Chiamai la divisione informativa del dipartimento di polizia di Los Angeles, dando  il mio nome e numero di matricola e spiegai quello che volevo. Mi risposero nel giro  di cinque minuti: non c’era nessun Edward, Edwin o Edmund Engels, maschio,  bianco, sulla trentina, con precedenti penali a Los Angeles. Stavo per attaccare, poi  mi venne un’altra idea: chiesi all’impiegato di controllare le pratiche delle  registrazioni automobilistiche per gli ultimi quattro anni. Stavolta fece centro:
Edward Engels, diciannove undici Horn Drive, West Hollywood, possedeva due auto,  la berlina verde Olds del quarantasei che avevo seguito e una Ford cabriolet del  quarantanove, rossa con la capote bianca, numero di targa JY ottosei uno. Ringraziai  l’impiegato, attaccai.
La tappa successiva fu Pasadena, dove cercai rivenditori di Ford e Oldsmobile. Ci  volle un po’, ma li trovai e ottenni quello che volevo: dépliant pubblicitari dei modelli  del quarantasei e del quarantanove. Poi proseguii fino a un emporio sul Colorado
Boulevard e comprai una scatola di pastelli. Nel parcheggio mi misi al lavoro sui miei  supporti visivi, colorando la berlina Olds di un pallido verde mare e la Ford di un  rosso fuoco con la capote bianco candido.
A quel punto era l’una e tre quarti e c’era una grande umidità. Avevo bisogno di  radermi e di cambiarmi i vestiti. Tornai a casa, feci la doccia, mi sbarbai e mi  cambiai. Tirai fuori il diario e distrussi tutte le pagine relative all’incontro con
Maggie Cadwallader. Poi mi stesi sul letto e tentai di dormire.
Non servì a niente. Il mio cervello non voleva saperne di smettere di rimuginare  piani, schemi e aspettative. Alla fine mi diedi per vinto, spinsi Night Train nel cortile  posteriore, lo chiusi a chiave e raggiunsi in macchina il Sunset Strip.
Calcolai i tempi alla perfezione, parcheggiando la macchina nell’area di una  stazione di servizio all’incrocio fra Sunset e Doheny e avviandomi a piedi. I locali  notturni aprivano giusto in quel momento, preparandosi a un’altra serata di vita  eccitante e i baristi, i camerieri e gli addetti ai parcheggi con i quali volevo parlare  avevano il viso riposato e tempo a volontà per rispondere alle mie domande.
Mi stavo facendo una teoria su Eddie Engels; che fosse arrogante, spavaldo  all’estremo, chiacchierone e piuttosto stupido, tanto stupido da portare a bere e a  cenare a un passo da casa sua le donne alle quali aveva intenzione di fare del male o  che addirittura meditava di uccidere. Sembrava logico. Abitava a un tiro di schioppo  dai locali notturni più caldi della città, ed era chiaro che amava farsi vedere in  compagnia femminile.
Così formulavo teorie e procedevo verso est, mostrando la foto di Maggie
Cadwallader a inservienti dei parcheggi, portieri, maitre e camerieri. Visitai tutti i  locali notturni e i bar forniti di juke-box su entrambi i lati del Sunset, da Donehy a La
Cienega, senza risultato. Ero sul punto di darmi per vinto quando decisi di cominciare  a controllare anche i ristoranti.
Al terzo, ottenni la prima conferma. Era un locale italiano e il vecchio cameriere  chiacchierone annuì in segno di riconoscimento appena gli mostrai la foto. Ricordava  di aver servito Maggie alcune settimane prima e stava per imbarcarsi in una  disquisizione sui piatti che aveva mangiato quando sibilai: — Aveva un  accompagnatore ?

Trasalendo, il vecchio sorrise. — Certo — e descrisse Eddie Engels. Continuò  raccontandomi di tutte le “belle bambine” che il “bel giovanotto” portava a mangiare  lì. Era una conferma sufficiente, ma io volevo prove. Volevo che il caso fosse coperto  sotto tutti i punti di vista, così che quando lo avrei presentato ai miei superiori non  facesse neanche un filo d’acqua da nessuna parte.
