I giapponesi hanno un proverbio diventato famoso, nana korobi, ya oki, che significa «cadi sette volte, rialzati otto». Ne ho compreso il senso profondo imparando il giapponese. Questo proverbio si riferisce all’idea di non cedere, ma soprattutto non mette l’accento sul cadere (altrimenti reciterebbe «cadi sette volte, rialzati sette»). Considera invece la prima volta in cui ci si rialza, ricordando che innanzitutto dobbiamo risorgere, per avere la possibilità di cadere, e poi avere la possibilità di rialzarci nuovamente.
Come unica non linguista del mio corso di laurea, non ho un buon inizio. Durante la prima settimana di università, mentre i miei nuovi amici acquisiscono conoscenze elevate in laboratori o in un auditorium, io mi esercito a dire: «Ciao» in tre modi diversi, in base all’ora della giornata. E a volte sbaglio.
Come studentessa della facoltà di Studi orientali presso la Durham University, amo la tradizione e l’esperienza: le lezioni per piccoli gruppi con insegnanti gentili nei sottotetti di una vecchia casa vittoriana, le file e file di libri con caratteri kanji sul dorso, che io sogno di essere in grado di leggere un giorno, e il contiguo Museo orientale, pieno zeppo di tessuti, xilografie e altri artefatti esotici. Dobbiamo anche imparare l’etichetta per sapere come comportarci quando ci rechiamo in visita presso una famiglia giapponese. Dobbiamo guardare i film di animazione di Miyazaki e trascorrere i giovedì pomeriggio a intingere pennelli nell’inchiostro nero lucido per tratteggiare i kanji su carta di riso, con un sottofondo di musica classica. Il giapponese è una lingua musicale, e il suo suono mi piace molto. Ma la mia intonazione non è certo perfetta.
Fin dalla prima prova di lessico, il mio cammino è disseminato di sconfitte. I miei esami del primo anno vanno così male che uno dei professori associati mi convoca nel suo ufficio per annunciarmi, con aria solenne, che la facoltà non è sicura di potermi lasciar andare a Kyōto per il semestre successivo. Cosa? Ma non capiscono? Il nocciolo della questione è proprio andare a vivere in Giappone. Io sono qui per l’avventura. Mi metto a supplicare, a implorare e a garantire che, non appena potrò passare il tempo immersa nella lingua e nella cultura giapponese, riuscirò a cavarmela. In un modo o nell’altro funziona e qualche settimana dopo eccomi su un aereo diretto a est, con le mie insicurezze infilate in valigia insieme al dizionario di kanji e ai vestiti per un anno.
Attraversando l’aeroporto internazionale di Kansai, vedo insegne che non so leggere, sento conversazioni e annunci che non riesco a comprendere e rimango attonita quando mi accorgo che la gente parla effettivamente la lingua dei miei libri di testo. La stessa che io avrei dovuto studiare per ore e ore invece di leggere l’ultimo notiziario alla radio dell’università o di raccogliere i pettegolezzi del campus per il giornale studentesco. Poi incontro la mia padrona di casa, che parla soltanto il dialetto di Kyōto, e il resto della famiglia che mi ospita: nessuno di loro parla inglese, e appare subito evidente che dovrò migliorare per forza, se voglio sopravvivere durante il prossimo anno.
Il mio viaggio per imparare la lingua, tracciato sotto forma di grafico, incomincia da zero in basso a sinistra, con una linea irregolare che denota un inizio difficile, seguito da una tendenza al rialzo nel primo anno a Kyōto. La linea sale nei momenti di forte motivazione, mentre sprofonda nei momenti di morale basso. Si stabilizza più o meno a metà strada, sale di nuovo quando si avvicina il momento degli esami, e sale ancora di più al ritorno in Inghilterra, una volta finito il corso di studi. A un certo punto mi sento piuttosto sicura di riuscire a diplomarmi, ma rimango scioccata quando si tratta di entrare nel mondo del lavoro giapponese, vedendo che l’asse verticale arriva molto più in alto di quanto credessi. Quello che ritenevo uno standard decisamente buono si rivela, alla fine, soltanto buono quando devo tradurre dal vivo, su un grande palco, per governanti, ambasciatori e atleti di spicco. Registro gli incontri e li riascolto finché non capisco, traducendo con la massima cura articoli di giornale e cercando tutti i contatti possibili con diversi generi di classi culturali e amicizie. Nel frattempo, mi sembra di stare su un ottovolante di orgoglio e disperazione, alternando riflessioni su ciò che ho raggiunto e ciò che devo ancora raggiungere.
Alla fine, decido che farò quello che posso, con gli strumenti che ho al momento. Mi preparerò accuratamente, ma poi dovrò soltanto presentarmi, meglio se riposata e vigile, per dare il meglio di me. Ogni volta che lo faccio, miglioro un po’, imparo qualcosa di più e la mia sicurezza aumenta. Ovviamente, ci sono volte in cui la mia sicurezza va di nuovo in mille pezzi, ma poi mi riprendo e vado avanti.
