QUANDO entro al Frog and Whistle, bagnata e senza fiato dopo aver fatto tutta Euston Road di corsa sotto il temporale, per un attimo rimango disorientata. Questa sera al pub ci sono persone appoggiate al bancone, sedute ai tavoli, chine su vecchissime slot machine, in piedi a gruppetti con le pinte in mano: tutte si godono l’atmosfera turbolenta ed euforica. Se non fosse per il familiare puzzo di birra rancida e pipì e per Roba che Scotta che ride sguaiata e si versa addosso la lager, potrei pensare di essere nel posto sbagliato. Noto sorpresa che il rock dei Chlorine ha attirato parecchia gente.

Indugio incerta sulla soglia, quando dal fondo del locale arriva un rumore improvviso, come di un motore tenuto su di giri o di qualcuno che grida di dolore. Ci vuole un po’ prima che riesca a individuare una melodia, e alla fine riconosco in quel fracasso un’orribile versione di Satisfaction dei Rolling Stones. I clienti, tuttavia, sembrano apprezzarla. Un gruppo di teste rasate inizia a urlare le parole e ad alzare i pugni in aria, mentre Roba che Scotta rotea i fianchi generosi per il loro divertimento. Mi alzo in punta di piedi, cercando di vedere la band, ma tutto quello che riesco a scorgere è un pezzo della chitarra, poi la manica di un giubbotto di pelle, un microfono che viene agitato in aria. E se uno di loro mi guardasse e riconoscesse se stesso? mi domando mentre il cuore batte forte per il nervosismo. E se io ritrovassi il mio viso in uno dei loro? I nostri occhi si troverebbero subito da un capo all’altro del locale affollato? La musica si fermerebbe all’improvviso perché uno di loro smetterebbe di suonare e mi fisserebbe sbalordito, riconoscendo in me la figlia perduta?

Mi faccio strada tra la gente, evitando per un soffio di essere colpita dal gomito di uno degli uomini che cantano e cercando di non guardare lo spettacolo disgustoso di Roba che Scotta che balla, finché non raggiungo il fondo del pub. Mi fermo davanti ai musicisti e li osservo − quattro uomini sui quarantacinque, stempiati, con facce scavate, jeans troppo stretti, voci stonate − e non posso fare a meno di sentirmi un po’ delusa. Proprio come nel caso del mio incontro surreale con il dottor Bloomberg, chissà perché mi aspettavo che questa band, che potrebbe rappresentare un tenue ma genuino legame con il passato di mia madre, sarebbe stata diversa, speciale, in un certo qual modo magica. E invece sembrano solo quattro uomini in piena crisi di mezza età. Ciascuno di loro cattura la mia attenzione a un certo punto, ma nessuno la trattiene per più di un secondo. Se uno di loro ha ravvisato qualcosa di familiare nel mio aspetto, il ricordo di un tempo lontano, non lo dà a vedere. Nessuno di loro mi assomiglia, e tutto a un tratto mi appare ridicolo averlo desiderato o essermelo augurato.

Non sapendo cos’altro fare, e sentendomi di colpo in imbarazzo a starmene lì in piedi da sola, occupo uno sgabello in fondo al bancone e ordino una bottiglia di aranciata allo stesso barman dall’aria letargica della volta scorsa. Non ho intenzione di berla per paura di prendermi qualcosa, ma almeno, con un bicchiere in mano, non mi sento troppo fuori posto.

Tutto ciò che posso fare è aspettare un intervallo.

Dopo quasi due ore, trascorse ad ascoltare la band gemere e guaire senza la prospettiva di una pausa, inizio a sentirmi frustrata. Le orecchie mi fischiano e dalla parte opposta del locale c’è un tizio con una sirena tatuata sul braccio che continua a strizzarmi l’occhio. Ogni volta che la musica si interrompe mi preparo ad acchiappare per la collottola uno dei musicisti, ma si fermano giusto il tempo di bere un sorso di birra e scambiare qualche battuta con i clienti, che dopo i primi trenta minuti hanno iniziato a diminuire considerevolmente. I pochi rimasti chiamano per nome i componenti della band e immagino siano i loro fedeli supporter: amici, parenti e una manciata di fan leali e privi di senso musicale. Il cantante – suppongo sia Wizz – è talmente ubriaco che continua a dimenticare il testo delle canzoni e quelle che ricorda sono sempre più stonate. Roba che Scotta è persino più sbronza di lui, e in diverse occasioni nel corso della serata ha mostrato le tette alla band, ha tentato di attaccar briga con il barman e ha cercato di impadronirsi del microfono per esibirsi in una specie di karaoke improvvisato.

