I

«Vincete le guerre con i soldati degli altri»

Una guerra all’italiana

Brutta storia quando gli alleati non si fidano di te. Il principe Otto von Bismarck non si fidava dei russi «perché un russo non si fida nemmeno di se stesso». Ma non si fidava nemmeno degli italiani. Gli era andata di traverso l’alleanza con noi nella terza guerra d’indipendenza. E non aveva torto. Allora come oggi eravamo forti nelle singole personalità (chi aveva un Cavour? chi un Garibaldi?), ma eravamo e siamo rimasti debolissimi come squadra. In tutta Europa girava la storia che gli italiani stavano facendo l’Italia con i soldati degli altri. Noi mettevamo gli eroi, gli altri gli eserciti e i generali, visto che i nostri erano un disastro. Eravamo talmente brocchi da trasformare in sconfitte le mezze vittorie e in rotte le mezze sconfitte.

Si prenda Carlo Alberto, che a scuola abbiamo ammirato come il re che ha posto la prima pietra dell’unità nazionale. Mentre l’Italia ribolliva dagli Stati pontifici a Palermo, dalla Toscana a Napoli, da Milano a Venezia, e il popolo dichiarava la propria annessione al Piemonte, nel 1848 capì finalmente che senza una vittoria militare contro l’Austria tanto entusiasmo sarebbe rimasto lettera morta. Si batté, dunque, con valore contro il maresciallo Johann Radetzky, ma al momento di dargli la legnata finale dopo la presa di Peschiera, proclamò: «Per oggi basta». Pioveva e si fermò, consentendo a Radetzky di aspettare i rinforzi.

Se Carlo Alberto fosse stato più deciso, avrebbe approfittato delle rivolte nell’impero austriaco per farsi regalare la Lombardia attraverso un referendum dall’esito scontato e congelare la morsa imperiale su Venezia. Ma non lo fu. Diede il tempo agli austriaci di riorganizzarsi e di batterci a Custoza (1848): una sconfitta, ricorda Indro Montanelli in L’Italia del Risorgimento, che non era affatto definitiva, ma che lo diventò grazie al comportamento rinunciatario dei piemontesi, che abbandonarono le loro posizioni senza tentare ulteriori resistenze. Così, sia la Lombardia sia il Veneto restarono austriaci. Venezia era disperata, Milano furibonda: Carlo Alberto, che si trovava in città, dovette abbandonarla di nascosto e di notte per sottrarsi alla furia popolare.

Ma la sconfitta di Custoza che indispose parecchio Bismarck nei confronti dell’Italia la subimmo nel 1866, nella terza guerra d’indipendenza. Nella seconda (1859), gli austriaci erano stati battuti dai francesi di Napoleone III a Solferino e dai piemontesi a San Martino, senza peraltro che né gli uni né gli altri inseguissero il nemico per assestargli un colpo ancor più duro. Si disse che Napoleone sarebbe rimasto sconvolto dalle migliaia di suoi soldati uccisi negli scontri e si affrettò a sottoscrivere con Francesco Giuseppe la pace a Villafranca, ignorando le aspirazioni italiane e provocando le amarissime dimissioni di Cavour. Poiché l’Austria considerava la Francia – e non il Piemonte – la vincitrice della guerra, consegnò la Lombardia a Napoleone, il quale la girò a Vittorio Emanuele II come fosse un assegno bancario. Era il luglio 1859. Nei due anni successivi pagammo con la cessione di Nizza e della Savoia il benestare della Francia all’annessione al Piemonte – via plebiscito – dei ducati della Toscana e dell’Emilia, oltre che delle legazioni pontificie dell’Adriatico. Garibaldi fece il resto, e con l’unica, spettacolare campagna interamente italiana consegnò a Vittorio Emanuele il Meridione, consentendogli di proclamare nel 1861 l’unità nazionale. Unità per modo di dire, visto che – oltre a Roma, dove Pio IX si era asserragliato protetto dai francesi – restava da conquistare tutto il Nordest, a cominciare dal Veneto.