Il grafico dell’apprendimento del linguaggio ha continuato a salire per ogni anno che ho trascorso lavorando a Tōkyō. Probabilmente ha raggiunto il picco nell’anno che ho passato immersa nello studio dell’interpretazione simultanea per il mio master. È allora che sono andata all’ONU per un’esperienza di lavoro, condividendo una cabina interpreti con donne da sempre bilingui, con trent’anni di esperienza nel lavoro e capaci anche di sferruzzare mentre passavano con disinvoltura da una lingua all’altra. Andarci forse fu un errore. Mi sentivo profondamente intimidita e avvertivo che la mia sicurezza si sgretolava. Il mio grafico sembrava l’indice Nikkei dopo un crollo in borsa.
Ma questo modo di procedere fa parte di noi. Più miglioriamo in qualcosa, più ampliamo la nostra visuale. Passiamo dalla pozzanghera al lago, dal lago al mare. L’ideale è cambiare sempre, e fintantoché ce ne serviamo come motivazione per svolgere un lavoro di qualità, mettendoci il cuore, va bene. Ma quando diventa un esercizio di confronto fine a se stesso, diventa pericoloso. Non intendo dire che dovreste accontentarvi del lago. Sto dicendo che potreste essere felici nel lago, e che se è lì che vi sentite meglio, allora è il posto giusto. Se invece vi sentite destinati al mare, optate per il mare. Purché siate sicuri di andarci per delle buone ragioni.
Niente è finito, completo, perfetto. C’è sempre da imparare.
Ma questo come si connette al wabi sabi? È il sollievo che deriva dal sapere che niente è mai permanente, perfetto o completo. Quando sbaglio, è un contrattempo, non una condanna a vita. Se faccio un errore, posso correggermi, oppure farò meglio la prossima volta. Ovunque io sia durante il mio percorso di apprendimento, sono ancora in viaggio, non sono arrivata in fondo alla linea del grafico, e posso rilassarmi nella consapevolezza che non devo sapere tutto, il che mi rende curiosa di ciò che ancora mi rimane da imparare.
C’è sempre la possibilità di una flessione nel grafico, così come c’è la possibilità di un assestamento o di un’impennata. Dipende soltanto da noi, dal nostro atteggiamento, dall’energia e dall’attenzione. E non vale soltanto per acquisire una competenza. Vale anche quando si tratta di imparare in ambito finanziario, in quello genitoriale, o anche in amore. Perfino riguardo a noi stessi. Niente è finito, completo, perfetto. C’è sempre da imparare.
Nel corso della mia ricerca, una delle principali questioni con cui ho dovuto lottare era come conciliare il concetto di imperfezione ispirato al wabi sabi con l’ampiamente documentata avversione per il fallimento pubblico in Giappone. Se un’azienda fallisce, l’amministratore delegato di solito se ne assume personalmente la responsabilità. La crisi economica degli anni Novanta in Asia ha trascinato con sé, come per un effetto domino, alcune tra le figure più importanti della nazione. E non si tratta solo di chi è sotto i riflettori: ogni anno, quasi tutti gli studenti passano ore a frequentare il juku dopo le lezioni (doposcuola) per prepararsi agli esami della scuola superiore e a quelli per accedere all’università, per non farsi sfuggire un’occasione preziosa. Ai giapponesi più che a chiunque altro dispiace fallire, e c’è tuttora una stigmatizzazione sociale legata al «perdere la faccia» quando le cose non funzionano.
Quello che sono giunta a comprendere è che reinquadrare il fallimento non significa imparare ad amarlo, o magari ad accoglierlo di buon grado. Significa fare del proprio meglio per non fallire (perché vi importa di quello che state facendo), ma se il fallimento si verifica ugualmente, imparerete a gestirlo in un modo che vi aiuterà ad andare avanti.
Nel podcast Disrupting Japan, un’intervista a Hiroshi Nagashima, fondatore dell’azienda fallita Sharebu Kids, lo illustra brillantemente.60 Nella sua introduzione il conduttore, Tim Romero, un veterano delle start-up in Giappone, ha dichiarato: «Il fallimento fa male. Il fallimento implica solitudine. Persone che consideravate come veri amici smettono di ricambiare le vostre telefonate. Nel fallimento si può vedere il peggio assoluto e a volte il meglio assoluto sia in voi sia in chi vi sta attorno».
Quando l’ospite di Tim, il signor Nagashima, dovette affrontare il fallimento della sua azienda, la sua cerchia di investitori, amici e familiari fu in realtà più comprensiva e solidale di quanto lui si aspettasse. La parte più difficile fu all’inizio, quando lui non faceva che biasimare se stesso. Tuttavia, alla fine, il signor Nagashima aveva un’idea precisa di quello che avrebbe fatto potendo tornare indietro e riuscì a usare la sua esperienza per aggiudicarsi un posto sicuro in un’altra azienda. Dichiarò che l’esperienza del fallimento, per quanto difficile al momento, l’aveva fortificato come persona, rendendolo determinato, cambiando la sua prospettiva e aiutandolo a preoccuparsi meno delle cose che non erano veramente importanti.
Per reinquadrare il fallimento, dobbiamo innanzitutto reinquadrare il successo. Quando ci prefiggiamo un singolo scopo e facciamo dipendere il nostro valore come persone dal raggiungerlo o no, anche se molti fattori concomitanti sfuggono al nostro controllo, l’insuccesso può essere doloroso. Il singolo scopo rientra nella nostra idea di perfezione. «Se soltanto ottenessi X, diventassi Y, realizzassi Z... mi sentirei felice.»