Visitai altri quattro ristoranti, tutti nel raggio di cinque isolati dall’appartamento di
Eddie Engels in Horn Drive e ottenni altre tre identificazioni positive da camerieri  che ricordavano Eddie come un tipo largo di mance che parlava a voce alta delle sue  vincite all’ippodromo. Ricordavano Maggie Cadwallader come una donna silenziosa,  che si stringeva a Eddie e beveva parecchi rum e Coca.
Annotai nomi, indirizzi e numeri telefonici di tutti i testimoni e corsi di nuovo alla  macchina. Erano le otto e mezzo, il che mi assicurava, calcolai, circa due ore prima  che la maggior parte della gente fosse a letto.
Raggiunsi in macchina Hollywood e cominciai a bussare alle porte. Le persone a  cui parlai non erano sorprese: altri agenti erano stati in giro la settimana prima a fare  domande. Rimasero sorprese quando mostrai loro le immagini a colori delle due auto.
Gli altri agenti non avevano fatto nessuna domanda in proposito, ma solo su
“particolari strani”, “fatti insoliti” che potevano aver sentito o udito la notte  dell’omicidio. Una dopo l’altra, scossero la testa. Nessuno aveva notato la Olds o la
Ford cabriolet. Battei tutta Harold Way e svoltai su De Longpre, sempre più  scoraggiato. Le luci cominciavano a spegnersi; la gente andava a letto.
All’angolo fra De Longpre e Wilton, m’imbattei in tre liceali che giocavano a  pallavolo alla luce di un lampione. Con loro la misi su un piano molto amichevole,  lasciandogli perfino guardare la pistola. Una volta ottenuta la loro confidenza,  mostrai le immagini.
— Ehi! — esclamò il più grosso dei tre ragazzi. — Che forte questa  decappottabile! Amico, ehi, amico!
Uno dei compagni afferrò la figura e la esaminò in silenzio. — Ho visto una  macchina come quella. Su questa strada, poco più avanti.
— Quando? — chiesi piano.
Il ragazzo rifletté, poi guardò quello robusto in cerca di conferma. — Larry, ti  ricordi la settimana scorsa, quando me la sono svignata fuori di casa per venire qui?
Ti ricordi?
— Sì, mi ricordo. Era lunedì sera. Io dovevo andare...
Li interruppi, mantenendo un tono severo e paterno. — E la macchina era bianca e  rossa come quella di questa figura?
— Sì — rispose il ragazzo. — Proprio così. Aveva una coda di volpe sull’antenna,  davvero forte.
Ero in estasi. Annotai i loro nomi e numeri di telefono e assicurai che sarebbero  diventati eroi. I ragazzi erano seri per la gravità del loro eroismo. Strinsi  solennemente la mano a tutti e tre, poi mi allontanai.
In Hollywood Boulevard trovai un telefono pubblico e mi procurai il numero  telefonico di Eddie Engels all’ufficio informazioni. Lo composi e lo lasciai squillare  quindici volte. Nessuna risposta. Eddie il nottambulo era a caccia.

Tornai sullo Strip, svoltai a nord su Horn Drive e parcheggiai dalla parte opposta  della strada di fronte al complesso di bungalow dove abitava. Frugai nel bagagliaio in  cerca di qualche arnese da scasso improvvisato e trovai una parte della mia vecchia  roba da disegno del college, compresa una riga a T metallica, con i bordi affilati, che  dava l’impressione di poter fare scattare il meccanismo di una serratura. Munito di  quella e di una torcia, mi diressi verso il cortile in ombra.
Stavolta sapevo dove cercare, al numero undici. Era tre bungalow più avanti, sul  lato sinistro. Tutte le luci erano spente. Aprii una fragile porta a rete, guardai a destra  e a sinistra, poi feci lampeggiare cautamente la torcia sulla porta interna per studiare  il meccanismo. Era una semplice serratura a scatto, così tirai fuori la riga a T, trasferii  la torcia nella piega del braccio sinistro, incuneai il bordo metallico fra serratura e  stipite e spinsi. Resisteva, ma insistetti, rischiando di spezzare il filo della riga. Alla  fine si sentì un sonoro schiocco metallico e la porta si aprì.