E qui veniamo alla terza guerra d’indipendenza e alla sconfitta di Custoza, che sarebbe rimasta un pessimo ricordo per i tedeschi fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Nel Principe Niccolò Machiavelli afferma che «nelle azioni si guarda al fine [la vittoria] e i mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati». Fedeli a tale massima, gli italiani nelle situazioni decisive – come vedremo in questo libro – hanno tenuto sempre i piedi in due scarpe. Puntando a ottenere Veneto e Trentino, nel 1865 trattarono segretamente sia con l’Austria sia con la Prussia, che allora erano nemiche per il fatto di contendersi la supremazia dell’area tedesca. («Dissi a Napoleone» raccontò Costantino Nigra, ambasciatore a Parigi, «che per l’Italia era indifferente legarsi con l’una o l’altra delle potenze in contrasto, purché Venezia fosse liberata dal dominio straniero.») Napoleone teneva per la Prussia e i prussiani avevano fretta di sbrigare la faccenda. Quando chiesero ad Alfonso La Marmora – che purtroppo univa le cariche di presidente del Consiglio e di generale (pessima accoppiata, come confermerà più tardi Pietro Badoglio) – se potevano contare sull’Italia in caso di guerra con l’Austria, il nostro prese tempo e cercò di comprare il Veneto dagli austriaci per una somma – si disse – di 1 miliardo di lire, pari a circa 7600 miliardi del 2001, ultimo anno della lira. Questa tesi di Montanelli (L’Italia dei notabili) non trova peraltro riscontro in altre fonti, che attribuiscono all’Austria la disponibilità volontaria al sacrificio del Veneto, pur di tenere l’Italia lontana dal fronte (Denis Mack Smith), o a una mediazione di Napoleone III (Luigi Salvatorelli), che voleva recuperare l’amicizia con gli italiani dopo la fregatura della pace di Villafranca (Pierre Milza) o piuttosto rafforzare il protettorato francese sull’Italia.

Non si capisce se si sia irrigidito il giovanissimo Francesco Giuseppe o il più attempato La Marmora, che da presidente del Consiglio aveva alla fine sottoscritto un’alleanza con Bismarck e da generale voleva portarla fino in fondo: non solo per questioni di galateo diplomatico, ma perché riteneva che una bella vittoria militare avrebbe conquistato alla giovane Italia il rispetto del mondo. Purtroppo la guerra scoppiò e il risultato fu esattamente l’opposto.

Napoleone III cambiava idea e umore con una certa frequenza («La disgrazia di Napoleone» dice Nigra «è che in lui c’era un abisso tra il pensare e l’agire…»). Ed era anche un po’ voltagabbana: con metà dell’animo si era riaccostato all’Austria e le prometteva un intervento sull’Italia perché non entrasse in guerra, con l’altra metà non aveva il coraggio di dirlo a La Marmora e anzi sussurrava a Nigra che l’intervento della Francia a fianco di Italia e Prussia avrebbe segnato le sorti del conflitto. Indeciso su tutto, suggerì a Nigra: «Sarebbe utile che l’Italia non facesse la guerra con troppo vigore». Voleva una guerra all’italiana, insomma: con quali scopi non è dato sapere. E la ebbe, grazie allo sconcertante comportamento dei nostri generali, che pure avevano a disposizione fra i 300 e i 400.000 uomini, molti più degli austriaci, che non arrivavano a 200.000.

La disfatta di Custoza, l’onta di Lissa

Poco trasparenti e opportunisti con i loro alleati, gli italiani in guerra lo sono anche tra loro. La Marmora fu inviato da re Vittorio Emanuele sul campo di battaglia con 12 divisioni e 90.000 uomini, rimpiazzato alla presidenza del Consiglio da Bettino Ricasoli. Il generalissimo non solo non si accordò con Helmuth von Moltke, il geniale capo di Stato maggiore dell’esercito prussiano, ma nemmeno con il collega Enrico Cialdini, che comandava 8 divisioni e 60.000 soldati. Quest’ultimo, considerato da molti meridionali più o meno un criminale di guerra («boia di Gaeta» e «fucilatore di inermi contadini» erano alcuni dei suoi epiteti), non aveva alcuna intenzione di prendere ordini dal suo superiore. Così, quando la Prussia – per evitare ripensamenti e voltafaccia italiani – dichiarò guerra all’Austria, La Marmora, che non era un grande condottiero, disperse qua e là le sue truppe e andò con un contingente ridotto all’attacco del villaggio di Custoza, dove invece gli austriaci erano in forze. I nostri lasciarono sul campo 700 uomini, quasi la metà degli austriaci, che però tennero le posizioni, mentre Cialdini non mosse un solo uomo delle sue 8 divisioni. Allora La Marmora ordinò la ritirata, annunciando di aver perso la battaglia. Non era vero: gli austriaci seppero solo dai suoi funerei comunicati di aver vinto. I prussiani, che avevano battuto gli austriaci a Sadowa in una memorabile battaglia, restarono basiti. Scrive con garbo anglosassone Denis Mack Smith nella sua Storia d’Italia: «Il modo con cui Bismarck derise la ritirata dei suoi alleati italiani e i loro comunicati eccessivamente pessimistici non fu del tutto ingiustificato».