Invece, se trasformiamo la nostra concezione del successo pensando a come vorremmo sentirci, e a come vorremmo sperimentare la vita, tutto può cambiare. Esamineremo questo argomento nel Capitolo 7, ma per il momento vediamo che cosa possiamo imparare dal fallimento quando lo affrontiamo con una concezione del mondo ispirata al wabi sabi.
1. Non è necessario amare il fallimento per trarne degli insegnamenti. Sul fallimento si costruisce la nostra capacità di ripresa, che ci aiuta a crescere anche in altri ambiti. E se smettiamo di perseguire la perfezione, probabilmente non considereremo nemmeno più il fallimento come tale.
2. La sensazione di aver fallito non è destinata a durare in eterno. Niente è per sempre. Ogni giorno è l’opportunità di un nuovo inizio.
3. Tutto è mutevole. Forse questo è il momento di fermarsi, voltarsi e perseguire qualcos’altro.
Quando tentiamo la sorte in un ambito più grande e non funziona, non si tratta di un fallimento, ma di un momento di espansione.
La competizione di per sé non è un male, perché ci incoraggia a sfidare noi stessi e a migliorare le nostre capacità. Il problema si pone quando cerchiamo di perseguire la perfezione in un mondo dove troppe cose sfuggono al nostro controllo. Il nostro rischio di fallimento è correlato alle dimensioni dell’ambito nel quale ci misuriamo. Se l’ambito è limitato, chiunque può vincere qualsiasi cosa. L’opportunità di crescita risiede nel suo ampliamento, e questo inevitabilmente significa che certe volte non vinceremo. Ma se la consideriamo fin dall’inizio per quello che è, ossia una possibilità di espandere la nostra comfort zone e aprire il nostro cuore a un’esperienza perfino più grande, allora ci rendiamo conto che è un dono.
Da interprete, mi sono trovata a fianco di numerosi atleti internazionali che hanno mancato i loro obiettivi sulla scena mondiale, ma anche di altri che invece hanno vinto medaglie olimpiche. Comprendo l’abisso emotivo tra vincere e perdere. Ho provato in prima persona la delusione profonda subito dopo aver mancato un traguardo per il quale avevo sacrificato tanto lungo il percorso. Ma senza eccezioni, coloro che vanno avanti ponendosi scopi ancora più grandi sono quelli che capiscono una cosa di fondo: l’importante è ciò che accade dopo.
Lo stesso vale quando si tratta di girare un film, di preparare una torta, di rendimenti scolastici: vale, insomma, in qualsiasi arena decidiamo di perseguire uno specifico sogno. Quando percepiamo un fallimento, abbiamo sempre, in qualsiasi momento, la possibilità di scegliere come utilizzarlo e come andare avanti.
Siate ambiziosi. Abbiate talento. Siate sorprendenti. Perseguite sogni che vi ispirino e compiacetevi dei progressi lungo il cammino. Ma non inseguite la perfezione elusiva indotta dall’ego. Rilassatevi invece nella consapevolezza che la perfezione è un obiettivo irraggiungibile. È la crescita che conta.
La mia conoscenza del Giappone mi ha procurato, nel corso degli anni, alcuni lavori insoliti: probabilmente il più strano è stato quello di interprete per un nuotatore di lunga distanza che voleva attraversare la Manica in meno di quindici ore. Ken Igarashi è un coltivatore di riso originario della città costiera di Tsuruoka. Appassionato di nuoto fin dai tempi della scuola, finì per accantonare il suo sport preferito a causa del lavoro e della vita familiare. A vent’anni si dedicò al sollevamento pesi, e quell’allenamento gli servì quando tornò al nuoto di lunga distanza verso i trentacinque anni.
Quando lo conobbi, una decina d’anni dopo, era già il primo nuotatore giapponese ad aver percorso lo stretto di Tsugaru, il tratto d’acqua tra Honshū e Hokkaidō, che collega il Mar del Giappone con l’Oceano Pacifico. Giunse a Dover con il suo allenatore, e tutti e tre alloggiavamo in un grazioso B&B, circondato dai gridi dei gabbiani. Le regole per tentare una traversata a nuoto della Manica, dall’Inghilterra alla Francia, sono rigide, anche perché si tratta di un’importante rotta di navigazione. Avevamo una finestra temporale precisa per il nuoto, e un giudice indipendente accompagnava l’allenatore e me su una pilotina a fianco di Ken. Potevamo lanciargli bevande e cibo legati a una corda sottile, ma se la corda si tendeva il tentativo era da considerarsi fallito. Se il nuotatore era colpito dai crampi, veniva punto da una medusa o era vittima di qualcos’altro lungo il percorso, non eravamo autorizzati a offrire assistenza fisica di qualsivoglia genere a quell’uomo coperto di vaselina e in costume che nuotava accanto alla nostra barca.
Il giorno stabilito per la prova mi svegliai verso le tre del mattino, consumai un panino al formaggio e mi recai nell’atrio per incontrare Ken e il suo allenatore. Rimasi sconcertata vedendo Ken intontito e barcollante. Si scoprì che gli effetti collaterali dei sonniferi assunti la sera prima per smaltire più velocemente il jet lag erano stati potenziati da una generosa dose di whisky: se fosse stato un giorno qualunque, gli avrebbero consigliato di tornarsene a letto. Io non volevo che entrasse in acqua al buio in quello stato, ma lui insistette nel dire che quella era l’unica occasione che aveva. Alla fine, la decisione spettava al suo allenatore, il quale, dopo un accurato esame, gli diede il via libera.
