«CHE cosa vuoi sapere?» mi domanda Gwennie.

Come un bambino in un negozio di dolciumi, vorrei abbuffarmi, afferrare tutti i fatti, ogni frammento di informazione disponibile. Sono affamata di verità.

«Tutto», rispondo avida. «Mi dica tutto quello che sa.»

Non c’è più spazio per le esitazioni ora, né per rimandare a un altro giorno o chiedersi se sia la cosa giusta da fare. So che cosa significa vedersi offrire la verità come se fosse un dolcetto delizioso, solo per farsela portare via all’ultimo minuto. E non intendo permettere che accada di nuovo.

Siamo sedute al tavolo della cucina, l’una di fronte all’altra, con una tazza di tè caldo davanti, mentre la pioggia picchietta sui vetri della finestra. Il cielo è tetro e grigio, ma in cucina c’è un bel calduccio. La giacca a vento di Gwennie è appesa dietro la porta ad asciugare e le sue scarpe sono sistemate sullo zerbino. Sento che Gwennie potrebbe fuggire da un momento all’altro. Esita, ancora un po’ indecisa, e giocherella nervosa con le orecchie di Byron che russa sommessamente sulle sue ginocchia, esausto dopo la zuffa con Digger. Cerco di rimanere calma e immobile, aspettando con pazienza che parli, sapendo che un solo passo falso potrebbe spaventarla. Non voglio farle pressioni. Ma se crede che non sprangherei la porta o non le taglierei le gomme della macchina per impedirle di andare via, si sbaglia di grosso.

Dopo aver sistemato mia madre sul divano, Ewan se ne è andato, silenzioso e sconcertato, e io sono rimasta seduta accanto a lei, tenendole la mano, guardando i suoi occhi guizzare da una parte all’altra sotto le palpebre chiuse, mentre Gwennie ci osservava dalla soglia, mangiandosi le unghie e chiedendo se poteva essere utile. Solo quando gli incubi della mamma si sono calmati, cedendo il passo a sogni che la fanno sorridere e mormorare qualcosa a proposito dei fagioli di Lima, ho pensato di potermi allontanare.

«Se davvero vuole aiutarmi», ho replicato a Gwennie senza mezzi termini, inasprita dallo choc e dalla stanchezza, «mi racconti la verità sulla mia vita.»

Lei ha guardato mia madre distesa immobile sul divano, il corpo pallido e sottile infilato sotto la coperta, e forse ha finalmente capito di essere la mia unica speranza.

«Va bene», ha acconsentito. «Va bene, ti dirò tutto.»

«Tua madre e io siamo state amiche del cuore per molti anni», comincia Gwennie, le mani strette intorno alla tazza di tè. «Fin da quando avevamo otto o nove anni, suppongo, quando iniziai a frequentare la sua stessa scuola. Abitavo qui vicino e andavamo sempre in giro insieme, combinando ogni sorta di marachelle. A entrambe piaceva stare all’aperto, e spesso prendevamo delle bottiglie e partivamo a caccia di fate a Coley Woods, anche se in teoria non avevamo il permesso di entrare nel parco. Eravamo dotate di un’immaginazione sfrenata. Credo fosse per quello che filavamo d’amore e d’accordo. Un buco in un albero poteva trasformarsi all’istante nell’ingresso del mondo delle fate, un raggio di sole tra le foglie degli alberi diventava due fate che danzavano. Tornavamo a casa sempre sporchissime, e i nostri genitori si arrabbiavano, ma a noi non importava. I nostri giochi erano così divertenti. Un attimo eravamo indiani che davano la caccia ai cowboy, e subito dopo eravamo principesse che aspettavano di essere salvate da una torre. Vivevamo in un mondo magico e bellissimo fatto di fantasia, come dovrebbe essere per tutte le bambine. Senza preoccupazioni. Ridevamo così tanto che ci faceva male la pancia e le lacrime ci inondavano le guance. Ci sbellicavamo dalle risate come da adulti non si fa più. Erano tempi fantastici, senza preoccupazioni, felici. Gli anni migliori della mia vita in molti sensi.

«Crescendo le cose cambiarono, naturalmente. L’età dell’innocenza non dura a lungo. Durante l’adolescenza affrontammo anche noi le pressioni tipiche di quell’età: esami, discussioni con i genitori, compiti da fare. Uscivamo ancora e ci divertivamo, anche se in modo differente, immagino. Tua madre era una ragazza effervescente e vivace, allegra e socievole, estremamente carina con i lunghi capelli rossi e scintillanti occhioni azzurri. Le piaceva andare a ballare il sabato sera al Forum, e tutti i ragazzi la corteggiavano. Ma a lei non interessavano. Era una vera romantica, aspettava l’uomo giusto, e finché non fosse arrivato e non le avesse fatto perdere la testa non avrebbe sprecato energie con nessuno dei ragazzi della zona. Inoltre aveva così tante cose da fare che semplicemente non le restava tempo per pensarci. Doveva ottenere buoni risultati negli esami, progettava di frequentare l’università a studiare letteratura, prima di trascorrere un paio d’anni a viaggiare in remote zone del mondo; dopodiché sarebbe tornata, si sarebbe innamorata, avrebbe sposato l’uomo dei suoi sogni e avrebbero avuto dei figli.