L’opinione pubblica era furibonda ed esigeva un immediato riscatto. Persa a tavolino la guerra di terra, dovevamo rifarci sul mare. La nostra flotta, con base ad Ancona, era molto più forte di quella austriaca: 12 corazzate contro 7 e 17 vascelli di legno contro 11. Solo che non era una marina militare, ma un’armata Brancaleone. La flotta nazionale era la somma eterogenea delle diverse flotte regionali, raggruppate sotto un’unica bandiera dopo l’unità d’Italia. (La sola flotta militare degna di questo nome era quella borbonica, ma figuriamoci se i piemontesi avrebbero accettato di farsi comandare da un meridionale.) Si aggiunga che l’ammiraglio che la guidava, Carlo Pellion di Persano, nato a Vercelli, era arrivato a occupare quel posto solo per la sua abilità politica di senatore, ed era quindi isolato e privo della stima dei suoi. Il re gli rimproverava di aver fatto incagliare la nave sulla quale era imbarcato: durante una visita alla Maddalena, per farsi bello l’allora giovane ufficiale prese una scorciatoia e mandò il suo vascello (e il carico regale) a rovinare contro gli scogli. Il ministro della Marina lo detestava e gli aveva imposto un capo di Stato maggiore al quale Persano non rivolgeva la parola. Altri due ammiragli non collaboravano perché avrebbero voluto il suo posto. Senza contare che, come annota Domenico Quirico nel suo Generali, su Persano pesavano, fra le altre, due voci che forse erano qualcosa più di semplici voci: la prima è che non sapesse nuotare e che, perciò, tenesse sempre accanto a sé due provetti marinai pronti a salvarlo in caso di naufragio; la seconda è che non fosse un cuor di leone o – a dirla più benevolmente – che brillasse per eccessiva prudenza, tanto da convincersi di aver perso la battaglia ancor prima di cominciarla. Insomma, un disastro. Inferiore, però, a quello che provocò sul campo.

Persano mosse contro gli austriaci davanti all’isolotto dalmata di Lissa, perdendo in parte la superiorità numerica. Come La Marmora aveva attaccato a Custoza dimenticandosi di Cialdini, Persano si trovò a Lissa senza le navi dei due ammiragli che non lo amavano. Lui non seppe coinvolgerli, gli altri furono ben contenti di non esserlo. Il suo avversario in mare era un quarantenne e già carismatico ammiraglio austriaco, Wilhelm von Tegetthoff, che aveva equipaggi in larga parte veneti e parlava perfettamente il loro dialetto. Dopo un’ora di combattimento, la nave ammiraglia austriaca Ferdinand Maximilian speronò e affondò l’ammiraglia italiana Re d’Italia. Nel momento decisivo, Tegetthoff gridò al suo nocchiero, Vincenzo Vianello da Pellestrina: «Daghe dentro, Nino, che i butemo a fondi!». Quando la disfatta italiana si completò, dalle navi austriache si levò il grido: «Viva San Marco!». E questo la dice lunga sull’ansia dei veneti di essere «ricongiunti alla madre patria». Tant’è che lo scrittore vicentino Guido Piovene avrebbe poi scritto: «Quella di Lissa fu l’ultima grande vittoria della Repubblica di Venezia».