L’inizio non fu dei più felici. La prova incomincia nel preciso istante in cui ci si stacca da riva a Dover, e l’orologio stava già ticchettando quando curiosamente, a poche centinaia di metri, Ken si mise a nuotare di nuovo verso l’Inghilterra. Il giudice appariva comprensibilmente preoccupato di fronte a quella perdita di orientamento. L’allenatore gridava istruzioni esortandolo a tornare verso la Francia, e finalmente partimmo.
Lo shock del freddo e la consapevolezza del suo errore lo svegliarono completamente, e da quel momento Ken diede prova di perseveranza per ore. Ma quella cantonata iniziale alla fine gli costò cara. Vicino a Calais c’è una punta che si allunga nel mare più di qualsiasi altra parte della costa. Se si è abbastanza veloci da raggiungerla, si può ridurre sensibilmente il tempo finale. Per sfortuna Ken mancò l’attimo propizio e, dati gli effetti della marea, si ritrovò a dover nuotare due ore in più.
Quando risalì sulla barca, esausto e infreddolito ma felice perché aveva raggiunto la Francia, fu intervistato dalla NHK, l’emittente nazionale giapponese, tramite il telefono satellitare. Quando gli chiesero della sua impresa, Ken rispose: «Ishokenmei ganbarimashita. (Ce l’ho messa tutta).»
A essere rigorosi Ken, impiegando sedici ore e quarantadue minuti, aveva mancato il suo traguardo delle quindici ore. Tuttavia, aveva nuotato nella Manica, era stata un’impresa grandiosa: finì dunque per concentrarsi su quello che aveva realizzato e si sentì fiero di aver dato il meglio di sé e di aver portato a termine la sua prima traversata di importanza internazionale. Sicuramente ne trasse anche un prezioso insegnamento per le prove future.
Quell’atteggiamento lo condusse lontano. Ken Igarashi, il cui cognome significa «Cinquanta Tempeste» fu il primo giapponese che nuotò dal Giappone alla Corea, dal Giappone alla Russia e giunse dalla parte opposta del lago Baikal.
Dieci modi per coltivare
la resilienza
1. Incrementate la vitalità fisica, con l’esercizio, l’alimentazione e il riposo.
2. Potenziate la vitalità mentale con il silenzio, sonno a sufficienza e tempo trascorso in mezzo alla natura.
3. Esercitatevi ad affrontare piccole imprese, per poter affrontare meglio quelle più grandi.
4. Prefiggetevi una serie di piccoli traguardi e datevi da fare per raggiungerli.
5. Coltivate qualcosa. Prestate attenzione alla differenza che fanno le vostre cure.
6. Prendete regolarmente appunti sulle cose che riuscite a fare bene, per ricordarvi che ne siete capaci.
7. Cercate di inserirvi nella comunità e costruite una rete di supporto.
8. Individuate modelli di capacità di resistenza e traetene degli insegnamenti.
9. Circondatevi di citazioni che siano fonte di ispirazione.
10. Trovate dei buoni motivi per essere positivi tutti i giorni.
Lo so che è difficile. Il genere di fallimento che si trasforma in rimpianto e in autolesionismo è pesante. Ah, quel lavoro che non avete ottenuto. Che peccato aver gettato via tanti anni in quella relazione con una persona che vi ha distrutto dentro. Tutti gli editori che si sono rifiutati di pubblicare il vostro libro... Quel progetto a cui avete aderito senza un contratto, che poi è andato a rotoli! E quella volta che avete detto sì, ben sapendo, in cuor vostro, che sarebbe stato meglio un no? Accidenti.
Non voglio certo dire che il fallimento sia facile, ma se non altro si può scegliere come usarlo. Se vi ostinate a trattenerlo nell’ambito del rimpianto e dell’autolesionismo morale, riuscirete soltanto a renderlo ancora più cupo e pesante. Dato che tutto è suscettibile di cambiamento, provate a trasformarlo in una lezione. Per quanto difficile possa sembrare, avete facoltà di compiere quella scelta in qualsiasi momento. Concentratevi su cosa cambierebbe sviscerando il possibile insegnamento.
Quando, per il mio lavoro, aiuto le persone a passare da una professione all’altra, da uno stile di vita all’altro e anche da una fase di vita all’altra, immancabilmente incontro una resistenza all’essere un principiante, perché la paura di fallire è più forte di tutto il resto. Iniziando qualcosa di nuovo, il rischio di sbagliare durante il percorso è decisamente elevato.
È senza dubbio difficile per la mente, e anche per l’ego. Ecco perché tanti seguono per anni una via che li rende infelici nel presente: per evitare il rischio di un errore che li renderebbe infelici in futuro. Succede, in particolare, a chi vorrebbe passare a uno stile di vita più anticonformista, oppure guadagnarsi da vivere con una professione creativa. Il rischio è troppo elevato, la paura di fallire troppo grande, gli echi degli insegnanti d’arte e di altri critici del passato risuonano ancora troppo forti nelle orecchie. Ma c’è qualcosa di cui queste persone non si rendono conto: sbagliare nel corso del proprio cammino è una forma di progresso. Ogni volta che lo fate, vi costruite un bagaglio di saggezza interiore, a cui attingere la prossima volta che ne avrete bisogno. Il «fallimento» non è necessariamente la fine della storia. Potrebbe essere l’inizio di un nuovo capitolo, ma soltanto se accettate l’imperfezione, se siete compassionevoli nei confronti di voi stessi e se decidete di proseguire nonostante tutto.
