— Hai ragione, Freddy. È stato indegno di me. Andiamo. Per oggi ne ho  abbastanza.
Riaccompagnai Beckworth alla sua auto, poi tornai al mio appartamento di Santa
Monica. Feci la doccia e mi cambiai. Quindi infilai la mia calibro 38 fuori ordinanza  a naso piatto in una piccola fondina all’anca e la fissai alla cintura vicino alla spina  dorsale, nel caso andassi a ballare e mi sentissi romantico. Poi salii in macchina e  andai a caccia di donne.
Decisi di seguire il tram rosso. Risaliva da Long Beach fin su a Hollywood. Era  venerdì sera, e nelle sere del fine settimana la vettura rossa portava gruppi di ragazze  in cerca di una serata allegra sullo Strip che probabilmente non potevano permettersi.
Il tram rosso correva al centro della strada su binari leggermente sopraelevati, per cui  i passeggeri si vedevano appena. La soluzione migliore era affiancarsi alla vettura per  sbirciare le ragazze mentre salivano a bordo.
Quelle che preferivo erano di Los Angeles, più sole e più individualiste delle  ragazze dei sobborghi, così affiancai il tram rosso fra Jefferson e La Brea. Volevo  concedermi cinque minuti di suspense prima del filone aurifero di Wilshire
Boulevard: grappoli di commesse di Ohrbach e della May Company, e segretarie  delle compagnie di assicurazioni che fiancheggiavano la strada più frequentata di Los
Angeles. Mantenni proprio all’altezza della vettura rossa la mia Buick del  quarantasette con la capote di tela e l’ornamento sul cofano a forma di mirino e  osservai con attenzione mentre i passeggeri salivano a bordo.
La sfilata fino a Wilshire era prevedibile: anziani, liceali, qualche coppia giovane.
A Wilshire salì a bordo un intero crocchio di ragazze che ridacchiavano con voce  acuta, sgomitando e spingendo allegramente. Fuori faceva freddo e i soprabiti  mascheravano i corpi. Non aveva importanza; lo spirito conta più della carne.
Salirono in fretta, tanto che non riuscii a distinguere le facce. Questo mi metteva in  una posizione di svantaggio. Se fossero scese in massa a Fountain o sul Sunset, avrei  dovuto parcheggiare in fretta e rincorrerle senza avere il tempo di lavorare su una  strategia adatta a una di esse in particolare.
Ma non aveva importanza, non quella sera, perché a La Brea, poco prima di
Melrose, la vidi mentre usciva di corsa da un ristorante cinese, con la borsetta a  tracolla che svolazzava, incorniciata per pochi brevi istanti dal bagliore al neon del
Gordon Theater; una ragazza dall’aspetto insolito, riconoscibile non come tipo, ma  dall’intensità emotiva. Sembrava in preda a un nervosismo ansioso, spaventato, che  fendeva la notte di Los Angeles. Era vestita con stile, ma senza riguardo per la moda:  morbidi pantaloni maschili con il risvolto, sandali e giacca alla Eisenhower. Abiti  maschili, ma i lineamenti erano dolci e femminili, e aveva i capelli lunghi.
Riuscì a prendere il tram per un soffio, saltando a bordo con un piccolo balzo da  antilope. Non riuscivo a intuire la sua meta; aveva troppa classe per correre verso lo
Strip. Forse era diretta a una libreria in Hollywood Boulevard, o un appuntamento  con un innamorato che mi avrebbe messo fuori gioco. Mi sbagliavo; scese a Fountain  e si avviò verso nord.
Parcheggiai in fretta, piazzai sotto il tergicristalli il cartello VETTURA DELLA
POLIZIA e la seguii a piedi. Svoltò a est sulla De Longpre, una tranquilla strada  residenziale ai margini del quartiere commerciale di Hollywood. Se tornava a casa,

per quella sera ero fregato: i miei metodi richiedevano una strada affollata o un luogo  pubblico, e il massimo in cui potevo sperare era un indirizzo per il futuro. Ma mi  accorsi che mezzo isolato più avanti c’erano due auto bianche e nere parcheggiate in  doppia fila con i lampeggiatori rossi accesi: probabilmente la scena di un reato.
La ragazza se ne accorse, esitò, poi tornò indietro nella mia direzione. Aveva paura  dei poliziotti, e questo accrebbe il mio interesse. Decisi di puntare tutto su quella  paura, e la intercettai mentre mi superava. — Mi scusi, signorina — dissi, mostrando  il distintivo. — Sono un agente di polizia e questa è la scena di un delitto. La prego,  mi permetta di accompagnarla in un luogo sicuro.