«‘Ci sono così tante cose da fare, Gwennie’, mi ripeteva sempre, ‘così tanti posti da vedere, così tante persone da conoscere.’

«Era piena di vita, sprizzava energia ed entusiasmo. Il mondo era lì fuori che l’aspettava, e lei mordeva il freno, ansiosa di abbracciare tutto ciò che poteva offrirle.»

Cerco di immaginare mia madre che non vede l’ora di girare il mondo, incontrare gente, vedere cose e posti nuovi. Mi riesce difficile, visto che il viaggio più lungo che ha intrapreso mi risulta sia stato da Londra a Cambridge, e che l’abbia fatto solo una volta, quando si è trasferita.

«A mia madre non piacciono le persone», replico a Gwennie, incapace di conciliare il quadro che lei mi sta tratteggiando con la realtà che conosco.

Lei annuisce lentamente, come se le mie parole avessero un senso. «Si può imparare a non apprezzarle», mi risponde, giocherellando con l’orecchio bianco di Byron. Noto un rivoletto di sangue secco sull’interno roseo, dove Digger deve averlo graffiato durante la zuffa.

«A quindici anni si innamorò per la prima volta», continua Gwennie. «E fu come se camminasse a una spanna da terra. Credo che lui fosse americano, nell’esercito, se ben ricordo. Lo conobbe grazie a un programma di corrispondenza organizzato dal nostro gruppo giovanile. A lei piaceva scrivere e sognava di viaggiare, e quindi scambiare lettere con qualcuno che era nelle forze armate la affascinava moltissimo. Voleva sapere tutto dei posti in cui era stato di stanza, e nel giro di un paio di mesi si innamorò alla follia. Era convinta di aver trovato l’amore della sua vita. Lui le scriveva lunghe lettere entusiaste, piene di adorazione, assicurandole che l’avrebbe sposata non appena avesse compiuto diciotto anni. Lei non vedeva l’ora di parlarmi di lui, di raccontarmi ogni minimo particolare di ciò che aveva detto o fatto, ma io non avevo voglia di ascoltarla. Ero gelosa, capisci. Il mio amico di penna era una ragazza tedesca che si chiamava Nadine, con i baffetti e un’ossessione per i formicai.

«Ce l’avevo con tua madre perché si era innamorata. Anche io avrei voluto innamorarmi; lasciarmi toccare il seno da Wally Waters nell’ultima fila del cinema mi sembrava futile e inutile in confronto all’amore romantico che aveva trovato lei. Così non volevo ascoltare quanto si dicevano, né i loro progetti per il futuro. Cambiavo argomento, o accendevo il registratore, o la invitavo a smetterla di parlare di lui tutto il tempo, qualunque cosa pur di non dover ascoltare quanto era fantastico. Per questo temo di non sapere molto sul suo conto. Ma ricordo come si chiamava, se vuoi saperlo.»

Mi chiedo se Gwennie abbia intenzione di raccontarmi per filo e per segno tutte le relazioni di mia madre. «Solo se è rilevante», rispondo perciò, ansiosa di arrivare al momento cruciale.

«Be’, suppongo che lo sia», mormora lei. «Dopo tutto era tuo padre.»

La guardo, scioccata, e per un attimo non le credo. Deve essersi confusa, non c’è altra spiegazione. Mio padre era un pasticciere francese, non un amico di penna americano dell’esercito. Poi però rammento che sono io quella confusa, come al solito, e mi chiedo come mai continui a dimenticarlo. Così annuisco, trattenendo il fiato.

«Si chiamava Don», asserisce Gwennie.

«Don», sussurro, assaporando la sensazione di quel nome sulla lingua. «Don.»

Non so che cosa mi aspettassi di provare quando questo momento fosse infine giunto, ma di certo non era il nulla. Scavo nella mia anima, cercando una piccola scintilla di appagamento, la sensazione di essere completa, di avere finalmente un’identità. Ma non c’è niente. Quel nome non significa nulla.

Gwennie mi fissa con attenzione, quasi si aspettasse un’improvvisa reazione di sorpresa. Ma io mi limito a ricambiare il suo sguardo con occhi vacui.