Dobbiamo smettere di ripeterci che tutti ci osservano in attesa di vederci fallire.
Non è vero.
Seduta a gambe incrociate su un piccolo cuscino in un tempio a Kyōto, sto sbagliando tutto. Dovrei meditare, e invece penso soltanto al formicolio alle gambe, al rumore frusciante di quando cerco di mettermi più comoda, alle voci nella mente che mi dicono che tutti mi guardano con disapprovazione perché li distraggo. Non riesco a trattenermi dal dare un’occhiata in giro. Ovviamente, nessuno mi guarda. A nessuno importa quello che faccio, o se mi comporto «correttamente». Sono tutti troppo impegnati a badare ai fatti loro.
Sono soltanto io che mi giudico e mi dico che ho fallito prima ancora di aver pensato seriamente a cosa significa il «successo» nella meditazione. Quando finalmente mi libero dell’attitudine giudicante, riesco a rilassarmi nel momento presente e nella postura, dimenticando la scomodità delle mie caviglie che premono contro il pavimento e abbandonandomi al delicato suono di un campanello, all’odore di pulito del tatami, al fruscio del giardiniere intento a rastrellare il giardino, alla consapevolezza che sto vivendo un’avventura e che ho scelto io di stare qui oggi.
Sei fasi per imparare senza stress
dal fallimento
Usate le sei fasi elencate qui sotto per esaminare un particolare evento o situazione che considerate come un «fallimento».
1. Verità Enunciate i fatti riguardanti l’accaduto.
2. Umiltà Fate chiarezza su chi state incolpando e sul ruolo che invece avete avuto voi.
3. Semplicità Individuate l’insegnamento più importante che potete trarre da questa situazione.
4. Transitorietà Identificate la vostra perdita, il vostro guadagno e quello che è cambiato dentro di voi.
5. Imperfezione Riconoscete l’imperfezione, in voi stessi o in qualcun altro, che dovete perdonare o accogliere per proseguire, e rammentate a voi stessi che è proprio l’imperfezione a rendervi umani.
6. Incompletezza Rendetevi conto che non finisce qui. Decidete cosa farete dopo.
Per fare un buon lavoro dal punto di vista creativo, dobbiamo essere il più possibile aperti e sinceri. È allora che i risultati della nostra creatività determinano un profondo collegamento con gli altri, esprimendo cose che non potremmo mai dire in una conversazione. Ma condividere ciò che abbiamo nel profondo può farci sentire vulnerabili, esposti, spaventati: e se poi questo attira le critiche, il ridicolo o anche il rifiuto? Ci sentiremmo come se noi venissimo criticati, considerati ridicoli e perfino respinti. Non c’è dunque da stupirsi se nel mio lavoro di sostegno a chi vuole costruirsi una carriera creativa questo accade ripetutamente.
La paura del fallimento è uno dei principali ostacoli che incontrate quando provate a fare quello che vi piace. E qui si inserisce una delle più importanti lezioni del wabi sabi che, in quanto risposta istintiva alla bellezza che rispecchia la vera natura della vita, può configurarsi come la reazione altrui alla bellezza della vostra creatività, che proviene dalla vostra natura più intima. Questo significa che occorre condividere la creatività perché tutti possano effettivamente coglierne la bellezza.
A tutti coloro che nascondono la propria espressione creativa per paura del fallimento, sfugge il nocciolo della questione. La bellezza autentica non risiede nel compimento di un qualche genere di perfezione, ma nella condivisione della creazione stessa.
Ovviamente, ai giorni nostri esistono diverse misure di «successo», a seconda del metodo di misurazione prescelto. Siete riusciti a capitalizzare la vostra collezione di pezzi artistici? Il vostro libro ha scalato la classifica dei bestseller? Centinaia di follower su Instagram hanno sottoscritto il vostro post più recente? Queste cose contano nella misura in cui vi aiutano a guadagnarvi la vita, lasciandovi più tempo per coltivare la vostra creatività: approfondiremo questo argomento nel Capitolo 7. Ma questo metro di giudizio non conta niente in termini di bellezza che state creando insieme a coloro che contemplano la vostra opera. L’unico fallimento sarebbe evitare di creare.
Non è facile gestire la paura di sbagliare in un ambito tanto personale come la creatività, ma provate a reinquadrare quella paura usandola come un indicatore di ciò che realmente conta per voi, e fate ugualmente un tentativo.
È una tiepida mattina di primavera, e sto passeggiando a Nishijin, il quartiere dei tessitori a Kyōto da più di 1500 anni, situato a due passi dall’appartamento che ho preso in affitto per sei mesi insieme al signor K, il mio attuale marito. Nishijin è una zona affascinante della città, dove è possibile vedere gli artigiani all’opera, non a beneficio dei turisti, ma semplicemente perché stanno svolgendo il loro lavoro, come numerose generazioni di gente talentuosa hanno fatto prima di loro. Un edificio in particolare cattura la mia attenzione. È un capannone in legno dotato di un ampio ingresso accogliente, schermato dalla tradizionale tenda noren per segnalare che è aperto al pubblico. Incuriosita, vado a dare una sbirciata dentro.