La donna annuì, spaventata, con il viso pallidissimo e, per un attimo, vuoto. Era  molto graziosa, con quella combinazione di forza e di vulnerabilità che è l’essenza  del mio amore e del mio rispetto per le donne. — D’accordo — rispose,  aggiungendo: — Agente — con una punta appena di disprezzo. Tornammo indietro  verso La Brea, senza guardarci.
— Come si chiama? — le domandai.
— Sarah Kefalvian.
— Dove abita, signorina Kefalvian?
— Non lontano da qui. Ma non stavo tornando a casa. Volevo risalire il viale.
— Per andare dove?
— A una mostra d’arte. Vicino Las Palmas.
— Lasci che l’accompagni.
— No. Direi di no.
Distoglieva gli occhi, ma quando arrivammo all’angolo di La Brea mi lanciò uno  sguardo ardente, di sfida, che mi diede alla testa. — Non le piacciono i poliziotti,  vero, signorina Kefalvian? — chiesi.
— No. Fanno del male alla gente.
— Aiutiamo più persone di quelle che facciamo soffrire.
— Non ci credo. Grazie per avermi accompagnato. Buonasera.
Sarah Kefalvian mi voltò le spalle e s’incamminò di buon passo in direzione del  viale. Non potevo lasciarla andare. La raggiunsi e l’afferrai per un braccio. Lei lo  ritirò di scatto. — Ascolti — dissi — non sono un poliziotto qualsiasi. Ho evitato la  leva militare. So che in quella libreria di Las Palmas c’è una mostra di Picasso. Sono  ansioso di farmi una cultura e ho bisogno di qualcuno che mi faccia da cicerone. —
Rivolsi a Sarah Kefalvian quel sorriso tutto grinze che mi faceva sembrare un  diciassettenne timido. Lei cominciò ad ammorbidirsi, appena appena. Sorrise. Io  incalzai. — Per favore.
— Ha evitato davvero la leva?
— Qualcosa del genere.
— La porterò alla mostra se non mi toccherà e non dirà a nessuno che è un  poliziotto.
— Affare fatto.
Tornammo indietro verso la mia auto in sosta vietata, io euforico e Sarah Kefalvian  interessata suo malgrado.
La mostra si teneva nella libreria di Stanley Rose, uno dei punti caldi individuati da  tempo dell’intellighenzia di Los Angeles. Sarah Kefalvian mi precedeva appena,

pronunciando giudizi pieni di reverenza. I quadri erano stampe, non veri e propri  dipinti, ma questo non la smontò. Era evidente che si stava scaldando all’idea di  trovarsi in compagnia. Le dissi che mi chiamavo Joe Thornhill. Ci fermammo di  fronte a Guernica, l’unico sul quale mi sentissi abbastanza sicuro da azzardare un  commento.
— È un quadro magnifico — dissi. — Da ragazzo ho visto un sacco di fotografie  di quella città. Questo mi riporta tutto alla mente. Specie quella vacca con la lancia  che sporge dal corpo. La guerra dev’essere dura.
— È la cosa più crudele e orrenda che esista sulla terra, Joe — commentò Sarah
Kefalvian. — Voglio dedicare la mia vita a fermarla.
— In che modo?
— Diffondendo le parole di grandi uomini che hanno visto la guerra e l’effetto che  produce.
— Sei contro la guerra in Corea?
— Sì. Contro tutte le guerre.
— Non vuoi fermare il comunismo?
— La tirannia si può fermare solo con l’amore, non con la guerra.
“Quello” m’interessava. Gli occhi di Sarah stavano diventando lucidi. — Andiamo  a parlare — le dissi. — Ti offro la cena. Ci scambieremo la storia della nostra vita.
Che ne dici? — Dimenai le sopracciglia alla maniera di Wacky Walker.
Sarah sorrise e rise, e questo la trasformò. — Ho già mangiato, ma verrò con te se  mi racconterai per quale motivo hai evitato la leva.
— Affare fatto. — Mentre uscivamo dalla libreria la presi per il braccio per  guidarla. Lei s’irrigidì, ma non fece resistenza.
