TROPPO presto arriva il giorno in cui mia madre non riesce più a sollevarsi dal letto.

«Tra un attimo mi alzo e preparo la colazione», mormora rannicchiandosi sotto le coperte. «Che cosa ti piacerebbe? Dei toast alla cannella? O delle mele al forno?»

«Mamma...» Sto per dirle che sono già le due del pomeriggio e che ha saltato la colazione e anche il pranzo, ma lei si è assopita di nuovo.

Più tardi, visto che non si è mossa, le offro minestra, crostini, frutta, gelato, tè, succo di frutta, ma lei non vuole niente.

«Tra un po’ vengo e mi preparo qualcosa da sola», afferma, ma non lo fa.

Quella notte non chiude occhio e si lamenta del male alle ossa, che imputa all’aver fatto molto esercizio fisico, ultimamente.

«Durante questa estate ho lavorato troppo», geme ad alta voce mentre si gira e si rigira nel letto cercando una posizione comoda. Il respiro è affaticato e sibilante, e si lamenta che le sembra di avere un elefante seduto sul petto.

«Ti ricordi quella volta che un elefante ha sfondato il recinto?» domanda, guardandomi con occhi appesantiti dalla fatica mentre le sistemo il cuscino. «Tentava di arrivare alle nostre focaccine con il gelato.»

«Ssst», sussurro, posando una mano sulle sue. «Non ti affaticare.»

Il dottor Bloomberg viene a visitarla. Le dà delle pillole rosa per il dolore e delle pillole blu per la nausea che le procurano quelle rosa.

«Vuole rimanere per cena, dottore?» lo invita mia madre, sorridendogli dal letto. È pallidissima e la pelle ha assunto una certa trasparenza. «Ho delle stroganoff squisite nel freezer.»

Cerca di alzarsi dal cuscino, pronta a recitare la parte della perfetta padrona di casa.

«Mi dispiace, Valerie, ma ho già mangiato», si scusa il dottore posandole una mano enorme sulla spalla e facendola affondare di nuovo nei cuscini. «Altrimenti non mi sarei perso le sue stroganoff per nessuna ragione al mondo.»

«Devi iniziare a prepararti, Meg», mi dice con gentilezza il dottor Bloomberg nell’ingresso.

So cosa vuole dire, ma mi sembra surreale, come se questa fosse una commedia e noi degli attori. Da un momento all’altro mi aspetto che cali il sipario, e che quando si solleverà di nuovo mia madre correrà giù per le scale e tutti ci prenderemo per mano inchinandoci al pubblico che applaude.

«Quando la situazione peggiorerà», continua il medico chinando il capo e sbirciandomi da sopra gli occhiali, «avrà diverse opzioni. Una è l’hospice, anche se a questo stadio della malattia...»

«Lei rimane qui», lo interrompo.

Mia madre ha sempre odiato gli ospedali, e non mi è mai passato per l’anticamera del cervello che potesse morire altrove che a casa, o che non sarei stata io a prendermi cura di lei.

«Potrebbe essere dura», continua il dottor Bloomberg. «Via via che peggiora...»

«Lei rimane qui», ripeto con forza.

Lui corruga le folte sopracciglia candide così tanto che si congiungono in mezzo alla fronte. «Meg», dice lentamente e scandendo bene le parole, «se le cose si mettono male...»

Sollevo una mano per fermarlo. Okay, okay, ho capito. Solo non dirlo. Non dire che soffrirà. Non dire che sarà insopportabile.

«Chiamerò immediatamente, se avrò bisogno di qualcuno», gli assicuro per impedirgli di andare avanti. «Lo prometto.»

«Com’è il tempo?»

Mia madre me lo chiede ogni volta che si sveglia.

«Piove», le rispondo.

«Non sento il rumore della pioggia», replica lei, girandosi e cercando di guardare fuori dalla finestra.

«Perché è una pioggerellina molto lieve», mento.

In realtà non ha mai piovuto oggi, ma a mia madre è sempre piaciuta così tanto la vita all’aria aperta che sono convinta la farebbe soffrire sapere che il sole sta tramontando e lei è confinata a letto.