Varcando la porta scorrevole, rimango senza fiato. È un laboratorio di trecento metri quadrati, a tripla altezza e dotato di soffitto a volta. Fiancheggiato su entrambi i lati da alcuni tra i più bei kimono che io abbia mai visto, lo spazio centrale è vuoto, a parte due tavoli bassi, carta da disegno e un portapenne.
Scopro che l’edificio è il laboratorio di Kyōji Miura, un pluripremiato creatore di lussuosi kimono per geishe e clienti dell’alta sartoria. Ha anche una linea di tende noren, come quella che mi ha indicato l’entrata, e improvvisamente sento il desiderio di sapere come si confezionano queste cose.
Lancio un saluto cortese nel vasto spazio, e un uomo dall’aspetto gentile, con lunghi capelli argentei raccolti in un codino, esce con calma da una stanzetta d’angolo sul retro. Mi scuso per l’interruzione, ma domando se è possibile dare un’occhiata più da vicino al suo splendido lavoro. Un po’ sconcertato da questa straniera capitata lì per caso passeggiando per la via, annuisce e mi fa cenno di seguirlo.
Prendiamo insieme una tazza di tè verde, io gli rivolgo una raffica di domande sulla sua attività di disegnatore di kimono, poi finalmente raccolgo il coraggio per chiedergli se mi insegnerebbe a realizzare una noren.
«Ehm, io non insegno» risponde con un certo imbarazzo. «Mi limito a progettare.»
«Ah, capisco» ribatto, e rimango in attesa.
«Ma forse posso esserle utile in qualche modo. Se lo desidera, torni domani con uno schizzo di quello che le piacerebbe fare, e vedrò di pensarci sopra.»
Torno a casa di corsa e abbozzo quasi freneticamente un modello, usando carta washi e un bastoncino. Quando, il giorno dopo, mi vede ritornare lui sembra sorpreso, e lo è ancora di più quando pesco il progetto dal mio zaino.
«Mmm. Interessante. Niente male» commenta, spostando lo sguardo dallo schizzo a me e viceversa.
Ed ecco che inizia il mio apprendistato. Passo molte giornate nel suo studio, via via che si procede a disegnare e a coprire, tingere e lasciar asciugare, allungare e lavare.
Spesso, durante il processo di apprendimento, mi sento sopraffatta dall’enormità di quello che tento di imparare in un tempo relativamente breve. Lui è un maestro dagli standard particolarmente elevati, mentre io sono una principiante senza idee. Eppure Miura-sensei mi esorta più volte a concentrarmi sulla mia impresa. Devo continuare a presentarmi nel suo studio, provare e vedere cosa succede. Mi insegna a prestare attenzione ai dettagli e ad ascoltare le istruzioni, ma anche a usare il mio istinto. Dopo tutto, è il mio progetto. Nella mente di questo particolare maestro, non ci sono errori, ma solo interessanti esperimenti creativi.
Nello studio di Miura-sensei, quando finalmente tagliamo il lungo pezzo di lino tinto a mano in tre pannelli, li cuciamo insieme e li appendiamo sopra una struttura di bambù, penso che il mio cuore rischia di esplodere. La tintura presenta alcune irregolarità, qui e là si vedono delle righe ondeggianti, e c’è una lieve asimmetria nell’allineamento dei pannelli. Ma per me, la mia prima noren è perfettamente imperfetta, ed è preziosa come un tesoro.
La tenda, che ora è appesa in casa mia, raffigura una luna argentea su uno sfondo color indaco, e le sagome di due uccelli. La coppia di uccelli rappresenta la possibilità, il sostegno e la libertà. Non è forse proprio a questo che lasciamo spazio quando superiamo la paura di un fallimento creativo?
Cinque modi per costruire
la fiducia creativa
Usate questi suggerimenti per costruire la fiducia creativa, e continuate a diffondere il vostro lavoro nel mondo. Se lo farete, non potrete mai fallire in niente.
1. Dimenticate l’etichetta (artista, scrittore ecc.) e impegnatevi soltanto a creare.
2. Dedicate la vostra attenzione al procedimento, non al risultato finale.
3. Se una cosa non funziona, provate qualcos’altro (un nuovo mezzo, materiale, insegnante, punto di vista).
4. La responsabilità è vostra soltanto per metà. Mostratevi disponibili e vedrete che l’universo verrà in vostro aiuto.
5. Non procedete da soli. Trovate un gruppo di altre persone che abbiano le vostre stesse preferenze e aiutatevi tra di voi.
