sotto una coperta su una sedia a sdraio. Sarà romantico.»
«Mangiare così non fa bene alla digestione.»
«Allora ci siederemo sulla panca.»
«Sai che non mi piace mangiare fuori. Tutte quelle mosche...»
«È troppo tardi per quelle.»
«Ho l’impressione che potrebbe mettersi a piovere da un momento all’altro.»
«Che problema c’è?» ribatto, sentendomi tutto a un tratto stranamente impulsiva. «È solo un po’ d’acqua. Si asciugherà.»
Mark mi guarda come se fossi impazzita, e per un momento mi chiedo se sia davvero così. Desidero moltissimo mangiare fuori, come abbiamo fatto quasi tutte le sere mia madre e io durante l’estate. French toast nel sole del mattino, panini con bacon e fettine di avocado nella calura del mezzogiorno, linguine con frutti di mare guardando il tramonto...
«Facciamo finta che sia ancora estate», imploro.
«L’estate è finita», decreta lui iniziando a mangiare il gelato al tavolo. «È quasi buio.»
Guardo fuori e mi rendo conto che non riesco a vedere il fondo del giardino. I meli non sono che sagome scure nella luce morente. Mi avvolgo nel cardigan, rabbrividendo. Con una stretta al cuore, mi sento travolgere da un presagio di cambiamento. Non ricordo di essermi mai sentita così impotente. Mi sono sempre vantata di essere concreta, forte, controllata. Ma a cosa mi servono quelle qualità, ora? Non posso evitare che la luce si affievolisca, né impedire alla brezza di diventare fredda; non posso proibire ai fiori di avvizzire né alle foglie di cadere dagli alberi. L’autunno arriverà, seguito dall’inverno e dalla primavera, e quando finalmente tornerà l’estate, io non la riconoscerò. Non sentirò profumini deliziosi provenire a ondate dalle finestre aperte, non ci saranno vaschette di gelato fatto in casa impilate sui ripiani del freezer. Non raccoglierò frutti di bosco chiacchierando con mia madre della nostra vita, non ozieremo in giardino l’una accanto all’altra. Non ci saranno storielle fantasiose sulle estati passate, di quando, nel luglio dell’Ottantacinque, faceva così caldo che cuocemmo braciole e torta Guinness sul davanzale e tutte le piante iniziarono a produrre ananas e mango. Nessuno mi chiederà in continuazione: «Ti sei spalmata la crema protettiva?» oppure: «Non credi che dovresti mettere il cappello?» Senza tutte queste cose sarà estate?
«Non è ancora buio», dico a Mark, speranzosa, guardando il giardino. «C’è ancora un po’ di luce.»
Alle mie spalle, lui raschia rumorosamente il fondo della coppa di gelato. «Non per molto ancora.»
Sconfitta, chiudo la porta della cucina. «No, non per molto.»