Persano avrebbe potuto riorganizzarsi e tornare all’attacco, ma si dichiarò sconfitto prima del tempo, come La Marmora a Custoza. E così il giovane Tegetthoff poté scrivere nel suo rapporto la memorabile frase: «Uomini di ferro su navi di legno hanno battuto uomini di legno su navi di ferro». Nel 1867 il Senato, costituito in Alta corte di giustizia, dichiarò Persano colpevole di imprevidenza, imperizia e negligenza. Fu destituito e degradato, perse stipendio e pensione (che, italianamente, gli fu restituita di nascosto dal re). Eppure, a Persano è tuttora dedicata almeno una strada. A Vercelli? No, a Palermo…

L’unico che, ancora una volta, si era battuto con valore e con risultati eccellenti era Giuseppe Garibaldi. Uomo di testa, oltre che di mano, concordava con Bismarck nel volere la sollevazione delle popolazioni dalmate: il cancelliere intendeva aprire una ferita nel fianco orientale dell’Austria, il generale dare all’Italia quelle terre italiane e aprire da lì una breccia nel Veneto. L’opinione pubblica nazionale era naturalmente tutta per Garibaldi, ma solo a sentirne il nome ai generali piemontesi veniva l’orticaria. «Per controllare ventimila garibaldini» diceva La Marmora «occorrono quarantamila regolari.» I garibaldini, in realtà, erano 38.000, armati soprattutto del loro coraggio, visto che disponevano di fucili di vecchia generazione.

Per togliersi di torno Garibaldi, La Marmora gli affidò una «missione impossibile»: la conquista del Trentino. Gli accordi con Bismarck prevedevano, infatti, che quella regione sarebbe andata agli italiani soltanto se avessero saputo conquistarsela. L’area era presidiata dai migliori reparti alpini austriaci, ma i garibaldini straccioni e male armati avanzarono contro ogni previsione e, dopo aver vinto la difficile battaglia di Bezzecca, Garibaldi si trovò a dieci chilometri da Trento. Fu lì che lo sorprese la notizia dell’armistizio tra la Prussia e l’Austria, fatto naturalmente all’insaputa degli italiani. E fu lì che gli arrivò il telegramma di La Marmora con l’ordine di abbandonare il Trentino entro quarantott’ore. Di qui il famoso «Obbedisco» («Ho ricevuto il dispaccio nº 1073. Obbedisco»), che provocò un’autentica sollevazione. Scrisse l’infermiera filantropa inglese Jessie White, che seguiva le truppe garibaldine: «Ho visto rompere spade, spezzare baionette, molti gettarsi a terra e ravvoltarsi nelle zolle ancora inzuppate del sangue dei fratelli…» (Garibaldi e i suoi tempi). L’umiliazione italiana toccò l’apice nelle clausole della pace: come era accaduto per la Lombardia regalata a Napoleone III nella seconda guerra d’indipendenza, nella terza l’Austria, sconfitta dall’esercito di Bismarck, donò il Veneto al sovrano francese, che anche questa volta lo girò «graziosamente» all’Italia. Purtroppo, la storia che abbiamo vinto le guerre con i soldati degli altri non è una calunnia, ma ha origini molto antiche.

Se l’Italia fa un giro di valzer con un altro ballerino…

«In un matrimonio fortunato il marito non deve andare su tutte le furie, se una volta tanto sua moglie fa un innocente giro di valzer con un altro ballerino. L’essenziale è che essa non si lasci rapire e che torni da lui, se vedrà che con lui ha miglior sorte.» Fu profetico il cancelliere tedesco Bernhard von Bülow, successore di Bismarck, nel gennaio 1902 quando commentò con ironica bonomia la decisione italiana di firmare un «patto di amicizia» con la Francia mentre stava per rinnovare la Triplice alleanza con Austria e Germania. L’austero cancelliere metteva dunque nel conto che la sposa, in un matrimonio pure fortunato (lui aveva sposato un’italiana), potesse decidere la fedeltà maritale se avesse valutato, dopo «un innocente giro di valzer», che tornare dal marito le avrebbe garantito «miglior sorte». Interesse, quindi, piuttosto che amore. Nei matrimoni tra due fidanzati, come in quelli tra due paesi.