Per viaggiare nell’entroterra del Giappone e raggiungere Tōkamachi, nel cuore della campagna coperta di neve di Niigata, ho impiegato cinque ore, ho preso sei treni, mi sono portata il pranzo in un bento e una scatola di Pocky. Un cordiale tassista mi preleva alla stazione e io gli dedico tutta la mia attenzione perché non riesco a vedere oltre i muri di neve alti tre metri su entrambi i lati della strada. Tra frammenti di storia locale e suggerimenti sulle vicine sorgenti termali, lui mi racconta che la comunità del posto sta sperimentando una nuova varietà di riso. Sono talmente concentrata sulla differenza tra i profili aromatici del koshihikari, la varietà più diffusa in Giappone, e i più recenti marchi del shinnosuke, entrambi prodotti delle vicine risaie, che mi accorgo a stento di essere arrivata a destinazione. Quando accostiamo davanti all’imponente Hikari no Yakata (la Casa della Luce),61 rimango senza fiato.
Come se fluttuasse su una nuvola di neve, un’ampia scala di legno ci conduce a un ingresso imponente, fiancheggiato su entrambi i lati da una panoramica veranda con pilastri a quasi tre metri da terra. Progettata per la Triennale d’Arte Echigo-Tsumari come installazione abitabile e luogo di meditazione, dall’architetto giapponese Daigo Ishii e dall’americano James Turrell, artista delle luci, la Casa della Luce è uno studio sulle dimensioni nascoste della luce come esperienza.
La casa è costruita in un elegante stile sukiya,62 con tetti a padiglione caratterizzati da falde leggermente spioventi.63 All’interno, le stanze sono dotate di tatami e di yukimi shōji, paraventi di carta che possono essere alzati per consentire la vista della neve dal comodo rifugio del proprio futon. A un primo sguardo, l’edificio appare tradizionale, ma a un esame più accurato rivela raffinate caratteristiche di design che ne fanno un’esperienza di arte interattiva: dalle fibre ottiche nel bagno, all’illuminazione interna soffusa per rievocare la luce delle candele nelle case giapponesi di tanto tempo fa.
La Casa della Luce può accogliere sei persone ma, con mia grande soddisfazione, l’amabile direttore mi saluta annunciandomi che tutti gli altri ospiti hanno disdetto la prenotazione, e io ho l’intero spazio a disposizione. È un’occasione unica.
Verso la fine del pomeriggio un cuoco locale consegna un pasto cucinato al momento, che consiste in dieci portate diverse. Mentre spiega ciascun elemento alla volta, non posso fare a meno di pensare che è un lusso quasi eccessivo, per me, cenando da sola.
La stanza che scelgo per mangiare e dormire è diversa da tutte le altre. Nel soffitto bianco è stata ricavata un’immensa apertura quadrata. Premendo un tasto, l’intero tetto scorre all’indietro rivelando il cielo.
Poco prima del tramonto, inizia uno spettacolo di luci. L’area che circonda l’apertura nel soffitto sfuma lentamente prima in un colore e poi in un altro. Fuori dalla finestra scorgo la neve e le montagne e il crepuscolo grigio-azzurro; ma sopra di me, la luce rosa che inquadra l’apertura ha reso ceruleo il cielo.
Tenendo in mano le bacchette, faccio un tacito inchino a nessuno in particolare. Le prime cose da assaggiare sono il niimono cotto a fuoco lento, una ciotola di germogli di bambù, radice di taro, funghi enoki e spigola. Poi, mentre il cielo diventa verde stagliandosi contro la cornice di luce color ciliegia chiaro, arrivano germogli di farfaraccio in miso dolce, e ricciola in salsa teriyaki allo zenzero.
Adesso una pallida luce color indaco si proietta sul soffitto, e il cielo appare giallo, specchiandosi nella mia omelette arrotolata, servita con punte di felce e salmone. La pietanza seguente è una zuppa di sogliola, sotto un cielo che si è illuminato di azzurro contro una struttura di luce che sembra zucchero filato. Poi tōfu saltato con carote, mentre il rosa risplende e il cielo vira a un blu di Persia.
La volta celeste cambia solo lievemente mentre cala la notte, ma il contrasto con la struttura mutevole è straordinario. La luce bianca si dirige verso un cielo color melanzana, rispecchiando il tempura di merlano e melanzana sul mio piatto. Ad accompagnare il riso e una zuppa di miso chiara, ecco una nuova sfumatura di luce rosata, che dà vita a un cielo verde brillante. Poi, mentre il pasto si conclude con un vellutato budino al latte, una piacevole spruzzata di arancione regala al cielo una sfumatura turchese.
Verso la fine dello spettacolo di luci, saziato l’appetito, sgombero il tavolo e mi sistemo nel mio futon sul pavimento coperto di tatami. La luce sul soffitto ritorna di un bianco innocente, rendendo il cielo color indaco. La luna c’è stata tutto il tempo. La notte si avvinghia ai margini dell’apertura nel soffitto. Proprio in quel momento, alzando gli occhi al cielo infinito dalle profondità del mio futon, che tiene al caldo il mio corpo mentre sento l’aria fredda della notte sul volto, vedo che inizia a nevicare. Dentro la stanza.
Vera neve che cade dentro una vera stanza. Il fuori è dentro. Il dentro è fuori. So che sarebbe meglio chiudere il tetto, ma mi sento immobilizzata dal pensiero che l’arte ha reso possibile l’impossibile. Che noi percepiamo e crediamo che le cose debbano avvenire in un certo modo, finché ci rendiamo conto che non è vero. Che tutto è possibile date le giuste condizioni. Di conseguenza mi domando: In quali altri modi poniamo dei limiti a noi stessi? Che altro sarebbe possibile se smettessimo di raccontarci l’esatto contrario?