«Vada avanti», le dico come se niente fosse accaduto, come se il mio mondo non fosse cambiato per sempre.

«Un giorno», continua lei, «tua madre non volle più andare a ballare. Non voleva più ascoltare le sue canzoni preferite, né pedalare lungo il fiume o fare shopping, niente di niente. Era come se qualcuno l’avesse punta con uno spillo e tutta l’aria fosse uscita da lei. Non faceva che dormire, il che esasperava i suoi genitori, e quando era sveglia tutto ciò che voleva fare era seppellire la testa nei libri, e nemmeno in quelli che si supponeva dovessimo leggere per la scuola. Mancavano poche settimane agli esami, ma lei divorava romanzi rosa e fantasy come se stessero per andare fuori moda. Era come se si fosse ritirata in se stessa, persa nel suo piccolo mondo.

«‘Gwennie’, mi propose un giorno, con insolito entusiasmo, ‘perché non andiamo a caccia di fate? Sai, come facevamo una volta.’

«Io la guardai come se fosse impazzita. ‘Non siamo più bambine, Valerie’, le risposi.

«‘E allora?’ ribatté lei. ‘Perché non possiamo continuare a farlo? Era così divertente, no? Andava tutto bene, allora.’

«‘Val’, la rimproverai, ‘devo ripassare oggi. E ho un lavoro per sabato. Non ho più tempo per andare in giro a giocare.

«I suoi occhi si riempirono di lacrime, come quelli di un bambino messo in castigo. ‘No’, mormorò. ‘Certo che no.’

«Ma quel weekend la colsi sul fatto. Ero nel bosco con Wally Waters quando ci imbattemmo in Val che vagava tra i cespugli con una bottiglia del latte in mano.

«‘Perché diavolo strisci tra i cespugli, razza di sciroccata?’ le domandò Wally, la sigaretta che gli pendeva dalle labbra. ‘Ci stai spiando?’

«Tua madre mi guardò, il viso arrossato e l’aria colpevole, e io la fissai, chiedendomi perché mai avesse ricominciato ad andare a caccia di fate a sedici anni.

«‘Credo che volesse spiarci, Gwennie’, mi disse Wally. ‘Forse è gelosa. O forse le piaccio. Ti piaccio, Valerie?’ le domandò, stuzzicandola e allungando una mano per toccarle il mento.

«Tua madre, che aveva sempre pensato che Wally fosse un adorabile idiota, diventò di colpo bianca come un lenzuolo e scappò via a gambe levate.

«‘La tua migliore amica è matta come un cavallo’, commentò lui.

«Ebbene, quella fu la fine della storia tra me e Wally. Non occorre aggiungere che tua madre non se la cavò molto bene agli esami. Seduta nell’aula, la guardavo, giorno dopo giorno, fissare la parete con aria vacua, senza quasi scrivere nulla. Nessuno sapeva che cosa le fosse successo, e parlare con lei era come rivolgersi a un muro di mattoni. Continuava a insistere che stava benissimo, ma era come se le luci fossero spente e in casa non ci fosse nessuno. Al tempo stesso era evidente che la sua mente stava volando via, persa nei propri pensieri, ma chi poteva dire per quale motivo? Nessuno immaginò nemmeno per un secondo che fosse incinta, perché lo nascose alla perfezione. Credo che fosse riuscita a nasconderlo persino a se stessa.»

«Ma allora, quando si era incontrata con mio... con Don?» chiedo, concludendo che dobbiamo aver saltato un bel pezzo di storia. Non riesco a usare la parola «padre». Non ha alcun significato per me, non posso associarla in nessun modo a quello sconosciuto. È ridicolo, ma mi rendo conto che l’unica persona che posso chiamare padre senza imbarazzo è un immaginario pasticciere di Parigi.

«Non lo so», risponde Gwennie. «Non ho mai capito esattamente quando si incontrarono. Solo in seguito... be’, è complicato. Posso?...»

«Scusi», dico, rendendomi conto di aver interrotto il corso dei suoi pensieri. «La prego, continui.»

Lei beve un sorso di tè e si schiarisce la voce. «Ti trovai nella rimessa del giardino, che è un posto strano per deporre un neonato. Capii cosa era successo nel momento stesso in cui tua madre aprì la porta d’ingresso. Aveva sangue sui vestiti ed era sotto choc. Immagino che potevano esserci altre spiegazioni, ma non mi vennero in mente. Semplicemente sapevo che aveva partorito. Non so come, lo sapevo e basta.