Dopo la terza guerra d’indipendenza, quella che ci aveva portato in dote il Veneto senza che ce lo fossimo guadagnato, l’Italia era piuttosto isolata. Venne in suo aiuto Bismarck. Pur sconcertato dalle pessime prove militari fornite a Lissa e, soprattutto, a Custoza, il cancelliere prussiano voleva consolidare la sua recente amicizia con l’Austria-Ungheria (sconfitta nel 1866) e, in particolare, tenere a bada quello che è sempre stato il nemico storico della Germania: la Francia. Allearsi con l’Italia gli procurava un duplice beneficio: mettere una spina nel fianco meridionale dei francesi, distraendoli in parte dal confine tedesco, e – obiettivo nascosto ma reale – far sì che l’Austria non si allargasse troppo nei Balcani. «I Balcani non valgono le ossa di un solo granatiere della Pomerania» diceva l’orgoglioso cancelliere. Ma era preferibile che le ambizioni italiane (Albania, e non solo) evitassero che il recente alleato austroungarico diventasse troppo potente.

Si giunse così, nel 1882, alla Triplice alleanza, che fece infuriare la Francia: ruppe le relazioni commerciali con l’Italia, che rispose aumentando del 50 per cento il dazio sui prodotti francesi. Siccome, però, la Francia era il nostro migliore mercato, le conseguenze della guerra commerciale furono per noi devastanti.

(Vittorio Emanuele III si sarebbe adattato senza entusiasmo alla Triplice, sottoscritta dal suo predecessore Umberto I: aveva una cordiale antipatia verso il kaiser Guglielmo II, che lo trattava dall’alto in basso – non solo in senso politico, vista la modesta statura del nostro sovrano –, e anche verso il cattolicissimo Francesco Giuseppe, che si era rifiutato di recarsi in visita di Stato a Roma per non offendere il papa, ancora chiuso in Vaticano dopo lo schiaffo di Porta Pia, e lo aveva costretto a riceverlo a Venezia. Vittorio Emanuele «non era triplicista» scrive Montanelli nell’Italia di Giolitti «per il semplice motivo che era un vero Savoia, e da vero Savoia, abituato a barcamenarsi fra potenze più grosse e rapaci, vedeva in ogni alleanza un fastidioso impegno contratto per motivi di necessità, e da tradire appena se ne presentasse l’occasione. Questa era stata, né altra poteva essere, la politica con cui la sua dinastia aveva per secoli conservato il trono, e lui se la portava nel sangue». Perciò, pure costretto all’alleanza, non avrebbe mai smesso di strizzare l’occhio alla Francia.)

La Triplice era costituita in chiave strettamente difensiva: gli alleati erano chiamati a darsi manforte se uno di essi fosse stato attaccato, ma non se avesse attaccato un altro paese di sua iniziativa. Spesso i trattati politici e diplomatici nascondono un equivoco di fondo che, al momento opportuno, li manda in pezzi. In questo caso l’equivoco fu il rapporto tra l’Italia e l’Austria: dopo aver ricevuto in dono dagli austriaci la Lombardia (grazie a Napoleone III) e il Veneto (sempre grazie alla Francia), adesso gli italiani volevano completare l’unità annettendosi il Trentino e, magari, Trieste e la Venezia Giulia, cioè le «terre irredente», ma da quell’orecchio Francesco Giuseppe non ci sentiva. Di più: l’Italia era notoriamente amica dell’Inghilterra (detestata con forza da Bismarck) e nel 1902, al ventesimo compleanno della Triplice alleanza, pensò bene di fare un «giro di valzer» anche con la Francia. Quanto «innocente», francamente non sappiamo. Per una trentina d’anni, comunque, l’Italia non ebbe nemici: membro della Triplice alleanza, era amica della Francia, che – in opposizione alla Triplice – aveva formato con la Russia la Duplice intesa, e dell’Inghilterra, che vi entrò successivamente, trasformandola da Duplice in Triplice. Insomma, un gran pasticcio, sul quale si innestò per molti, lunghi anni la divertente telenovela dell’invio, sempre promesso e mai avvenuto, di un’armata italiana sul Reno per dare, insieme ai tedeschi, la legnata definitiva alla Francia.