Raggiungemmo in macchina un locale italiano all’incrocio fra Sunset e
Normandie. Lungo il tragitto appresi che aveva ventiquattro anni, si era laureata in  storia all’UCLA e apparteneva alla prima generazione di americani di origine armena. I  nonni erano stati annientati dai turchi, e le storie dell’orrore che i genitori le avevano  raccontato sulla vita in Armenia avevano dato un’impronta alla sua vita: voleva porre  fine alla guerra, mettere fuori legge la bomba atomica, abolire la discriminazione  razziale e ridistribuire la ricchezza. Mi trattava in modo leggermente deferente,  affermando che considerava i poliziotti necessari, ma che avrebbero dovuto armarsi  di diplomi nelle arti liberali e di ideali elevati, anziché di pistole. Cominciavo a  piacerle, per cui non potevo dirle che era pazza. Cominciava a piacermi anche lei, e il  sangue mi ribolliva al pensiero che fra poche ore avremmo fatto l’amore.
Apprezzai la sua onestà e decisi che l’unica forma decente di baratto sarebbe stata  la sincerità. Decisi di non raccontarle fandonie: forse sarebbe uscita dal nostro  incontro più realistica.
Il ristorante era un locale italiano alla buona, rigorosamente familiare, con sbiaditi  manifesti turistici di Roma, Napoli, Parma e Capri, alternati a fiaschi vuoti di Chianti  appesi a una falsa vite. Decisi di lasciar perdere la cena e ordinai una grossa caraffa di  vino rosso italiano. Levammo i bicchieri in un brindisi.
— Alla fine della guerra — dissi.
— Lo pensi davvero?

— Certo. Solo perché non inalbero cartelli e non faccio un gran casino, non  significa che non la odio.
— Dimmi perché hai evitato la leva — disse piano Sarah.
Vuotai il bicchiere e me lo riempii di nuovo. Lei beveva il suo  lentamente.
— Sono orfano. Sono cresciuto in un orfanotrofio a Hollywood. Era un cimiciaio  cattolico, gestito da un gruppo di suore sadiche. Il vitto faceva schifo. Durante la
Depressione non mangiavamo altro che patate, minestroni di verdura acquosi e latte  in polvere, con la carne al massimo una volta la settimana. Tutti i ragazzi erano  rachitici e anemici, pieni di brufoli. Non era abbastanza per me. Non riuscivo a  mangiare. Mi faceva infuriare al punto che mi prudeva la pelle. Ci mandavano a  scuola fuori, in un istituto cattolico sulla Western Avenue. A pranzo ci davano la  stessa sbobba. Quando fui sugli otto anni, capii che se continuavo a mangiare quella  schifezza avrei dovuto dire addio alla virilità. Così cominciai a rubare. Battevo tutti i  supermercati di Hollywood. Rubavo sardine in scatola, formaggi, frutta, biscotti,  torte, latte, tutto quello che ti viene in mente. Per il fine settimana i ragazzi più grandi  venivano mandati in campagna da ricche famiglie cattoliche, per farci vedere un po’  di bella vita. Io venivo mandato regolarmente da questa famiglia di Beverly Hills.
Erano carichi di grana. Avevano un figlio all’incirca della mia età. Era un ragazzo  ribelle, e un taccheggiatore coi fiocchi. La sua specialità erano le bistecche. Mi misi  con lui e ripassammo tutte le macellerie del West Side. Lui era grasso come un  maiale. Non riusciva a smettere di mangiare. Un vero omino della Goodyear.
“Durante la Depressione c’era una specie di giungla fluttuante di vagabondi a
Griffith Park. I poliziotti sfrattavano regolarmente da lì i vagabondi, ma quelli si  riunivano daccapo in un altro posto. Me ne parlò un prete del collegio del Cuore
Immacolato. Io andai a cercarli. Ero un ragazzo curioso, solitario, e pensavo che i  vagabondi fossero romantici. Portai con me un grosso carico di bistecche, che mi rese  molto popolare. Ero così grande e grosso che nessuno mi dette noia. Ascoltavo le  storie che raccontavano i vecchi barboni... guardie e ladri, ferrovie e agenti della
Pinkerton, oscurità. Cose strane di cui la maggior parte della gente non aveva il  minimo sentore. Perversioni. Cose indicibili. Io volevo conoscere quelle cose, e nello  stesso tempo restare al sicuro.
“Una notte stavamo arrostendo delle bistecche e bevendo del whisky che avevo  rubato, quando i poliziotti fecero irruzione nella giungla. Io riuscii a svignarmela.