E poi, finalmente, sento il suono che aspettavo con ansia...

«Signore e signori siete stati fandastici», biascica Wizz nel microfono. «Un fandastico pubblico di signore... e di signori. E noi lo apprecia... lo apprezziamo. Arrivederci alla settimana prossima. No, al mese prossimo.»

«Non vi disturbate!» grida qualcuno.

In mezzo a esplosioni di «Buu!» applausi esitanti, fischi e qualche strillo di Roba che Scotta, cerco di guadagnare di nuovo la prima fila. L’elenco di domande che mi sono accuratamente preparata in treno svanisce dalla mia mente, e quando infine mi ritrovo davanti al batterista, un tizio alto e allampanato che si è diretto per primo verso il bancone, non so più che cosa dire.

«Ciao. Ehm... posso parlarti? Avrei delle domande. Io... scusa, so che probabilmente ti sembrerà strano, ma mi chiedevo...»

«Ti amo!»

Roba che Scotta mi spinge da parte e getta le braccia al collo del batterista, che appare sorpreso.

«Portami nel vicolo sul retro e fingi che sia una groupie!» grida leccandosi le labbra e tirando i vestiti del pover’uomo.

«Non possiamo andare a casa?» domanda lui, scocciato. «Domani devo andare al lavoro. E probabilmente sta ancora piovendo.»

«Oh, ma tu dovresti essere selvaggio e folle!» geme Roba che Scotta rabbiosa, spingendo il batterista così forte da fargli quasi perdere l’equilibrio. «Fa parte del tuo lavoro!»

«Io lavoro alla B&Q», ribatte lui pacato, raddrizzandosi la camicia che lei gli ha quasi tolto dalla spalla ossuta. «Non hai sposato Noel Gallagher, sai? Non ho intenzione di andare a spaccarmi la schiena in un vicolo con il rischio di non combinare nulla. Ho diciotto casse di piastrelle da spostare, domani.»

Quando Roba che Scotta si allontana, brontolando che lei è uno schianto e che avrebbe potuto sposare chiunque, il batterista la segue, lasciandomi lì a guardarli andare via.

«Tutto bene, dolcezza?» mi sussurra qualcuno all’orecchio.

Mi giro e mi trovo davanti il bassista, anche lui ubriaco, che sorseggia birra da una bottiglia e mi guarda in un modo che mi induce a pregare che non sia lui mio padre.

«Allora, che te ne pare?» domanda, accennando alla pila di strumenti ammassati sul pavimento. «Non male, eh? Io suono il basso.»

«Sì, lo so», rispondo costringendomi a sorridere. «Ho visto.»

«È lo strumento più difficile», si vanta lui, ondeggiando un po’, «perché ci sono così tante corde e... note, e via dicendo.»

«Siete stati molto bravi», mento. «In effetti mi stavo chiedendo se potete darmi una mano.»

In sottofondo si sentono la musichetta di una slot machine e un fragoroso tintinnare di monete accompagnati da un coro di grida di trionfo. Gli altoparlanti di un impianto stereo diffondono della musica.

«Cosa?» domanda il bassista chinandosi verso di me e mettendosi una mano dietro l’orecchio. L’alito che sa di alcol rancido mi fa venire voglia di vomitare.

«Ho detto che mi chiedevo se potete aiutarmi», grido. «Sto cercando di scoprire se qualcuno di voi un tempo conosceva mia madre.»

Il bassista fa un passo indietro e mi guarda insospettito. «È per l’assegno di mantenimento?»

«No. Ho trovato questo a casa di mia madre», spiego tirando fuori il volantino spiegazzato e mostrandoglielo. «E c’è questo indirizzo sul retro. Vedi? E il padrone di casa, Tony, mi ha confermato che una volta voi vivevate lì. Tutto quello che voglio sapere è perché mia madre aveva il vostro indirizzo e...»

«Wizz!» grida il bassista, improvvisamente eccitato. «Vieni qui!»

Wizz, che sta cercando di infilare il braccio nella manica sbagliata del giubbotto di pelle, butta l’indumento su un amplificatore, prende la sua bottiglia di birra e si incammina barcollando nella nostra direzione.

«Guarda qui!» esclama sorridendo il bassista, agitando il volantino. «Cioè, questo è davvero vecchissimo. Di quando eravamo vecchi.»

«Giovani», lo correggo.

«Di quando eravamo giovani!»