«Le chiesi dov’era il bambino, ma lei non riusciva a rispondermi. Fissava il pavimento e si stringeva le braccia intorno al corpo. Così iniziai a cercarti in tutta la casa, e poi mi venne in mente che se non eri lì dovevi essere nel giardino. E lì ti trovai. Avvolta in una copertina, adagiata tra un sacco di compost e una canna dell’acqua.

«‘Devo preparare la cena’, fu l’unica frase che pronunciò tua madre quando ti portai in casa. ‘I miei torneranno presto, e devo mettere su la cena.’

«Era impazzita, ovviamente. Temporaneamente incapace di intendere. Era riuscita ad autoconvincersi che nulla di quanto era accaduto fosse reale – concepimento, gravidanza, parto – aveva escluso tutto dalla mente e il suo cervello non era in grado di dare un senso al tuo arrivo. E io non le fui di grande aiuto. Non sapevo cosa fare. Ero spaventata e non avevo mai tenuto in braccio un neonato prima, e ricordo che mi domandai quanto tempo saresti vissuta senza cibo.

«‘Devi darle da mangiare’, dissi porgendoti a tua madre.

«‘Okay, okay’, rispose lei, arrossendo, e aprì lo sportello del forno. ‘Mettila dentro, allora.’

«‘No!’ le gridai. ‘Devi nutrirla, non cucinarla!’

«Ma tua madre mi fissò con aria vacua e iniziò a tirare fuori dagli armadietti pentole e padelle. Poi arrivarono i tuoi nonni, che erano a dir poco sbalorditi.

«‘Che cos’è quello?’ domandò tuo nonno, indicandoti.

«Tua madre non rispose, così lo feci io. ‘Un neonato.’

«‘Lo vedo da solo che è un dannato neonato!’ esplose lui. ‘Cosa ci fa qui?’

«Mentre lo chiedeva, vide il sangue sui vestiti di tua madre e fece due più due. Tua nonna, che era un passo avanti a lui, era già scoppiata a piangere e si torceva le mani implorando il perdono di Dio.»

«Dunque non erano presenti quando nacqui?» domando, trovando singolarmente difficile abbandonare la «verità» come l’ho sempre conosciuta. «Non la aiutarono durante il travaglio?»

«Caspita, no! Non credo che ce l’avrebbero fatta. Entrambi erano sotto choc. Non sono in grado di riferirti esattamente che cosa successe dopo, perché accadde tutto troppo in fretta. Ricordo che tua nonna ebbe una crisi isterica, e che tua madre le chiese con la massima calma che problema avesse, il che indusse tua nonna a gridare ancora più forte, convinta che sua figlia fosse impazzita. E in effetti era proprio così. Poi alla porta sul retro si presentò un operaio dell’azienda del gas chiedendo di controllare alcune tubature, e tuo padre, che era già su tutte le furie, lo prese per il bavero, così che il poveretto dovette difendersi afferrando una padella. Un attimo dopo mi resi conto che tuo nonno ti aveva strappata dalle braccia di tua madre.

«‘Non puoi tenerlo’, le disse. ‘Dovrai darlo in adozione.’

«Fu in quel momento che tua madre tornò alla vita.

«‘No!’ gridò, lanciandosi su tuo nonno e riprendendoti. Ti teneva così stretta che pensai potesse ucciderti. Non so se a quel punto si rendesse conto di cosa stava facendo o di chi tu fossi. Credo che avresti potuto essere un pollo congelato, per quel che ne sapeva, ma una cosa le era assolutamente chiara, e cioè che appartenevi a lei e che non avrebbe permesso a nessuno di portarti via.

«‘Bene’, disse tuo nonno, ‘tienilo pure. Ma dovrai cavartela da sola. Puoi rimanere qui per un paio di mesi, dopodiché dovrai andartene. Hai rovinato il buon nome della famiglia.’

«Non le rivolse mai più la parola. Anche durante i mesi in cui sei vissuta sotto il suo tetto, lui fece finta di non vedervi. E tua nonna non si comportò meglio, anche se credo che il suo principale timore fosse passare dei guai con il marito. Era un uomo molto severo. Religiosissimo, si preoccupava molto di quello che dicevano gli altri.»

«Allora è vero», la interrompo, disgustata dal comportamento dei miei nonni, «che ci buttarono fuori di casa. Credevo che vivessimo con loro. Pensavo...»

«Caspita, no!» esclama Gwennie. «Non alzarono un dito per aiutare tua madre, né dandole sostegno emotivo né pratico o finanziario. Dovette lottare con tutte le forze, come puoi immaginare. Impiegò qualche tempo ad accettare che tu fossi sua figlia – francamente, credo che non ricordasse di averti partorita – ma una volta compreso che eri sua ti adorò dalla testolina ai piedini. Continuai a chiederle chi era il padre, perché lei non mi aveva mai rivelato di aver incontrato il suo amico di penna – Don, intendo – ma ogni volta che affrontavo l’argomento lei sembrava confusa e iniziava a farfugliare sciocchezze. Era come se pensasse che fossi stata concepita per miracolo.»

