Alfano: «Il marchio del traditore ti paralizza»
A un anno di distanza, Angelino Alfano continua a credere che la crisi di governo aperta da Forza Italia in seguito alla decadenza di Berlusconi da senatore sia stata un errore. «Tra il 2 ottobre 2013 – il giorno in cui l’intero PdL votò la fiducia al governo Letta – e il 16 novembre, quando ci fu la nostra scissione, Berlusconi mi sembrava razionalmente convinto della mia tesi: il 2014 sarà l’annus horribilis dell’affidamento ai servizi sociali, trascorriamolo sostenendo un governo che ha portato consensi al PdL e con un presidente del Consiglio non ostile, come Enrico Letta. Nella primavera del 2015 – gli dicevo – lei avrà espiato la sua pena e sarà libero di muoversi come crede, anche se non sarà candidabile. L’inesorabile conclusione di ogni discorso da parte sua era: come faccio a stare al governo con quelli che mi fanno decadere? Oggi potrei rispondere facilmente: a quelli che l’hanno fatto decadere, il presidente Berlusconi ha reso visita a domicilio due mesi dopo, andando da Renzi per il patto del Nazareno.»
«Non possono confondersi le due cose» replica Silvio Berlusconi. «È vero che il Partito democratico, con la procedura di decadenza dal Senato, mi ha assassinato politicamente, ma, sul piano costituzionale, oggi il Pd ha proposto una riforma come quella che noi avevamo realizzato nel 2005 e che loro avevano cancellato con un referendum abrogativo. Come potremmo negare il nostro voto a una “nostra” riforma, la stessa che oggi viene proposta dalla sinistra?»
«In ogni caso, con mio grande dispiacere,» conclude Alfano «sul Berlusconi statista prevalsero quelli che lo condussero sulla strada sbagliata. Da lì cominciò un declino che ha portato Forza Italia a stabilire il record negativo del ventennio in un’elezione generale: il 16,8 per cento riportato alle elezioni europee del 2014.» (Il cronista può obiettare, dati alla mano, che la permanenza al governo non è stata particolarmente fruttifera di voti per il Nuovo centrodestra, visto che alle stesse elezioni europee ha temuto fino all’ultimo istante di non superare la fatale soglia del 4 per cento.)
Chiedo a Berlusconi che definizione darebbe di «voltagabbana». Lei sa, gli dico, che nella storia chiunque abbia cambiato fronte ha sempre sostenuto di averlo fatto per ragioni ideali… «Non affondi il coltello nella piaga» è la risposta. «È già tanto dolorosa così com’è.»
Angelino Alfano non si sente un voltagabbana. «Hanno tentato di far apparire tutta la nostra operazione come un parricidio, quando la nascita del Nuovo centrodestra è stata un’azione di legittima difesa per sottrarmi a un figlicidio.»
Il Cavaliere la pensa, ovviamente, in tutt’altra maniera. «Figlicidio? Angelino non ha mai rischiato niente. Ricordo che mi chiedeva: “Siamo sicuri che alla fine non si presenterà Marina?”. Io rispondevo: “Rispetto sempre le decisioni dei miei figli, con una eccezione: non permetterò a nessuno di loro di dover subire quello che ho subìto io a causa dell’impegno politico”. Dicevo, perciò, ad Alfano: “Angelino, sei il nostro segretario, sei il capo della nostra delegazione al governo, sei il vicepresidente del Consiglio, sei il ministro degli Interni. Di che cosa ti preoccupi?”.»
Un momento di pausa e, poi, un’espressione amara: «Forse pensavano che io fossi davvero finito e non volevano vegliare il mio cadavere politico. Eppure, io ho sempre e solo dato e nulla ho chiesto per me. Si può dimenticare come eravamo ridotti alla fine del 2012 e i risultati che abbiamo avuto alle elezioni del 2013? Si poteva accettare un’azione di decadenza dal Senato basata su una sentenza ingiusta, che mi ha tolto ogni guarentigia e mi ha reso incandidabile? Se avessi potuto contare su un partito unito, sarei potuto andare da Enrico Letta e dirgli: se non la smettete con questa mascalzonata, il governo va a casa. E siccome il Pd ha fatto della stabilità di governo un vero e proprio “moloch”, sono sicuro che sarebbero corsi ai ripari».