«Mi è sempre piaciuta la pioggia», mormora, mandando a monte i miei piani, «è così fresca sulla pelle.»

«Posso spruzzarti con la canna dell’acqua se vuoi», suggerisco.

Lei scoppia a ridere, una risata sibilante, penosa, e io le faccio eco, divertita alla sola idea.

Ma poi inizia a tossire, prendendo grandi boccate d’aria, e nel giro di un secondo mi ritrovo a sorreggerla mentre lei annaspa cercando di prendere fiato, il petto che sferraglia come un flipper, il corpo che trema quando si curva in avanti e io le massaggio la schiena.

«Va tutto bene», mormoro. «Va tutto bene.»

Ewan viene a farle visita e le porta un mazzo di fiori tutti aggrovigliati dai nomi strani, tipo erba dei somari o scrofularia, che mia madre trova molto divertenti.

«Sono bellissimi.» Sorride e i suoi occhi si illuminano per la prima volta dopo un’eternità. «Mi manca il mio giardino. Hai raccolto gli ultimi pomodori?»

«Sì, e li ho appesi alla finestra della cucina perché maturino», risponde lui.

«E bisogna portare dentro anche il basilico, giusto?»

«Tra qualche settimana, direi.»

«Occorre seminare le cipolle per l’anno venturo.»

«Mi dia un po’ di tempo, capo!» ride lui. «E comunque chi è il giardiniere qui, lei o io?»

«Tu, ma comando ancora io. Domani scenderò a controllare che tu abbia fatto tutto come si deve», lo prende in giro la mamma.

Ewan sorride ma non commenta, anche se gli è bastato guardarla per sapere che non andrà da nessuna parte. Anche solo raggiungere il bagno le costa una fatica sovrumana.

«Com’è il tempo stasera?» gli domanda mia madre.

«Non male. Abbastanza caldo», risponde lui.

Lei annuisce, l’espressione triste. Mi si stringe il cuore a vederla costretta qui dentro.

«No, così non va», sbotta Ewan alzandosi in piedi e dandosi una manata sulle cosce. «Meg, aiutami e spostare quel comò.»

Dieci minuti più tardi, dopo un bel po’ di spostamenti e Ewan che continua a farmi pressione perché ci metta un po’ di forza, i mobili sono stati sistemati in maniera da poter girare il letto della mamma di centottanta gradi, così ora può vedere fuori dalla finestra, che Ewan ha spalancato malgrado i miei timori che possa farle male. Non si riesce più a prendere niente, è impossibile aprire le ante dell’armadio, il comò è stato abbandonato al centro della stanza e la cassapanca è stata trasferita in corridoio, ma mia madre è felice. Se ne sta sdraiata con la testa appoggiata a un paio di cuscini, e le brillano gli occhi mentre guarda il cielo.

«Oh, questo sì che è un tramonto», sospira.

Sono seduta accanto al letto, mentre Ewan è in piedi dalla parte opposta con Digger al proprio fianco, e tutti e quattro ammiriamo il bagliore rosa e arancio che sembra aver acceso il mondo.

«Non dimenticare mai quanto può essere bella la vita, tesoro», mi dice mia madre prendendomi una mano.

Io stringo con delicatezza le sue dita ossute e le rivolgo il mio sorriso più coraggioso. «Certo», le prometto.

Quella sera Digger si rifiuta di andarsene e si siede accanto al letto di mia madre, inclina la testa di lato e fissa perplesso Ewan che gli sussurra dalla soglia: «Andiamo, Digger. Forza, vieni!»

La mamma si è addormentata, una mano è scivolata fuori dalle coperte. Digger le annusa le dita e le lecca delicatamente, emettendo un sommesso guaito prima di sistemarsi sul tappeto. Si è fatto capire alla perfezione: resterà qui.