Gwennie beve un sorso di tè, mentre io la guardo impaziente, chiedendomi come cavolo fa a fermarsi per sorseggiare il tè quando io sono appena venuta alla luce.

«Per tutto quanto riguardava gli aspetti pratici della maternità era un disastro totale», continua Gwennie. «Senza nessuno che la aiutasse, non aveva idea di cosa doveva fare con te. Cercai di darle una mano, ma ero come un cieco che guida un altro cieco. Eravamo due bambine che giocavano con una bambola dotata di un sacco di funzioni ma senza il libretto delle istruzioni. E il fatto che tua madre ogni tanto si estraniasse, ritirandosi in un remoto angolo della mente, perdendo la concentrazione, non giovava di certo. Mi capitava di passare da voi e di trovarti nei posti più strani. Ti metteva giù e poi dimenticava dove. Una volta ti trovai nell’asciugatrice, un’altra su un davanzale. Ma qualunque cosa stesse accadendo nella testa di tua madre, non perse mai né lo spirito né la determinazione. Era chiaro che avrebbe costruito una vita per entrambe a qualunque costo, anche se avesse dovuto compiere ogni singolo passo da sola. Ma presto fu chiaro che non sarebbe rimasta sola.»

«Non capisco», la interrompo, inquieta. «Come fa a sapere che era mio padre? Come sa che si erano visti se...»

«Ci sto arrivando», mi assicura lei, sollevando una mano per zittirmi. «Dopo gli esami, decisi che dovevo scappare di casa. Anche io avevo un pessimo rapporto con i miei genitori, e una sera, dopo l’ennesimo litigio, stabilii che non ne potevo più. I due mesi che tuo nonno aveva concesso a Val stavano per scadere e nel giro di poco non avreste più avuto un tetto sulla testa, così pensammo di andarcene insieme. Ci venne in mente un solo posto.

«C’era una band, i Chlorine, che ogni tanto suonava al Forum, e in un paio di occasioni tua madre e io avevamo chiacchierato con i ragazzi del gruppo. Probabilmente ai loro occhi eravamo soltanto due sciocche scolarette, ma noi credevamo fosse molto fico conoscere dei musicisti che suonavano rock dal vivo. Comunque, loro stavano per trasferirsi a Londra in cerca di fortuna e successo, e ci diedero il loro indirizzo, aggiungendo che se mai fossimo passate da Londra e avessimo avuto bisogno di un posto in cui vivere avremmo dovuto chiamarli. Così partimmo. Solo che quando Wizz – il cantante, quello che hai conosciuto anche tu – ci aveva fatto quella proposta, ovviamente non si aspettava che l’avremmo preso sul serio e che ci saremmo presentate con un neonato al seguito. Tuttavia tenne fede alla parola data e ci permise di rimanere, ma fu un incubo. Tutti si lamentavano perché piangevi, la casa era sporchissima, i ragazzi non facevano altro che provare e fare rumore. Si ubriacavano, o peggio, quasi tutte le sere.»

«E fu a quell’epoca che lei si mise con Bomber... voglio dire, Timothy?»

«Esatto. Nel giro di pochi giorni finimmo insieme, il che rese la situazione ancora più imbarazzante, perché anche se cercavo di aiutare Val a badare a te, quello che desideravo realmente era trascorrere tutto il tempo con Timothy. Iniziammo a litigare, Val e io, finché tua madre decise che non avrebbe funzionato e che doveva andarsene.

«Era così determinata che nel giro di un mese si trovò un lavoro come cameriera e si trasferì in un piccolo monolocale. Era un posto squallido, buio e freddo, ma non poteva permettersi niente di meglio. Il padrone di casa continuava a bussare alla porta pretendendo l’affitto, gli inquilini del piano di sopra facevano rumore tutta la notte, la babysitter spesso non si presentava e se non lavorava Val non veniva pagata... era una situazione disperata. Tu ti ammalavi spessissimo. Eri nata prematura e non crescevi molto in fretta. Tua madre iniziava a sembrare malata a sua volta. Era un casino pazzesco, ma lei non si lasciò scoraggiare, insisteva che stava bene e che voleva guadagnarsi da vivere da sola e che ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto di nessuno. Finché una notte crollò. Fu allora che piangendo mi raccontò cos’era successo con Don.»

Pendo letteralmente dalle sue labbra. Mi sporgo sul tavolo verso di lei, e ci fissiamo a lungo, i suoi occhi sgranati e tutto a un tratto ansiosi, i miei che brillano di impazienza.