Ogni volta che il bordo passa da un colore a un altro, anche il quadrato di cielo all’interno si trasforma. Quando restiamo bloccati, è come se vedessimo soltanto una versione del cielo. Ci dimentichiamo che siamo in grado di vedere molte versioni diverse, se soltanto cambiamo la cornice. Quando sbagliamo, non dovremmo negare il fallimento o allontanarcene precipitosamente, ma dovremmo invece riconoscere che possiamo trasformare la nostra concezione dell’accaduto. Stiamo forse incorniciandola di storie cupe, appesantite dal rimpianto e dal giudizio? Dalla vergogna e dall’imbarazzo? Dalla delusione e dalla disperazione? Oppure vogliamo darle una cornice più leggera, considerandola un’opportunità di imparare e crescere con coraggio e chiarezza, o come una chiave per ripensarci e magari cambiare direzione? O semplicemente come un modo discreto per ricordarci che siamo umani, e che come tali possiamo sbagliare? Riduzione o crescita? Colpa o possibilità? Rimpianto oppure occasione per imparare? Quello che vediamo è diverso, a seconda di come lo incorniciamo. E questo cambia tutto.
Sono persa in questi pensieri quando improvvisamente tutto diventa nero. La cornice di luce è scomparsa. Tutt’a un tratto mi sento risucchiata nell’immenso cielo, quasi come se stessi cadendo verso l’alto, poi la notte mi avvolge con il suo manto.
La mattina dopo, mi sveglio nel silenzio. La casa è circondata da metri di neve e non si vede un’anima. Mi sono addormentata guardando il paesino laggiù, con le luci che brillavano nella notte, ma poi è calata la nebbia e adesso non riesco a vedere oltre gli alberi. Fuori ci sono infinite tonalità di bianco e grigio.
Mi preparo dei toast al formaggio sulla griglia per il pesce, e il tè in una teiera trasparente. Poi rimango seduta un po’ più a lungo, conscia di qualcosa che mi attende nello spazio tra quello che ho visto e quello che ho compreso. Vorrei capire cos’è, e mi metto in ascolto. Mi viene in mente di aver fotografato il cielo attraverso l’apertura nel soffitto con la mia macchina fotografica digitale e il mio iPhone. Mi domando come siano venute quelle foto, e vado a dare un’occhiata. I risultati sono sorprendenti.
Con la mia reflex digitale il cielo è quasi dello stesso colore in ogni foto, fatta eccezione per un lieve e progressivo rabbuiarsi, come è naturale che sia quando cala l’oscurità. Ma le foto scattate con l’iPhone sono diverse, il cielo cambia colore a ogni cambio di cornice, nello stesso modo in cui il mio cervello me l’ha presentato.
Lo stesso cielo appare diverso attraverso lenti diverse. È questa la lezione finale che la Casa della Luce ha in serbo per me: la nostra percezione dei problemi non dipende soltanto da come li incorniciamo, ma anche dalle lenti attraverso le quali li osserviamo. Si può guardare con le lenti del giudizio o con le lenti della grazia, ed è questo a stabilire quale peso emotivo lasciamo assumere al «fallimento».
La bellezza sabi di cui abbiamo parlato nel Capitolo 1 non può essere creata dalla mano umana. Analogamente, le lezioni che impariamo dal fallimento non sono lezioni create dalla nostra volontà. Il fallimento accade, e ci sono diversi modi di gestirlo, nessuno dei quali contempla il vostro giudicare voi stessi dei falliti. Che cosa sperimentate e imparate dal fallimento dipende totalmente dalla cornice e dalle lenti che avete scelto.
Forse non è una coincidenza che io l’abbia imparato dentro una struttura nata dalla collaborazione tra un architetto giapponese e un artista occidentale. Osservare le altre culture, per poi ritornare alla nostra, può rivelarsi prezioso. Rendersi conto che non esiste un solo modo di considerare il mondo, significa poter scegliere tra alcune opzioni:
• Inquadrare e reinquadrare
• Grazia e non colpa
• Cadere su. Non cadere giù.
• Quando si impara, niente è «completo» o «perfetto». Si impara e basta.
• Il fallimento è soltanto un momento di espansione. Fallire mentre si procede per la propria strada è un progresso.
• Reinquadrare il fallimento trasforma il nostro modo di sperimentarlo.
Pensate a una circostanza in cui avete sbagliato qualcosa. Collegandovi a «Sei fasi per imparare senza stress dal fallimento» a p. 156, prendete qualche appunto in risposta alle seguenti domande:
• Cos’è accaduto?
• Perché l’avete considerato un fallimento?
• Come vi siete sentiti?
• A quell’epoca eravate sufficientemente preparati?
• Quali fattori esterni entravano in gioco?
• Avete ascoltato il vostro intuito? Che cosa vi diceva?
• Di fronte alla stessa situazione in futuro, che cosa fareste diversamente?
• Come potreste riconsiderare questo fallimento in un’ottica di crescita o con un atteggiamento più indulgente?
• Che cos’è cambiato come risultato di questa esperienza?
• Che cosa dovete fare adesso, per andare avanti?
Riflettete sulle vostre risposte e prendete appunti iniziando con:
«Grazie a [inserite i dettagli dell’evento], io adesso...»