Rimane per tutta la settimana successiva, allontanandosi riluttante dal capezzale di mia madre solo quando insisto per portarlo a fare una passeggiata legato a un pezzo di corda. Per il resto del tempo se ne sta sdraiato sul letto e le permette di strigliarlo con una vecchia spazzola. Dopo tre giorni non sembra neanche più lo stesso cane. Il suo pelo sporco e arruffato ora è liscio e lucente, e dopo che la polvere è stata spazzolata via sembra di almeno un paio di gradazioni più chiaro. Mia madre afferma che il prossimo anno lo iscriverà al concorso per cani con il nome di Horatio, che secondo lei è molto più adatto per un cane così bello.

Ewan viene come di consueto il venerdì e il mercoledì, entra dal cancello sul retro e lavora per un paio d’ore in giardino. Quando ha finito entra in casa e bussa piano alla porta della cucina per non disturbare la mamma caso mai stesse riposando. Mi consegna delle lattine di cibo per cani che tiene nel furgone, si toglie gli stivali infangati e poi sale le scale con i calzini lisi per salutare Digger, che agita furiosamente la coda contro il materasso ma non si sposta dal capezzale di mia madre.

Dal piano di sotto sento la voce di Ewan, bassa e profonda, e so che sta raccontando a mia madre storie di dèi e dee, eroi ed eroine, seduto accanto a lei. Sposta la tivù dalla cucina alla camera da letto, impiegando almeno un’ora a sistemare cavi elettrici e antenne in modo che lei possa continuare a guardare i suoi programmi di cucina preferiti. Le prepara delle tisane che colmano la casa del profumo di salvia, menta piperita, giunchiglie e camomilla, e che alleviano i suoi dolori meglio delle pillole rosa e azzurre. Mi consegna la pubblicità di una pizza a metà prezzo, sul retro della quale ha scarabocchiato le istruzioni per diversi preparati, e mi dà anche un enorme sacchetto di foglie che passo un’eternità a identificare con l’aiuto di un libro di giardinaggio piuttosto che chiamarlo e ammettere di non saper distinguere un cardo mariano da una rosa canina anche se crescono entrambi nel mio giardino.

Come sempre, quando Ewan lavora nell’orto, gli porto una tazza di caffè. Ora non ci sono deliziosi dolci fatti in casa ad accompagnarlo, né strudel di mele né torta al cioccolato, solo un piatto di biscotti confezionati se mi sono ricordata di comperarli al supermercato. Il giorno in cui mi avvicino a mani vuote e gli annuncio che ho messo a bollire l’acqua mi fissa sconcertato.

«Be’, non vedo perché devo continuare a scarpinare fin quaggiù per servirti», gli dico. «Hai le gambe, quindi se vuoi il caffè usale per venire in casa a prendertelo.»

Mi squadra come se stentasse a riconoscermi mentre mi giro e mi incammino lungo il vialetto, il viso stranamente accaldato e lo stomaco annodato, chiedendomi se mi seguirà. Quando sento il rumore degli attrezzi che cadono a terra e poi quello degli stivali sull’erba sorrido tra me e me, sollevata.

«Hai un aspetto orribile», commenta Ewan quando mi siedo a tavola di fronte a lui.

«Grazie, sei davvero galante.»

«Scusami», sorride, «mi sono espresso male. Intendevo che sembri molto stanca.»

Mi strofino gli occhi, con la sensazione che potrei addormentarmi all’istante. «Sto bene», rispondo.

Lui si infila in bocca un biscotto al cioccolato e arancia, tutto intero. «Bugiarda», borbotta.

Ha ragione, ovviamente. Non sto bene per niente. Non mangio, non dormo, cerco disperatamente di non pensare al passato, di ripetermi che non è questo il momento, che devo concentrarmi sulla necessità di prendermi cura di mia madre, ma ogni volta che guardo il suo viso scavato mi ritornano in mente le parole di Gwennie e la mia testa si riempie di pensieri, domande e sentimenti contrastanti. Un attimo vorrei rintracciare le persone che hanno fatto del male a mia madre e farle a pezzi, l’attimo dopo vorrei soltanto rannicchiarmi in posizione fetale e fingere che nulla di tutto ciò sia reale. Un attimo vorrei dire a mia madre che va tutto bene, che so la verità e che lei non deve più fingere, quello dopo vorrei scuoterla e dirle che non è giusto, che non può lasciarmi, non ora, non da sola. Vorrei urlare ma devo essere composta, vorrei piangere ma devo essere forte. Sono stanca e frastornata, e c’è una sola cosa di cui sono sicura: devo tenere duro, perché sono l’unica cosa che ha.