Wizz esamina con attenzione il volantino con gli occhi iniettati di sangue. Ha il viso scavato, la barba ispida striata di grigio. Un tempo dev’essere stato un bel ragazzo, ma venti e passa anni di stravizi hanno lasciato il segno.

«È suo!» esclama il bassista, tendendo il braccio per indicarmi anche se sono davanti a lui.

«Ehi, Rocket!» grida Wizz al tastierista. «Guarda cos’ha trovato Beasty.»

Rocket, un tipo sovrappeso con la pelata e un orecchino, che sta aiutando un gruppo di persone a festeggiare la vittoria alla slot machine, ci raggiunge strascicando i piedi. «Wow», si meraviglia prendendo il volantino, «è un sacco vecchio!»

«È suo!» esclama Beasty, indicandomi di nuovo.

«È di mia madre», preciso io. «Era dentro una vecchia valigia. Sono venuta qui perché sto cercando di scoprire se qualcuno di voi la conosceva.»

Wizz e Rocket adesso sembrano preoccupati.

«Non ha niente a che fare con assegni di mantenimento o roba simile», mi affretto a chiarire, e loro si rilassano immediatamente. «Ho solo bisogno di sapere perché mia madre aveva il vostro indirizzo. Perché quello era il vostro indirizzo, vero?»

I tre fissano il volantino.

«No, non è il nostro indirizzo», risponde Wizz. «Questo è l’indirizzo di un pub.»

«Di questo pub», precisa Beasty, «quello dove sei ora.»

«No, quello dall’altra parte», intervengo, impaziente, prendendo il volantino e girandolo. «Gray’s Inn Road, 15.»

«Oh, questo. Sì, abitavamo lì», annuisce Rocket.

«Davvero?» domanda Beasty.

«Sì. Ti ricordi? Il posto dove stavamo agli inizi. Quello con le macchie di muffa sulle pareti e il buco in bagno.»

Beasty è confuso. «Potrebbe essere ovunque», afferma. «Anche dove vivo adesso.»

«Il posto dove hai sfondato la porta passandoci in mezzo con la moto. Dove Wizz ha dato fuoco ai propri pantaloni e io l’ho lavato con la limonata per spegnerlo. L’appartamento in cui Bomber ha lanciato un televisore giù dalla finestra e ha quasi ucciso un barbone.»

Beasty continua a scrollare la testa.

«Dove guardavamo la ragazza che si spogliava alla finestra di fronte», aggiunge Wizz.

«Ah, quello!» esclama raggiante Beasty, il viso che si illumina. «Certo che me lo ricordo!»

Scoppiano a ridere distribuendosi pacche sulle spalle, e io non so più che cosa sperassi di ottenere stasera. Mi auguro di non scoprire che uno di loro è il mio vero padre.

«A quanto pare, per un certo periodo sono vissute con voi anche due ragazze», proseguo, parlando a voce alta per farmi sentire mentre loro ridono allegramente ricordando il loro passato di eccessi.

«Oh, c’erano un sacco di ragazze!» sogghigna Wizz, strizzandomi l’occhio, e tutti scoppiano a ridere di nuovo.

«Quelli sì che erano bei tempi!»

«Ti ricordi le gemelle?»

«Ma certo! Suzy e Sarah.»

«Come potrei dimenticarle?»

«Be’, è per quello che si mette su una band, no?!»

«Una delle ragazze aveva un bambino», grido per sovrastare le risate.

Di colpo i tre smettono di ridere e si guardano l’un l’altro.

«Davvero?» domanda Beasty. «Quando?»

«Non ero io», si difende Wizz.

«Nemmeno io», aggiunge Rocket.

«Quale delle due?» si informa Beasty. «Suzy o Sarah?»

«No», sospiro io. Come vorrei che fossero un po’ più sobri! «Il bambino viveva con voi. Così ha detto Tony. Le due ragazze vivevano con voi e una di loro aveva un bambino.»

«Oh!» dice Rocket. «Sì, è vero. C’era un bambino.»

«Io non me lo ricordo», dichiara Wizz. «Ricordo un gatto. Credo che ne avessimo uno...»

«Com’era?» si informa Beasty.

«Rosso e bianco...»

«Non il gatto, il bambino!»

«Cosa significa com’era?» interviene Rocket, biascicando le parole. «Era come tutti i bambini. Era molto piccolo.»

«Tutti i bambini sono piccoli.»