Entrai in fretta e chiusi la porta dietro di me. Feci scorrere la torcia lungo le pareti  in cerca di un interruttore, lo trovai e lo accesi, illuminando per un attimo un  soggiorno arredato con gusto con tappeti persiani, mobili moderni di legno chiaro  curvato a vapore e, su tutte quattro le pareti, quadri a olio di cavalli da corsa con i  colori delle scuderie.
Spensi la luce e puntai verso il corridoio. Accesi un’altra luce e rischiai di  rovesciare una consolle per il telefono. La consolle aveva tre cassetti e li esaminai  nella speranza di trovare una specie di agenda telefonica personale. Non c’era niente:  i tre cassetti erano vuoti.
Spensi la luce e avanzai in camera da letto. I miei occhi si stavano adattando  all’oscurità, quindi era facile individuare i mobili nella stanza: letto, cassettone,  scaffali per i libri. La finestra era oscurata da pesanti tendaggi di velluto, così decisi  di arrischiarmi a lasciare una luce accesa mentre svolgevo le mie ricerche. Accesi una  lampada da tavolo, che illuminò una stanza stranamente sobria: solo un letto a una  piazza con un copriletto scozzese, una libreria zeppa di libri illustrati sulle corse dei  cavalli e alle pareti manifesti di corride e stampe incorniciate di un bel palomino.
Dietro il letto c’era un armadio a muro profondo, pieno di vestiti. Alle stampelle  erano appese almeno cinquanta giacche sportive, trenta o quaranta paia di pantaloni,  decine di camicie da smoking e camicie sportive. Il pavimento dell’armadio era  ricoperto di scarpe, da sobrie scarpe con i lacci a vistosi mocassini sportivi, tutte ben  lucidate e disposte con ordine. Eddie il damerino. Non bastava. Volevo prove che  puntassero contro Eddie il degenerato... Eddie l’assassino.
Esaminai con estrema cura i cassetti del comò, quattro, cercando agende  telefoniche, diari, fotografie, qualunque cosa che collegasse Eddie Engels a Maggie
Cadwallader o a Leona Jensen. Non c’era niente. Solo biancheria di seta dorata, ma  quello non era sufficiente per impiccare un uomo.
Tornai al grande armadio e frugai nelle tasche delle giacche. Niente. Esaurita la  camera da letto, spensi la luce e tornai nel soggiorno, facendo balenare la torcia negli  angoli, sulle librerie, sotto le poltrone e i divani. Niente. Niente di personale. Niente  che indicasse che Eddie era altro che un elegantone con la passione dei cavalli.

C’era un armadietto dei liquori con quattro bottiglie: scotch, bourbon, gin e brandy.
Non c’erano foto di famiglia o di persone care. Era un ambiente impersonale in modo  esasperante, la casa di un fantasma.
Passai in cucina. Era come mi aspettavo, compatta e molto ordinata; un angolino  per la prima colazione, un lavello che non conteneva piatti, un frigorifero dove non  c’era altro che una bottiglia d’acqua e un calendario del millenovecentocinquanta  appeso alla parete con una puntina, senza annotazioni sulle pagine.
Non restava che il bagno. Forse là dentro il vecchio Eddie allentava la guardia.
Forse la vasca era piena di sirene o alligatori. Neanche per sogno: il bagno era  ricoperto di piastrelle rosa, immacolato, con uno specchio gigantesco sopra il  lavandino e uno specchio a tutta altezza sulla parte interna della porta. Eddie il  narcisista.
Sopra il gabinetto c’era un armadietto dei medicinali. Lo aprii, aspettandomi di  trovare il dentifricio e il necessario per radersi, e invece c’era una mezza dozzina di  minuscoli scaffali che contenevano cravatte arrotolate. Eddie, impeccabile sul piano  sartoriale, utilizzava lo specchio a tutta altezza per assicurarsi un perfetto nodo
Windsor. Passai una mano sulla collezione di sete, disposte in ordine di colore e di  stile. Che mania per l’ordine; che mania per la perfezione dei particolari. Poi notai  quella che sembrava una strana anomalia: una cravatta di seta verde sporgeva più  delle altre. La premetti con un dito e sentii qualcosa di solido all’interno. Estrassi con  cautela la cravatta e la svolsi. Mi cadde in mano la spilla di diamanti di Maggie
Cadwallader.