«È soltanto che non so cosa fare per aiutarla», ammetto. «Mi sento così inutile.» Non ho ancora finito di pronunciare quelle parole che vorrei rimangiarmele e dire che invece sto benissimo, che so quello che sto facendo e che ho tutto sotto controllo. Ma sono così stanca che mi manca la forza di fingere.

«Te la stai cavando alla grande», mi incoraggia Ewan.

«Ma a volte non so che cosa dirle», ammetto, triste. «Quando la vedo che sta male e soffre... che cosa potrei dirle per farla stare meglio?»

Ewan alza le spalle e fissa il caffè. «Forse devi solo stare lì con lei. Forse non c’è niente da dire.»

Non gli confesso che ogni volta che apro la bocca per parlare temo quello che potrebbe uscirne, che ho milioni di domande costantemente sulla punta della lingua, che zittisco sempre mia madre quando inizia a raccontare una delle sue storielle sul passato perché sono acutamente consapevole della verità nascosta dietro le bugie. Non gli confido che adesso tutto è cambiato, e che devo fare uno sforzo terribile per vedere mia madre come la creatura piena di vita, ottimista e leggermente eccentrica che ho sempre conosciuto, anziché come una persona ferita e spezzata. Non gli racconto che ora che finalmente la conosco meglio di quanto sia mai successo, a volte mi sembra un’estranea. Non glielo dico perché è già difficile ammettere queste cose con me stessa, figurarsi con qualcun altro.

«Se non ti viene in mente niente, prova a raccontarle una storia. Lei le adora. Credo che le permettano di allontanarsi da tutto quanto.»

«Non sono capace», ammetto senza tanti giri di parole. «Non saprei da che parte iniziare.»

«Il punto di partenza non è importante, quel che conta è dove si arriva.»

Scuoto il capo, anche se probabilmente ha ragione. So quanto è contenta mia madre ogni volta che lui le racconta storie di draghi e di dèi e tutte quelle sciocchezze di cui va farneticando, e nel cuore della notte, quando non riesce a dormire, a volte desidero con tutta me stessa qualcosa con cui alleviare la sua sofferenza. Ma raccontare storie non è da me.

«Non posso. Non sono brava in questo genere di cose. Non sono in grado di inventare tutte quelle fantasie. Fate e regni incantati e romanticherie. Non ne sono capace.»

«Sì che puoi. Senti, ti do uno spunto e tu dici la prima cosa che ti viene in mente. Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana...»

Ewan si interrompe e mi guarda con aria incoraggiante. Mi sento come un’adolescente impacciata a cui hanno appena ordinato di ballare davanti a una stanza piena di parenti. So che sarà un disastro e che mi renderò ridicola, ma se può aiutare mia madre sono disposta a provarci. Apro la bocca per parlare, ma la mia mente è completamente vuota.

«Non lo so», dico. «È un inizio sciocco. Come posso andare avanti?»

«Ma dai!» esclama lui. «È l’inizio di Guerre stellari

«Non l’ho mai visto.»

«Cosa? Mi stai prendendo in giro, vero?»

«In caso non te ne fossi ancora reso conto, non mi piacciono i film che parlano di dischi volanti, alieni o roba del genere.»

«Okay, lasciamo perdere Guerre stellari. Riproviamo. Tanto tempo fa, in una terra lontana lontana, c’era...»

Cerco di pensare a qualcosa, guardandomi intorno in cerca di ispirazione. Non dovrebbe essere così difficile.

«Un fornello», dico, sparando la prima cosa che vedo.