«No, questo era davvero molto piccolo. Non ricordi? Troppo piccolo. È per questo che me lo ricordo. Lei pensava che avesse qualcosa che non andava.»

«Chi?»

«La madre. Com’è che si chiamava?»

Troppo piccolo? Il cuore inizia a battermi forte mentre aspetto che mi dicano il nome. Non può essere... O sì?

«Me la ricordo!» grida all’improvviso Wizz. «La piccolina. Piangeva un sacco. Ah, era un cosino davvero grazioso. Dai che te la ricordi anche tu, Beasty.»

«No, niente di niente. Ne sei sicuro? Perché mai un bambino piccolo avrebbe dovuto vivere con noi? Sei sicuro che non fosse un’allucinazione? Perché all’epoca ti facevi di brutto, quando eri...»

A Wizz sfugge un singulto. «No, ce la ricordiamo tutti e due, vero Rocket? Devi ricordartela anche tu, Beasty!»

«Come si chiamava?» domando, impaziente.

«Era piccolissima, Beasty», insiste Wizz, appoggiandosi pesantemente alla spalla dell’amico, «e rumorosa. Io cantavo per farla stare tranquilla, ma non credo che le piacesse molto.»

«Ma come si chiamava?» grido.

«La mamma o la bambina?» chiede Rocket.

«Tutte e due.»

«Non ne ho idea. Ehi, com’era il nome?» domanda a Wizz, tirandolo per una manica.

«Oh, questa è una domanda diffi... diffiscile», risponde il cantante, agitandomi un dito davanti alla faccia. «E dovresti chiederlo a uno che non ha bevuto così tanto.»

«Era Val?» suggerisco, il cuore in gola.

Tutti e tre scuotono il capo.

«Val. No. Non Val», dice Rocket. «Non è un nome adatto a un bambino piccolo.»

«I neonati si chiamano, non so... Emily, o Lucy», biascica Wizz.

«Oppure Thomas», aggiunge Beasty.

Wizz gli dà una pacca sulla spalla. «Thomas è un nome eccen... eccellente per un bambino.»

«Grazie, amico», risponde Beasty, ricambiando la pacca.

«No, non la bambina», insisto io, «la madre. Il suo nome era Val?»

«Gwennie!» esclama all’improvviso Beasty. «La ragazza era Gwennie!»

«No, no, no, no», ribatte Rocket, «non Gwennie. Gwennie era la ragazza di Bomber.»

«Sua moglie!» grida Wizz, sollevando la bottiglia come per festeggiare l’unione della coppia.

«Sì, dopo si sono sposati», conferma Rocket, «ma all’epoca, quando viveva con noi, era solo la sua ragazza. E c’era anche la sua migliore amica, era lei quella con il bambino.»

«Val?» domando speranzosa. «Si chiamava Val?»

Scuotono la testa di nuovo tutti e tre.

«No, non Val...»

«Valerie!» esclama Rocket.

«Valerie, sì!» confermano a gran voce gli altri due, annuendo vigorosamente.

«Oh, l’adorabile Valerie!»

«La bellissima Valerie!»

«Valerie con la bambina! La piccola bambina rosa!»

Tutto a un tratto il cuore mi batte così forte che riesco a stento a respirare.

«E la bambina», domando, senza nemmeno cercare di mascherare l’urgenza nella mia voce, «la bambina si chiamava Meg?»

«Meg!» gridano all’unisono tutti e tre.

«La piccola Meg!»

«Sono io!» grido, eccitatissima. «Io sono Meg, la bambina. Valerie è mia madre!»

Smettono di gridare e mi squadrano dalla testa ai piedi.

«Sembri molto... cambiata», commenta Rocket.

«Sono cresciuta!» Sono così frastornata per l’emozione che non faccio nemmeno caso a quanto sia ridicolo ciò che ha detto. Ecco! Ce l’ho fatta! Ho trovato un collegamento con il passato di mia madre. Con il «mio» passato.

«Tu sei la bambina?» domanda Wizz.

«Sì! Non ho idea di come fosse vivere con voi, ma ho trovato questo volantino con l’indirizzo», spiego, strappando il pezzo di carta dalle mani di Rocket e agitandolo. «E questo è l’anno in cui sono nata e mia madre si chiama Valerie e io sono Meg e...»

Prima che possa finire la frase, Wizz mi ha abbracciata. «Meg!» mi strilla nell’orecchio. «La piccola Meggy!»

«Piccola Meggy!» si uniscono gli altri due, in coro. «Piccola Meg!»