«E poi?» esclamo.

Gwennie deglutisce. «Lui era passato da Portsmouth – il che mi fa dedurre che fosse nella marina, non nell’esercito – e aveva chiesto a tua madre di incontrarlo. Lei non ne aveva parlato con nessuno perché sapeva che i suoi genitori non le avrebbero mai dato il permesso, e io in quel periodo ero in vacanza nel Devon con la mia famiglia. Se fossi stata a Cambridge probabilmente me lo avrebbe raccontato, e forse mi avrebbe chiesto di accompagnarla, e magari le cose sarebbero andate in modo diverso...»

Gwennie fissa un punto in lontananza, assorta.

«Che cosa sarebbe andato in modo diverso?» la incito.

Lei mi guarda con espressione addolorata. «Lui non era come Val aveva immaginato, Meg. Non era affatto il gentiluomo che sembrava dalle lettere. E tua madre era giovane e ingenua, molto, molto ingenua. Proprio non aveva idea...»

Sento il panico stringermi il petto. «Che cosa successe?»

Gwennie sembra disperata. «Andarono da qualche parte, non so dove, per stare un po’ da soli. Tua madre era innocente, tutto quello che desiderava era chiacchierare, e forse ricevere il primo bacio, un momento romantico da ricordare per sempre, il primo abbraccio con l’uomo dei suoi sogni. Ma ciò che accadde tra loro... lei non lo voleva. Non lo avrebbe mai voluto. Glielo disse, ma lui non le diede retta, o non gliene importava...» Gwennie solleva il capo e sospira. «Lei si fidava, Meg. Lui disse che l’amava, che voleva sposarla, e lei semplicemente gli credette.» Ha la voce colma di rimpianto. «Era una sciocchina, una vera sciocchina.»

Ho voglia di vomitare. «Lei mente», la accuso, rabbiosa.

Gwennie mi sfiora il braccio con gentilezza.

«Sta mentendo, vero?» ripeto, ritraendo bruscamente il braccio.

Lei si limita a guardarmi con tristezza.

È evidente che le sue non sono menzogne. Lo so. Ma vorrei tanto che non fosse così. Mai in vita mia ho desiderato così tanto che qualcuno mi dicesse delle bugie.

«Parlò di quello che era successo una sola volta, e il giorno dopo fu come se non fosse mai accaduto. Tornò a comportarsi come se tutto filasse a gonfie vele, anche se era chiaro che stava affondando. Le suggerii di tornare a casa, di chiedere ai tuoi nonni di riprenderla con loro, di spiegare che non era colpa sua se era rimasta incinta, ma lei se ne vergognava troppo ed era troppo orgogliosa per tornare sui propri passi. Loro sapevano dov’era perché i miei genitori li informarono. Le mandarono persino dei soldi e una lettera in cui esprimevano la loro preoccupazione. Ma lei era stata ferita troppo profondamente dal loro rifiuto e non volle riprendere i contatti. Se erano convinti che avesse rovinato loro la reputazione, se avevano voluto che se ne andasse, era quello che avrebbero avuto, disse. Si sarebbe costruita una vita e gliel’avrebbe fatta vedere. Ai ragazzi a casa che l’avevano insultata perché aveva un bambino, ai vicini che avevano spettegolato scoprendo che cosa era successo... gliel’avrebbe fatta vedere a tutti quanti. Lottò per un anno, ma non poteva farcela da sola. A quel punto avrebbe sposato chiunque glielo avesse proposto. Sfortunatamente, fu Robert Scott.»

«Il mio patrigno», sussurro.

«Sì. Il tuo patrigno. Lo incontrò nel bar dove lavorava. Era un macellaio, venuto da Brighton per fare visita a un amico londinese. Si misero a parlare della qualità delle salsicce, e sei mesi dopo erano sposati. Avrei dovuto impedirglielo. Sapevo che c’era qualcosa di sbagliato in quell’uomo, ma tua madre non lo vedeva. La disperazione l’aveva accecata. Lui le offrì una casa per entrambe, e all’inizio era premuroso e gentile. Era un tipo introverso, che balbettava e aveva la pelle segnata dal vaiolo, e credo che tua madre avesse confuso la sua timidezza per gentilezza. Non penso che fosse attratta da lui, ma gli era grata, e questo bastava.