Ewan sgrana gli occhi. «Un fornello? Be’, è quanto meno insolito. Okay, e cosa faceva questo fornello?»

«Che cosa intendi con ‘cosa faceva’?»

«Be’, un fornello che si limita a starsene lì in una terra lontana non è un granché come storia. Deve succedere qualcosa.»

«Non lo so. E a ben pensarci, tanto tempo fa in una terra lontana probabilmente i fornelli non li avevano neppure. È ambientata in Europa? Di quanto tempo fa stiamo parlando?»

Ewan è perplesso. «Non lo so. Credo che stiamo perdendo di vista il punto della questione: la data esatta non è così importante.»

«Lo è, invece, se nella storia deve esserci un fornello.»

«Non deve necessariamente essere realistica», ribatte lui, guardandomi come se venissi da un altro pianeta. «Non è questo l’obiettivo di una storia.»

«Be’, non lo so», sbotto, sentendomi sciocca. «Ti ripeto che non sono brava in questo genere di cose!»

«Ma se non ci hai nemmeno provato!»

«Sì che ci ho provato.»

«Allora forse ci stai provando con troppa ostinazione. Lasciati andare...»

«Non ci riesco!» sbotto, sentendomi inutile.

Ewan alza le mani. «Okay», risponde in tono conciliante. «Okay.»

Mi affloscio sulla sedia come un bambino imbronciato.

«Scusa», mormoro, «ma proprio non fa per me.»

«Che tempo fa?» domanda mia madre, la voce non più di un sussurro.

«È un po’ freddo», le rispondo. «E piuttosto grigio.»

«Era grigio anche il giorno in cui sei nata, ma non appena ti ho presa tra le braccia è spuntato il sole, così, come dal nulla.»

Sorrido, chiedendomi se può essere vero. A che punto della giornata il sole potrebbe essere sbucato improvvisamente da dietro le nuvole il giorno in cui sono nata? Quando mi ha sistemata tra il sacco del compost e la canna dell’acqua nella vecchia e sgangherata rimessa degli attrezzi? O quando Gwennie ha cercato di mettermi tra le sue braccia e lei, nel delirio, ha cercato di infilarmi nel forno? Oppure nel momento in cui mi ha strappata alle braccia del nonno, dichiarando che non mi avrebbe mai data in adozione?

«Fu quando l’omino del gas ti prese dalla padella e ti mise tra le mie braccia», sorride lei. «Tutto a un tratto il sole entrò dalla finestra e illuminò la stanza.»

Seduta sulla sedia di legno accanto al suo letto, mi guardo intorno cercando di immaginare la scena di ventun anni fa, quando si suppone che sia venuta alla luce e abbia inondato questa stessa stanza di sole. Mia madre mi ha sempre detto che sono nata alle due del pomeriggio, tre ore dopo che l’omino del gas aveva rischiato di morire soffocato da quel boccone di torta che aveva colpito il timer sul frigo dando inizio al travaglio, ma in questo preciso momento mi rendo conto che il sole non entra mai dalla finestra di questa stanza nel pomeriggio, nemmeno in estate.

«Ssst», le sussurro, «devi riposare.»

Mentre si assopisce, ascolto il rumore raschiante del suo respiro e osservo gli occhi muoversi lentamente avanti e indietro sotto le palpebre bianche e sottili come carta velina, chiedendomi quanto tempo ci vorrà.

Quando si sveglia, qualche tempo dopo, sono ancora al suo fianco. Lei gira la testa verso di me, socchiude gli occhi e mormora qualcosa che non riesco a sentire. Mi avvicino.

«Sento profumo di torta alle mandorle e datteri», dice.

«No», le rispondo tristemente. «Non c’è nessuna torta.»

Lei sorride e annuisce. «Oh sì. E anche pasticcini alle ciliegie.»

Infilo la mano sotto la coperta e le stringo le dita.

«Mi sta aspettando?» domanda sottovoce. «Sai, la sera mi aspetta sempre fuori dalla finestra.»

Sono confusa. «Chi?»