Sentii i poliziotti che facevano sloggiare i barboni. Erano decisi, ma ci mettevano  dell’umorismo; così capii che se diventavo un poliziotto avrei potuto avere l’oscurità  insieme con una sorta di precaria impunità. Avrei ‘saputo’, ma sarei stato al sicuro.
“Poi venne la guerra. Quando Pearl Harbor fu bombardata avevo diciassette anni.
E capii di nuovo, anche se stavolta in un altro senso. Capii che se combattevo in  quella guerra sarei morto. Capii anche che mi occorreva essere esentato dalla leva in  modo onorevole per poter entrare nel dipartimento di polizia.
“Non ho mai conosciuto i miei genitori. Sono stati i miei primi genitori adottivi a  darmi un nome prima di affidarmi all’orfanotrofio. Escogitai un piano. Lessi le leggi  sulla leva e scoprii che il figlio unico di un uomo caduto in guerra all’estero è esente  dal servizio militare. Sapevo anche di avere un timpano perforato, che era una

possibile causa di esenzione, ma volevo coprire le mie tracce. Così tentai di  arruolarmi nel quarantadue, subito dopo il diploma delle superiori. Venne a galla la  storia del timpano e fui esonerato.
“Poi scovai una vecchia alcolizzata, un’attrice in miseria. Venne con me quando  ricorsi in appello contro la commissione di arruolamento. Urlò e strepitò che aveva  bisogno di me perché lavorassi e le dessi dei soldi. Disse che suo marito, mio padre,  era rimasto ucciso nella campagna in Cina del ventisei, e che era quello il motivo per  cui ero finito all’orfanotrofio. Fu un’interpretazione eccezionale. Le diedi cinquanta  dollari. La commissione di leva le credette e mi diffidò dal tentare ancora di  arruolarmi. Li supplicai, a intervalli, ma furono risoluti. Ammiravano il mio  patriottismo, ma la legge è legge, e per ironia della sorte il timpano perforato non mi  ha impedito di entrare nella polizia.”
Sarah ne fu entusiasta, e quando finii di raccontare sospirò. Ne ero entusiasta  anch’io; riservavo quella storia per una donna speciale, una che fosse in grado di  apprezzarla. A parte Wacky, lei era l’unica persona a sapere di quella parte della mia  vita.
Posò la mano sulla mia. Io me la portai alle labbra e la baciai. Lei aveva l’aria  pensierosa e malinconica. — Hai trovato quello che stai cercando? — mi domandò.
— Sì — risposi.
— Mi porti in quella giungla di vagabondi? Stasera?
— Andiamoci subito. La strada del parco viene chiusa alle dieci.

Era una notte ghiacciata e limpidissima. Gennaio è il mese più freddo e più bello, a
Los Angeles. I colori della città, permeati dall’aria gelida, sembrano acquistare vita  propria e riflettono una tradizione di calore e d’insularità.
Risalimmo la Vermont e ci fermammo nel parcheggio dell’osservatorio. Salimmo a  piedi verso nord, tenendoci per mano. Parlavamo del più e del meno, e io sottolineai  il lato più gentile e picaresco del lavoro di polizia: gli ubriachi cordiali, i colorati  musicisti jazz negli abiti attillati con le spalle imbottite, i cuccioli smarriti che Wacky  e io restituivamo ai loro giovani proprietari. Non le parlai di stupri e aggressioni, dei  bambini maltrattati, dei cadaveri sulla scena di incidenti o dei sospetti di reati gravi  che venivano regolarmente torchiati nelle stanze sul retro della stazione di Wilshire.
Non c’era bisogno che lo sapesse. Gli idealisti come Sarah, nonostante la loro  ingenuità, erano convinti che in sostanza il mondo fosse un posto di merda. Dovevo  raddolcire il suo senso della realtà con una punta di gioia e di mistero. Non avrebbe  saputo accettare che l’oscurità faceva parte della gioia. Dovevo smussare gli spigoli  alla maniera di Hollywood.
Le mostrai il luogo della vecchia giungla. Non ci venivo dal 1938, tredici anni  prima, e ormai era soltanto uno spiazzo invaso dalla vegetazione e costellato di  bottiglie di vino da un quarto vuote.
— È cominciato tutto qui, per te? — chiese Sarah.
— Sì.
— L’ora e il posto mi intimoriscono.
— Anche me. Oggi è il trenta gennaio del cinquantuno. Lo è adesso e non lo sarà  mai più.