«Si sposarono nel Comune di Brighton, con una cerimonia poverissima, giusto loro due e io come testimone. Dopodiché si trasferirono nella casa di Robert, in centro, un appartamentino con la terrazza. Tua madre si impegnò per farla sembrare una vera casa e per organizzare una specie di orto, ma le cose si misero male fin dall’inizio. Per quanto ne so, i maltrattamenti iniziarono a poche settimane dal matrimonio. Robert era soggetto a terribili accessi di collera durante i quali picchiava tua madre in testa, sbattendola contro mobili e pareti, e una volta le fratturò un polso. Lei non ne parlava mai, naturalmente, ma non impiegai molto a collegare le informazioni che i vicini si lasciavano sfuggire. A quel punto Timothy aveva lasciato la band e ci eravamo trasferiti a Oxford, dove lui studiava per laurearsi in giurisprudenza. Non avevamo un soldo, e andavo a trovare tua madre solo ogni tanto, quando potevo permettermi il biglietto fino a Brighton. Ogni volta che la vedevo avevo l’impressione che sprofondasse sempre di più in uno stato di negazione, ma lei continuava a sostenere che andava tutto bene, malgrado fosse evidente il contrario. Iniziò a cucinare per tenersi occupata, e lo faceva senza sosta. Credo che fosse il suo modo per venire a patti con la realtà.»

«Perché non lo lasciò?» domando, incapace di comprendere come potesse vivere in quella situazione. «Perché gli permetteva di trattarla così?»

«Implorai tua madre di lasciarlo, ma non lo fece. Alla fine diedi il mio numero di telefono a un vicino pregandolo di chiamarmi se fosse successo qualcosa. Temevo per la sua vita. Il vicino mi raccontò di aver sentito Robert minacciarla, dirle che se lo avesse lasciato l’avrebbe cercata fino in capo al mondo e vi avrebbe uccise entrambe. Tua madre doveva essere terrorizzata, anche se non ammise mai che Robert lo avesse detto. Negava tutto. Sosteneva di essere caduta dalle scale o di aver sbattuto contro una porta. Penso che riuscisse persino a convincersene. Era assurdo...»

«Ma la polizia...»

«Non potevano fare nulla a meno che lei non sporgesse denuncia.»

Appoggio la testa sulle mani. È molto peggio di quanto mi aspettassi. Nemmeno in un milione di anni sarei stata preparata a questo.

«Anche se sembrava stordita», continua Gwennie, «tua madre era sempre un passo avanti a Robert per quanto riguardava te. Cercava di tenerti fuori dalla sua portata, e se lui si arrabbiava perché piangevi o avevi fatto cadere qualcosa si assicurava che sfogasse la propria rabbia su di lei, non su di te. In genere, lui ti ignorava. Per lui non eri che una scocciatura. Il tragico era che tu desideravi sopra ogni altra cosa che ti volesse bene. Cercavi disperatamente di attirare la sua attenzione, ma non ci riuscivi mai, il che probabilmente fu un bene. Lo chiamavi papà.»

Mi massaggio lo stomaco, nauseata da quel pensiero. Papà. Ho sempre desiderato chiamare così qualcuno. Solo non mi capacito di averlo detto a un simile mostro.

«Alla fine tua madre trovò il coraggio di scappare», prosegue Gwennie. «Fu il giorno del tuo quinto compleanno, quando lui cercò di strangolarti.»

La guardo inespressiva, senza provare nulla. È come se le sue parole mi scorressero addosso come onde, senza nemmeno increspare la superficie. Niente può più turbarmi. Niente può essere peggio di ciò che ho già udito.

«Avevi versato del colore sopra qualcosa, e lui era andato su tutte le furie. Ti prese per il collo e sbatté la tua testa contro un tavolino. Tua madre cercò di allentare la presa delle sue mani, e visto che lui non ti mollava prese un coltello da un cassetto della cucina e gli saltò addosso. Lo avrebbe fatto fuori, ne sono certa, ma lui ti lasciò e le prese il coltello di mano. Non so che cosa sia successo poi, perché quando tua madre mi telefonò diceva frasi senza senso, ma evidentemente era stato abbastanza per indurla a reagire.»

Fisso il tavolo, cercando di immaginare la scena; mia madre che aggredisce qualcuno con un coltello, decisa ad assassinarlo. Mia madre, che non ammazzerebbe neanche una mosca e che chiede scusa alle verdure prima di affettarle, che ringrazia ogni pezzo di carne per la vita che ha sacrificato e che ha iniziato a parlare agli alberi per aiutarli a crescere... lei lo avrebbe ucciso. Gli avrebbe conficcato un coltello nel cuore.