Mi ritrovo strizzata in un abbraccio a tre che sa di birra, sigarette e sudore, i pensieri che si rincorrono nella mia mente. Che significa tutto questo? Perché vivevamo con questa gente? Come mai mia madre li conosceva? Chi era l’amica di mia madre, Gwennie?

Poi fanno un passo indietro per osservarmi con aria meravigliata, come se non avessero mai immaginato che i bambini crescessero e si trasformassero in adulti.

«Ah, piccola Meggy», borbotta Wizz accarezzandomi goffamente la testa.

«Come sta Valerie?»

«Quanti anni hai adesso?»

«Perché ve ne siete andate? Avreste dovuto rimanere e vivere con noi per sempre.»

Mi danno dei buffetti e mi accarezzano i capelli, mi pizzicano le guance e mi pongono mille domande tutte in una volta.

«Come mai conoscevate mia madre?» domando, cercando disperatamente di andare a fondo della questione.

«Viveva con noi», dichiara Rocket.

«Sì, ma perché? Come era finita a vivere con voi?»

Mi guardano pensosi.

«È arrivata con la sua amica, Gwennie», risponde Beasty. «Credo che, semplicemente, un giorno si siano presentate all’appartamento.»

«Ricordo che non è rimasta molto», aggiunge Wizz, puntando un dito verso l’alto, per indicare un pensiero. «Non funzionava un granché bene, immagino, tenere un bambino piccolo lì dentro.»

«Era venuta da noi», interviene Rocket, oscillando leggermente, «perché i suoi l’avevano buttata fuori di casa.»

Gli altri annuiscono, confermando quel ricordo.

«Una storia triste», borbotta Rocket.

Buttata fuori di casa? Mia madre non è mai stata sbattuta fuori. Mi si stringe il cuore mentre inizio a chiedermi se ci stiamo davvero riferendo alla stessa persona.

«Non erano contenti che lei avesse un bambino, vero?» domanda Wizz ai due amici.

Rocket e Beasty confermano, richiamando alla memoria eventi dimenticati, mentre io mi strofino la fronte chiedendomi di che cosa stiano parlando. Forse hanno bevuto troppo e la confondono con qualcun altro. I miei nonni mi amavano. Hanno aiutato la mamma a crescermi. Per i miei primi sei mesi abbiamo vissuto con loro, come un’affettuosa famiglia allargata.

«Così Valerie ci seguì qui, da Cambridge», racconta Wizz. «Temo non avesse un altro posto in cui andare.»

«Voi siete di Cambridge?» domando.

Annuiscono. Forse, dopo tutto, stanno parlando della persona giusta. Dev’essere così. Ma i miei nonni non ci hanno mai messe alla porta.

O forse sì?

«Dove eravamo dirette quando vi abbiamo lasciati?» domando. «Mia madre e io.»

«È quello che vorrei sapere», biascica Wizz, appoggiandosi a me e sorridendo. «Dove siete finite? Ci avete abbandonati.»

«Avreste dovuto rimanere!» esclama Beasty accarezzandomi il viso. «Avreste dovuto rimanere per sempre e noi ti avremmo cresciuta.»

«Dobbiamo tornare a vivere tutti insieme!» propone Rocket, illuminandosi.

Tutti e tre sollevano le birre e brindano per festeggiare quell’idea fantastica, discutendo eccitati della logistica della futura sistemazione.

«Cos’altro potete raccontarmi?» chiedo, cercando di mantenerli sull’argomento. «Che cos’altro sapete di mia madre?»

Loro alzano le spalle.

«Aveva i capelli lunghi», suggerisce Beasty.

«Non la conoscevamo molto bene», aggiunge Wizz. «È rimasta solo poche settimane.»

«Ed è stato molto tempo fa», precisa Beasty.

«E noi siamo ubriachi», conclude Rocket.

«E Gwennie?» domando. «Avete detto che era amica di mia madre. Sapete che fine ha fatto?»

«Non la vediamo da anni», risponde Wizz.

«Avete ricordato che ha sposato qualcuno...»

«Bomber», annuisce Rocket. «Il nostro batterista.»

Sbalordita, cerco di elaborare quell’informazione. Roba che Scotta? Mia madre era la migliore amica di Roba che Scotta!

«Il batterista? Vuoi dire il tipo alto che se ne è appena andato con...»

«No, no, no», si affretta a rispondere Rocket. «Quello è Wonky. Non è il primo batterista del gruppo. All’inizio ce n’era un altro: Bomber. Più tardi sposò Gwennie. Ma non è durata molto.»