Lei si inumidisce le labbra aride e chiude gli occhi. «Ti ricordi quella volta che...» sussurra.

Aspetto, china su di lei, ascoltando con attenzione, ma non sento altro, solo il suono raschiante del suo respiro e il sommesso russare di Digger, acciambellato ai piedi del letto.

«Aspetta!»

Corro in giardino appena in tempo per vedere Ewan chiudere il cancello alle proprie spalle. Vedendomi arrivare si ferma e mi fissa incuriosito quando mi piazzo davanti a lui senza parlare, cercando di riprendere fiato.

Non ho idea di cosa volevo fare o dire. So solo che quando ho sentito che caricava gli attrezzi sul furgone preparandosi ad andare via mi sono fatta prendere dal panico e sono corsa fuori dalla camera di mia madre e giù per le scale.

Non andare via! Credo sia giunto il momento! Non lasciarmi da sola. Non so cosa fare! Ma se dopo tutto non fosse ancora il momento? Se non fosse oggi, ma domani, o dopodomani o tra una settimana? Non posso certo aspettarmi che rimanga con me. Devo riprendere il controllo. Farmi forza.

«Volevo solo chiederti se avevi bisogno di aiuto», improvviso.

Lui mi guarda perplesso. «Per cosa?»

Accenno al furgone, desiderando una scusa migliore. «Be’, per mettere via la tua roba.»

Ewan lancia un’occhiata al furgone, parcheggiato sulla strada oltre la recinzione del giardino. «No, grazie, non occorre.»

«Perfetto.» Sorrido, indietreggiando. «Volevo solo esserne sicura. Ci vediamo, allora.»

«Meg, va tutto bene?» mi domanda lui proprio quando sono sul punto di girarmi e correre in casa. «Hai bisogno di me? Perché se vuoi posso fermarmi.»

Per un attimo penso a come sarebbe facile dirgli di sì, per favore non andare via, rimani ad aspettare con me. Per favore, aiutami a decidere se chiamare il medico, o l’ambulanza, o se aspettare e vedere che cosa succede, perché è una responsabilità enorme e non voglio farlo da sola e ho paura...

«No, sto benissimo», rispondo.

Ewan china il capo cercando di guardarmi negli occhi, ma io mi volto e torno verso casa.

«Grazie», gli grido dietro dopo un po’. «Ce la faccio.»

Mia madre oscilla tra il sonno e la veglia per il resto della giornata, di quando in quando apre gli occhi e guarda con occhio assente la tivù che trasmette a ciclo continuo i suoi programmi di cucina preferiti, l’unica ragione per cui ha investito nella tivù via cavo. Borbotta qualcosa a proposito del linguaggio sboccato di Gordon, o sul nuovo ristorante di Jamie che, confusa com’è, sostiene sia gestito da quindici immigrati cinesi, ma è difficile capire esattamente che cosa stia dicendo. Le metto una cannuccia fra le labbra, incoraggiandola a sorbire un po’ della tisana alle erbe che le ho preparato, ma non riesce che a succhiarne un paio di sorsi. Quando fuori fa buio accendo la lampada, che diffonde nella stanza un fioco bagliore arancione, e mi siedo sulla sedia di legno a guardare Marco Pierre White che prepara una torta salata al formaggio e cipolle caramellate. Devo essermi assopita, perché a un certo punto Digger mi sveglia uggiolando piano ai piedi del letto di mia madre.

«Che succede?» domando stropicciandomi gli occhi.

Lui posa la testa sui suoi piedi con aria infelice. Secondo l’orologio alla parete sono le nove e io controllo su quello da polso chiedendomi se sia giusto. Alla tivù, Marco Pierre White ha lasciato il posto a Delia, che sta mostrando agli spettatori uno splendido piatto da portata che ha comperato l’anno scorso durante una vacanza in Toscana.

Il respiro della mamma è affaticato e corto. Mi alzo dalla dura sedia di legno con le membra tanto intorpidite che penso rimarrò invalida per il resto della mia vita e mi inginocchio sul tappeto accanto al letto.