Fin dai tempi di Francesco Crispi, nel 1888, l’Italia aveva firmato una convenzione militare con la Germania in cui si impegnava a inviare 150.000 uomini sul Reno, un esercito quantitativamente pari a quello italiano di oggi, peraltro infinitamente meglio armato e addestrato dello sterminato numero di soldati di un secolo fa. Scrive Winston Churchill nella sua Crisi mondiale e Grande Guerra a proposito del nostro possibile ingresso in guerra nel 1915: «L’entrata in guerra a fianco di Inghilterra e Francia di una nazione come l’Italia di 35 milioni di uomini, la quale poteva mobilitare un esercito di un milione e mezzo di soldati, sembrava una cosa di altissima importanza». Eppure i tedeschi non facevano gran conto sull’efficacia del nostro contributo. All’inizio del secolo il loro capo di Stato maggiore, Alfred von Schlieffen – autore di un famosissimo piano strategico che avrebbe dovuto stroncare la Francia e che fallì per la sua morte prematura –, confidava nel fatto che gli italiani gli tenessero impegnate un paio di armate francesi sulle Alpi, distogliendole dall’Europa centrale. Non aveva torto, ma mentre pronunciava queste parole (1901) il nuovo re d’Italia Vittorio Emanuele III – amico della Francia – cassava con un tratto di penna l’accordo militare, pur lasciando intatto l’accordo politico, con una di quelle ambiguità di cui gli italiani erano maestri. Fu un primo voltare gabbana, che portò il cancelliere von Bülow alla garbata ironia sul «giro di valzer» di cui abbiamo parlato poco fa. Ma è anche vero, come riconobbe più tardi lo stesso capo di Stato maggiore tedesco, che l’Italia non poteva sguarnirsi troppo in casa: i francesi avrebbero potuto forzare i confini e piombarci addosso.

In ogni caso, a due anni dall’inizio della guerra mondiale, nessuno si aspettava che l’Italia si sarebbe schierata con Germania e Austria-Ungheria. C’era stata la faticosissima conquista della Libia, guardata con molta freddezza dai nostri alleati. Il corpo di spedizione italiano aveva dovuto ampliarsi fino a 100.000 uomini e le gesta militari – pur spesso modeste – avevano suscitato l’entusiasmo della nazione. Avevamo finalmente la «quarta sponda», migliaia di italiani si erano messi in fila per andarvi a lavorare, il nostro peso internazionale era cresciuto di un pochino. Eppure, come sempre, avevamo fatto il passo più lungo della gamba: il costo dell’impresa era stato elevatissimo e i magazzini militari si erano svuotati. Se l’Austria ci avesse attaccato all’improvviso, avrebbe ammesso più tardi il nostro capo di Stato maggiore Luigi Cadorna, sarebbero stati guai seri.

E poiché nessuno (tranne i garibaldini) fa alleanze per ragioni romantiche, c’era poi il problema dei «compensi» che l’Italia avrebbe avuto schierandosi con l’una parte o con l’altra. I tedeschi provavano a fare melina: se venite con noi, magari riprendete Nizza e la Savoia con cui avete dovuto pagare la Lombardia nella seconda guerra d’indipendenza… Oppure Nizza e la Corsica. Gli italiani guardavano con maggiore interesse a oriente. La Russia – ormai alleata di Francia e Inghilterra – ci prometteva Trento, Trieste, la Dalmazia, la costa albanese di Valona. Ma lo zar non aveva il coraggio di dirlo a Cecco Beppe, che gli avrebbe riagganciato il telefono, anche perché gli italiani rilanciarono chiedendo l’Alto Adige dove si parlava tedesco.

In un campo o nell’altro, purché si vinca

Gian Enrico Rusconi ricorda che già nel 1912 nessuno si fidava di noi. Scriveva l’ambasciatore russo: «Nessuno crede che la Triplice intesa o la Triplice alleanza possano contare sulla lealtà dell’Italia … Nel caso di una guerra assumerà un atteggiamento di osservazione e poi si assocerà alla parte verso cui arride la vittoria» (1914: attacco a Occidente). Il Consiglio superiore di difesa francese: «L’Italia rimarrà probabilmente neutrale, ma non esiterà a schierarsi dalla parte del possibile vincitore». E il generale tedesco Georg von Waldersee, all’immediata vigilia della crisi: «La nuova Italia sinora ha sempre fatto i suoi affari con le vittorie degli altri».