«Si lasciò tutto alle spalle tranne i vestiti che avevate addosso. Robert mi chiamò per conoscere dove eravate andate, e quando gli sbattei giù il telefono si precipitò a Oxford e si mise a picchiare i pugni sulla porta, in preda a una collera terribile. Per un momento capii che cosa doveva aver passato tua madre. Era terrificante. Ancora oggi ringrazio il cielo che Timothy fosse a casa quel giorno, altrimenti chissà come sarebbe andata a finire. Sta di fatto che non avrei potuto rivelare nulla a Robert nemmeno se lo avessi voluto. Tua madre non mi aveva parlato dei suoi progetti. Aveva capito, credo, che se Robert avesse sospettato che sapevo qualcosa, non si sarebbe fermato davanti a niente pur di estorcermi delle informazioni. Sarebbe stato troppo rischioso. E aveva cercato di proteggermi.»

«E quella», domando, «fu l’ultima volta che la vide?»

«Sì. Fino a oggi. Aspettai e aspettai che mi facesse avere sue notizie, ma non accadde. Mi rivolsi persino ai suoi genitori, ma nemmeno loro sapevano niente. Era come se voi due foste svanite nel nulla, troncando ogni legame con chiunque avesse a che fare con il passato.»

Fisso la tazza di tè, che ormai è freddo, con la mente e il cuore vuoti. È come se mi avessero spillato via la vita.

«Ho fatto...» balbetta Gwennie, incerta. «Ho fatto bene a parlartene?»

Io rabbrividisco, anche se in cucina fa così caldo che la condensa appanna i vetri delle finestre. Non so come risponderle.

«Ha fatto quello che io le ho chiesto», affermo infine.

Tra noi cala un lungo, penoso silenzio. Sono sicura che dovrei porle molte altre domande, ma mi sento morta dentro. Mi fa male la testa e ho la nausea.

«Perché ha cambiato idea?» le domando. «Come mai è venuta?»

Gwennie sorride e alza le spalle. «Forse anch’io avevo bisogno di sapere la verità. Per tutti questi anni ho cercato di convincermi che avevate iniziato una nuova vita, che eravate sane e salve, felici. Mi piaceva fantasticare che tua madre si fosse innamorata, fosse diventata una cuoca e avesse viaggiato nei posti che sognava di visitare. Che tu fossi cresciuta sana e forte, andassi bene a scuola e vivessi in una famiglia felice. Ma non ne avevo la certezza. Immagino di aver avuto le mie lacune da colmare.»

Prende il cucchiaino e lo strofina tra le dita, quasi desiderasse vederne scaturire un genio capace di fare svanire questa orribile situazione schioccando le dita.

«E poi ho una figlia», aggiunge. «È più giovane di te, ha appena tredici anni. Suo padre e io non stiamo più insieme, ma lei sa da dove viene, chi è. Credo che sia un suo diritto. Non vorrei mai che non avesse questa consapevolezza.»

Seguo con un dito l’orlo della tazza, fissando la pellicola di latte freddo che si è condensata sulla superficie del tè.

«Andate d’accordo?» domando, senza una ragione particolare.

Lei ridacchia. «Al momento mi detesta. Ma spero che crescendo tutto si sistemerà.»

Io annuisco e mi sforzo di sorridere. «Lo farà», le assicuro.

Gwennie mi guarda con attenzione, scrutando i miei occhi tristi e stanchi. «Assomigli così tanto a tua madre», commenta, e io quasi scoppio a ridere per l’ironia di quelle parole.

Ho cercato per tutta la vita di non essere come mia madre. Mi sono aggrappata disperatamente ai principi della verità, della logica e della razionalità, mentre mia madre si lasciava andare alla deriva tra fantasie e negazioni. Ho pestato i piedi e pianto per la frustrazione davanti alle sue illusioni. E tuttavia mi chiedo quanto siamo diverse, alla fine.

Ricordo le parole del dottor Bloomberg quando sono andata a trovarlo nel suo studio, quel giorno. È incredibile quante cose si possano dimenticare.

Mi tocco la cicatrice sulla fronte, quella che adesso so di essermi procurata sbattendo contro un tavolino e non perché sono stata attaccata dalla chela di un granchio. Ho dimenticato tutto, non perché volessi, ma perché ne avevo bisogno. E tuttavia ho l’orribile consapevolezza che in fondo una parte di me ricordi ancora. Il Gigante Bianco che mi tormenta in sogno non è un gigante, bensì un uomo con il grembiule da macellaio. Le mani callose intorno al mio collo non sono frutto della mia immaginazione, bensì l’ombra del passato. Il suo nome, la sua faccia, la pelle butterata. Quella casa, la paura, la violenza... è tutto lì, in agguato nei recessi della mia mente. I ricordi che desideravo rievocare con tutta me stessa sono sempre stati lì, e adesso, come una belva addormentata che è stata pungolata con un bastone, hanno iniziato a risvegliarsi. Vaghe memorie oscillano ora ai margini della mia consapevolezza, e ho la sensazione che mi travolgeranno se permetterò a me stessa di ricordare.

La domanda è: lo voglio?