Mi arrovello per cercare di capire come procedere.

«Allora dovrei mettermi in contatto con Gwennie», dico loro.

«Sì, dobbiamo trovare Gwennie», concorda Rocket. «Così possiamo dirle che torniamo tutti a vivere insieme!»

E brindano di nuovo.

«Okay», mi arrendo, decidendo che è più facile avvallare questa idea ridicola. «E dove la troviamo?»

Rocket e Beasty riflettono, poi Beasty trova la soluzione.

«Potremmo telefonare a...»

«Bomber!» grida Wizz al cellulare prima ancora che Beasty abbia finito la frase. «Come stai? Indovina? Io, te e Beasty e Gwennie e...»

«Bomber, non ci crederai mai!» strilla Rocket, strappando il telefono di mano all’amico. «Abbiamo una sorpresa per te! La bambina è qui! È proprio qui!»

Mi passa il telefono, e io lo prendo, esitante.

«Pronto?»

«Chi parla?» domanda una voce stanca. A quanto pare l’hanno appena svegliato.

«Mi chiamo Meg May», rispondo, tappandomi l’orecchio libero con una mano per escludere le voci alticce dei membri della band, che organizzano la nuova vita insieme. «Mia madre è Valerie May. Per un breve periodo, quando ero piccola, siamo vissute in Grey’s Inn Road. Mia madre era amica della sua ex moglie, Gwennie.»

Per un po’ sento solo silenzio all’altro capo della linea, poi la voce ribatte: «Caspita. Sì, me la ricordo. Perbacco, è stato molto tempo fa. Wow. Come stai?»

«Io... bene, grazie», balbetto, colta di sorpresa dal tono ragionevole e dall’accento colto. Improvvisamente mi rendo conto che dev’essere molto tardi, e che Bomber si è lasciato alle spalle da tempo lo stile di vita rock and roll. «Mi dispiace disturbarla, Bomber. Non è vero che torneremo tutti a vivere insieme...»

Lui ride. «Questo è poco ma sicuro. E, per favore, chiamami Timothy. La gente non vorrebbe mai un avvocato che si chiama Bomber. Dà un impressione sbagliata. Comunque, dovrei imparare a non rispondere al telefono il venerdì sera. Suppongo che siano ubriachi persi, eh?»

Guardo i tre uomini che si abbracciano e cantano qualcosa a proposito di essere uniti per sempre.

«Sono un po’ su di giri, sì.» Mi sposto in un angolo del locale per sentire meglio. «So che deve sembrarle strano, ma sto tentando di rintracciare Gwennie.»

«Okay», dice lui lentamente, come se stesse riflettendo. «Tua madre ha deciso di riallacciare i rapporti con lei?»

«Ehm, più o meno.»

«Caspita, sarà una sorpresa per Gwennie. Era affranta quando tua madre ha interrotto ogni contatto, anche se capiva le sue ragioni.»

Io rimango in silenzio, chiedendomi che cosa intenda.

«Anzi», continua, «sono sempre stato grato a tua madre per averlo fatto. Tuo padre era... be’, sono certo che non occorre che te lo dica io. Scusa, intendevo il tuo patrigno.»

«Il mio patrigno?»

«Sì, Robert.»

«Robert?»

Segue una lunga pausa, durante la quale ascoltiamo cantare i membri superstiti dei Chlorine. Mi rendo conto di aver trattenuto il respiro solo quando rimango senza fiato.

«Mia madre era sposata?» domando scioccata.

«Oh, caspita, mi dispiace», risponde Timothy, esitante. «Forse non avrei dovuto... io... immaginavo lo sapessi. Voglio dire, credevo che ricordassi.»

La mia mente è una tabula rasa. Non so che cosa dire. Credeva che ricordassi? Tutto a un tratto nulla sembra avere senso.

«Senti, forse dovrei semplicemente darti il numero di Gwennie.»

«No, la prego! Devo sapere. Mia madre non mi ha raccontato nulla della mia infanzia. Avevo un padre adottivo? Mia madre era sposata?»

«Oh, caspita. Mi dispiace, penso sia meglio che parli con Gwennie», si scusa Timothy. «Lei potrà riferirti tutto quello che vuoi sapere. Dopo tutto è stata lei a...»

«Si chiude, gente!» grida il barman, battendo un cucchiaio su un boccale di vetro. «È ora!»

«Mi scusi, non ho sentito», urlo tappandomi l’orecchio. «Può ripetere?»

«Che dopo tutto è stata lei a trovarti.»