Il clima per una guerra c’era tutto, ma le cose precipitarono con lo «sparo di Sarajevo». Il 28 giugno 1914 lo studente Gavrilo Princip uccise con due colpi di pistola l’erede al trono di Vienna Francesco Ferdinando d’Asburgo e sua moglie Sofia in visita di Stato nella città bosniaca. Princip faceva parte della società segreta «Crna Ruka» (Mano nera), che combatteva contro l’annessione della Bosnia-Erzegovina all’impero austroungarico. I sei membri del commando terroristico erano dilettanti allo sbaraglio. Uno, a quanto disse dopo, avendo il bersaglio coperto non aveva voluto sparare sul corteo, un altro tirò una bomba ma mancò l’auto imperiale. Tentarono di suicidarsi, ma l’arsenico che avevano con sé si rivelò farlocco. Francesco Ferdinando era terrorizzato: quando si riebbe e risalì sull’auto, che aveva cambiato percorso, incrociò per caso Princip il quale, improvvisatosi tiratore scelto, con due colpi di pistola abbatté l’arciduca, che indossava il giubbotto antiproiettile ma fu colpito al collo, e la povera Sofia, centrata al posto del governatore. Princip non aveva ancora compiuto i vent’anni e questo lo salvò dalla pena capitale (sarebbe morto in carcere quattro anni dopo). Nel centenario dell’attentato, a Sarajevo è stata eretta in suo onore una statua alta due metri, a poca distanza da quella di Francesco Ferdinando.

Lo scrittore austriaco Stefan Zweig (Il mondo di ieri) racconta che, lì per lì, Vienna restò indifferente. Francesco Ferdinando – grande disistimatore dell’Italia – non era amato dal popolo, che invece si era strappato le vesti nel 1889 alla notizia del suicidio dell’unico figlio maschio di Francesco Giuseppe, Rodolfo, insieme all’amante Maria Vetsera nel casino di caccia di Mayerling. La morte del fratello dell’imperatore austroungarico, Carlo Luigi, aveva inopinatamente elevato Francesco Ferdinando al ruolo di principe ereditario. Francesco era detestato dai serbi perché, lungi dal volerne l’autonomia, puntava ad accorpare alla corona austroungarica uno Stato panslavo sotto il dominio croato. Soluzione pessima anche per l’Italia, che avrebbe visto rafforzato il dominio austriaco sull’Adriatico.

Come ha ricordato lo storico francese François Cochet nel giorno del centenario («Le Figaro», 28 giugno 2014), i militari austriaci volevano da tempo muovere guerra alla Serbia e la Cancelleria tedesca pensava di risolvere gli storici problemi con la Russia sferrando un attacco preventivo contro lo zar Nicola II. I russi, dal canto loro, non potevano accettare che i Balcani diventassero dominio incontrastato degli imperi centrali. La proposta britannica di una conferenza che superasse diplomaticamente la crisi, accettata da Francia, Russia e Italia, fu respinta dalla Germania.

Quando l’Austria attaccò la Serbia per vendicare i fatti di Sarajevo, la Germania non aveva nessuna voglia di entrare in guerra, convinta che gli austriaci avrebbero goduto della solidarietà internazionale e vinto la partita a tavolino. Il kaiser Guglielmo II sosteneva che «la Serbia è una banda di masnadieri che deve essere colpita per i suoi delitti», lasciando al collega austriaco il diritto di sparare il primo colpo. E restò di sale quando vide la Russia intervenire in favore dei serbi («Non potevo prevedere che lo zar si sarebbe messo dalla parte di banditi e assassini, anche con il pericolo di scatenare una guerra europea»). Allora la Germania dichiarò guerra alla Russia e – vecchia, maledetta abitudine – invase il Belgio. A quel punto si mossero Inghilterra, Francia e perfino il Giappone, che entrò in guerra per prendersi la baia di Kiao-ciao, territorio cinese diventato colonia tedesca nel 1898. L’America se ne stava ancora in disparte, ma la guerra era già mondiale.

La «penosissima scelta» della neutralità italiana

L’Italia poteva restare ferma perché l’alleata aggrediva senza essere aggredita, ma riuscì ugualmente a voltare gabbana. Fino alla vigilia dell’attentato a Francesco Ferdinando, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti e il capo di Stato maggiore Alberto Pollio erano fermissimi sostenitori della Triplice alleanza e avevano rassicurato i tedeschi che, in caso di guerra, avrebbero inviato sul Reno ben tre corpi d’armata. Pollio, però, morì all’improvviso il 1º luglio, tre giorni dopo gli spari di Sarajevo, e i tedeschi – che perdevano un alleato decisivo – sospettarono perfino che fosse stato avvelenato. Il bello è che il suo successore, Luigi Cadorna, ribadì subito lo stesso impegno e predispose a fine luglio – con il consenso della Casa militare del re – l’invio sul Reno non più di tre, ma di cinque corpi d’armata per partecipare a maggior titolo al prevedibile bottino della vittoria.