La fissai per molti secondi, scosso. La mia calma volò via dalla finestra e la mia  mente cominciò a ribollire di piani. Sistemai di nuovo la spilla dentro la cravatta e la  riposi nell’armadietto esattamente come l’avevo trovata. Spensi la luce del bagno e  attraversai l’appartamento buio fino alla porta d’ingresso. La chiusi dietro di me con  la serratura a scatto, controllando lo stipite in cerca di tracce dell’effrazione. Non ce  n’erano.
Nel cortile tutte le luci erano spente. Rimasi immobile per alcuni istanti,  assaporando la meraviglia della notte e di quello che avevo appena scoperto, poi  m’incamminai dietro i bungalow. C’era una tettoia di lamiera ondulata che riparava le  auto degli inquilini. La macchina in fondo, scintillante al chiaro di luna, era una Ford  rossa del quarantanove con la capote di tela bianca. Una coda di volpe penzolava  dall’antenna della radio.
— Hai ucciso Maggie Cadwallader e Dio sa quante altre, degenerato figlio di  puttana — dissi — e farò in modo che la paghi.


9

Il mio caso. Il mio sospetto. La mia vendetta? Il mio arresto? La mia gloria e la mia  sinecura? Tutti quei pensieri mi passavano per la mente il giorno dopo, mentre ero di  pattuglia a piedi sulla Central Avenue battuta dal sole.
Una decisione s’imponeva e avrei potuto agire in modo o razionale o  donchisciottesco. Concessi ulteriori riflessioni a quell’alternativa e quando il giro finì  avevo preso una decisione, umiliante ma prudente. Mi cambiai indossando di nuovo  abiti civili e bussai alla porta del capitano Jurgensen.
— Avanti! — esclamò. Entrai e lo salutai. Jurgensen fece un’orecchia alla sua  copia tascabile di Otello e mi guardò. — Sì, Underhill?
— Signore — dissi — so chi ha ucciso la donna che è stata trovata strangolata a
Hollywood la settimana scorsa. Forse ne ha uccise altre. Non posso eseguire l’arresto  io stesso. Devo consegnare le prove a qualcuno che possa aprire un’indagine  ufficiale, così sono venuto da lei.
— “Perdizione, prendimi l’anima” — citò Jurgensen, poi sospirò ed estrasse dal  cassetto della scrivania una pipa e un sacchetto di tabacco. Io rimasi a riposo mentre  se la prendeva comoda a caricare la pipa e accenderla. Pareva aver dimenticato che  ero lì. Stavo per schiarirmi la gola quando disse: — In nome di Cristo, Underhill,  siediti e raccontami.
Ci misi venti minuti, secondo l’orologio elettrico sulla parete dell’ufficio del  capitano.
Raccontai tutto, tranne il mio amplesso con Maggie Cadwallader. Gli parlai delle  affinità fra i due omicidi. Gli dissi di aver notato i fiammiferi nell’appartamento di
Leona Jensen, nel febbraio precedente e di come fosse stato quello il nesso che mi  aveva attirato verso il Silver Star. Omisi il fatto che sapevo della spilla di diamanti.
Mentre raccontavo la storia, osservai l’espressione di solito impassibile di
Jurgensen oscillare fra la curiosità, la collera e una sorta di amaro divertimento.
Quando ebbi finito mi fissò in silenzio. Lo fissai a mia volta, intuendo che una falsa  mortificazione per le libertà che mi ero preso non sarebbe stata credibile.
Continuammo a fissarci per qualche minuto.
Il capitano aveva un’aria molto grave. Cominciò a svuotare il fornello della pipa  nel palmo della mano con gesti molto lenti e deliberati. — Underhill — disse — sei  un giovanotto estremamente arrogante. Nel corso di quella che definisci con  arroganza “la mia indagine”, hai commesso infrazioni al regolamento dipartimentale  che potrebbero costarti la carriera; hai commesso due reati che potrebbero spedirti a