«Mamma», sussurro, scostandole una ciocca di capelli dal viso.

Lei apre lentamente gli occhi, appena un poco, e mi guarda. «Ciao», bisbiglia.

Mi costringo a sorridere, sforzandomi di ignorare il senso di vuoto nello stomaco e il cuore che tutto a un tratto mi batte forte nel petto. «Ciao», le rispondo.

Lei increspa la fronte, inalando un brusco respiro.

«Tutto bene?» le chiedo. «Devo chiamare il dottore?»

Lei muove le labbra per dire di no, ma all’improvviso io sono spaventata. Forse dovrei chiamare il medico comunque, penso. Devo prendere una decisione. Forse dovrei portarla all’ospedale. O magari telefonare al dottor Bloomberg. Mi strofino la fronte, cercando di ragionare con coerenza.

«Come sarà», bisbiglia mia madre, «là dove sto per andare?»

Adagiata sui cuscini, tutto a un tratto mi sembra terribilmente piccola e vulnerabile, come un bambino che aspetta la favola della buonanotte e che vuole essere rassicurato. Mi brucia la gola, così deglutisco un paio di volte giusto per sapere che posso respirare.

Le lacrime mi offuscano la vista.

Sto per dirle che non lo so, che nessuno conosce la risposta, ma quando apro la bocca non sono quelle le parole che mi escono dalle labbra.

«Chiudi gli occhi», sussurro, «e te lo dirò.»

Le sue palpebre si abbassano con un fremito e io le accarezzo i capelli come faceva lei quando ero piccola.

«È il posto più bello che tu possa immaginare», sento dire a me stessa con dolcezza. «Ci sono nuvole fatte di marshmallow e fiumi di vino, mele al forno crescono nei campi e l’aria profuma di spezie. Il terreno è morbido e cedevole come il pan di Spagna e dagli alberi pendono le tue caramelle al limone preferite, spolverate di zucchero a velo che cade lieve come polvere quando le cogli dai rami. Bellissimi cigni bianchi depongono uova di cioccolata, mentre le api ronzano tra i fiori, facendo il miele più dolce. Nei prati crescono le prelibatezze più squisite – tortine ripiene di marmellata di albicocche, pasticcini alle fragole, meringhe ai lamponi – che aspettano di essere raccolte. L’erba è fatta di liquirizia, e la pioggia quando si posa sulla tua lingua ha il sapore del cordiale di sambuco. I fiori sbocciano tutto l’anno e in estate profumano di picnic sulla spiaggia, mentre in inverno hanno l’odore delle tortine di mele e frutta secca che si mangiano accanto al fuoco. Il giorno di Natale dal cielo cadono fiocchi di neve fatti di zucchero filato e in primavera le mucche al pascolo nei prati producono frappé alla banana. Ci sono ponticelli fatti di pan di zenzero e steccati di pastafrolla...»

Le sfioro con delicatezza la spalla. «Mamma?»

Lei rimane immobile. Il respiro sibilante si è fermato, i suoi occhi non guizzano più sotto le palpebre diafane. Sembra serena alla luce della lampada, e un lieve sorriso le aleggia sulle labbra. Digger sale sul letto strisciando sulla pancia, le orecchie rivolte all’indietro, e posa la testa sulle gambe di mia madre. Poi emette un lieve, triste guaito. Mi chino a baciarle la guancia fredda, cercando di respirare il profumo della sua pelle, dei suoi capelli, aspettandomi di sentire l’aroma familiare di cucina e sole, ma non c’è più. La mamma se ne è andata.

Ho la testa vuota e il corpo intorpidito. Mi alzo lentamente in piedi e mi avvicino alla finestra. Fuori è diventato buio, e mi sporgo per chiudere le imposte come ho sempre fatto a quest’ora. Noto il furgone di Ewan, ancora parcheggiato sotto un lampione. Lui si è addormentato con la testa appoggiata al finestrino. Spengo il televisore proprio mentre Delia dà appuntamento agli spettatori alla prossima stagione.