Tutto era in movimento (le mobilitazioni militari di queste dimensioni erano molto complesse), quando il governo – dove nel frattempo a Giolitti era subentrato Antonio Salandra – optò decisamente per la neutralità, creando problemi operativi addirittura superiori a quelli politici, pure assai consistenti. Secondo il nostro ambasciatore a Berlino, preoccupato per «la potenza, la dignità, la vita stessa» del nostro paese, la scelta italiana suscitò una penosissima impressione. In realtà, l’Italia non poteva entrare in guerra a fianco degli alleati. Il ministro degli Esteri Antonio San Giuliano ne spiegò benissimo le ragioni all’ambasciatore italiano a Vienna. Non possiamo, gli disse, perché la stragrande maggioranza del paese è contraria e perché la flotta anglofrancese farebbe a pezzi la nostra, togliendoci per anni il presidio del Mediterraneo. E in cambio di cosa, poi? Di nulla, rispondeva il ministro, se i nostri alleati perdessero. Di poco o nulla, se trionfassero: un’Austria ancora più potente sarebbe avarissima di «compensi».

Mentre Vittorio Emanuele III cercava di tranquillizzare gli inquieti avversari, Cadorna premeva invece per cambiare fronte e fare subito la guerra all’Austria. Ma fu tenuto a bada dal governo. «L’Italia non può rompere con Austria e Germania se non si ha certezza di vittoria» scriveva con grande franchezza il nostro ministro degli Esteri al presidente del Consiglio Salandra. «Ciò non è eroico, ma saggio e patriottico.» La Triplice era divisa sull’atteggiamento da tenere nei nostri confronti. Gli ungheresi ci detestavano: «L’Italia è militarmente debole e codarda». Ed era inutile, a loro avviso, farci concessioni, perché al primo momento utile saremmo passati dall’altra parte. I tedeschi erano invece furiosi con gli austriaci («burocrati inferociti, ostinati, stupidi» li definì uno stretto collaboratore del cancelliere) perché si ostinavano a non offrirci il Trentino.

In Storia d’Italia Mack Smith osserva che Francesco Giuseppe aveva deciso di entrare in guerra per evitare la disgregazione del suo impero. In quest’ottica, la cessione del Trentino all’Italia lo avrebbe indebolito in egual misura. Nicola Tranfaglia sembra dargli ragione quando sostiene che «l’Austria non poteva far la guerra all’irredentismo serbo e soddisfare quello italiano con il pericolo di una sollevazione di tutti gli irredentismi esistenti nella compagine sovranazionale» (La prima guerra mondiale e il fascismo). Per quanto riguarda l’Italia, ci fu comunque una ragione perentoria che tagliò di netto ogni dubbio: i nostri soldati non disponevano di divise invernali, quindi – con chiunque ci fossimo schierati – avremmo dovuto aspettare la primavera.

In ogni caso, la nostra neutralità ebbe un peso decisivo nella fase iniziale della guerra. La Francia poté sguarnire i confini italiani e arginare la tremenda offensiva tedesca nel settembre 1914. Lo storico inglese George M. Trevelyan annota: «Questa grande decisione [la neutralità dell’Italia], presa così di fretta e con tanto appoggio popolare, salvò la Francia sulla Marna». Guglielmo II sperava di vincere la guerra in sei settimane. Non vi riuscì perché, come si è detto, il suo capo di Stato maggiore Alfred von Schlieffen morì poco prima di poter attuare il suo formidabile piano d’attacco e perché il suo successore, Helmuth von Moltke, pur essendo omonimo del carismatico zio (l’eroe del 1866), non ne aveva le qualità, come gli fece notare lo stesso kaiser. Guglielmo II fu deluso dal mancato appoggio degli ungheresi, più che da quello degli italiani: «Gli alleati si staccano da noi già prima della guerra come mele marce! Un crollo completo della diplomazia tedesca e austriaca!» scriveva in un documento rintracciato e pubblicato da Emil Ludwig nella sua biografia del kaiser. Ma se la Germania fu fermata nella prima tremenda battaglia della Marna, lo si dovette, sia pur indirettamente, anche all’Italia.