E la legge Severino, presidente? «Incredibile e inaccettabile che sia stata applicata retroattivamente. Un sacrilegio. Ma il Pd avrebbe dovuto fermarla: non si può eliminare così il proprio alleato di governo e pretendere che rimanga alleato.»
Su Alfano, al di là di un affetto non cancellato, Berlusconi ha parole severe. «Ancora non riesco a capire come e perché si sia potuto convincere e piegare a una scelta così sciagurata. Non lo consideravo il segretario del mio partito, ma un componente della mia famiglia. Le faccio un solo esempio: la casa di Lampedusa. Quando, nel 2010, andai da presidente del Consiglio nell’isola martoriata dagli sbarchi e volli garantire ai lampedusani che non mi sarei dimenticato dei loro problemi, loro obiettarono: “Hanno detto tutti così”. E io: “Ma se diventassi lampedusano anch’io?”. Così comprai una casa. Una casa bellissima, sulla spiaggia di Cala Francese, proprio dove Alfano andava sempre in vacanza. Sulla proprietà della casa era in corso una discussione tra eredi e per l’atto di acquisto dovetti attendere il 2011. Ne affidai la ristrutturazione all’architetto [Gianni] Gamondi e a luglio 2013 fu pronta. Pronta per Angelino, che avrebbe potuto trascorrerci tutte le vacanze che voleva. [Mi mostra le foto. La villa è veramente splendida.]» («Sì,» mi dice Alfano «ma io non ci sono mai andato.»)
Nell’autunno del 2014 i rapporti tra Berlusconi e Alfano hanno segnato il punto più basso di sempre. Il progetto (mai concretizzatosi) di ricostituire un centrodestra competitivo è stato seriamente compromesso dalle elezioni di novembre in Calabria e in Emilia Romagna. Il Cavaliere è sempre più attratto dalla nuova forza della Lega Nord: sabato 18 ottobre il segretario Matteo Salvini ha riempito piazza del Duomo a Milano con una manifestazione contro l’immigrazione clandestina che si è rivelata la più affollata di tutta la storia della Lega. Salvini ha ripetuto: mai con Alfano, il ministro della campagna «Mare Nostrum» (che ha salvato centomila immigrati). Nonostante il divieto della Lega ad alleanze con il Ncd nelle regioni centrosettentrionali, trattative tra Forza Italia (Matteoli) e il partito di Alfano (Quagliariello) per una lista comune alle elezioni regionali calabresi sono proseguite fin oltre la metà di ottobre e poi sono fallite. Invece, le trattative tra il Ncd e il Pd, che ha trionfato nelle elezioni per il sindaco di Reggio Calabria del 26 ottobre, non sono nemmeno iniziate, perché il partito di Renzi esigeva che nelle liste alfaniane non fossero presenti amministratori che avevano fatto parte della giunta di centrodestra presieduta da Giuseppe Scopelliti. Così, per la prima volta il Ncd si è presentato da solo.
Chiedo, perciò, a Berlusconi se lo scontro tra FI e Ncd non possa portare a un ulteriore indebolimento complessivo del centrodestra italiano. «Il centrodestra si è indebolito per molte ragioni. Certo, la causa prima è stato il tradimento degli elettori da parte di Alfano & C., che oggi, diventati la stampella di sostegno di un governo di sinistra, che fa cose di sinistra, non hanno più nulla a che vedere con gli elettori del centrodestra. I quali, nella loro grande maggioranza, non accettano che Forza Italia possa ancora allearsi con chi li ha traditi. Ma poi c’è l’esclusione dal Senato e dalla politica, non con i mezzi della democrazia, le elezioni, ma con altri mezzi, del leader del centrodestra. Vi pare poco?»
Il clamoroso addio di Paolo Bonaiuti
Un altro clamoroso distacco da Berlusconi è avvenuto il 13 aprile 2014 per opera di Paolo Bonaiuti, per diciotto anni suo portavoce. «È una decisione sofferta,» scrisse Bonaiuti in una breve nota dettata alle agenzie di stampa «anche a lungo rinviata, ma pienamente motivata, già da tempo, da divergenze politiche e da incomprensioni personali che si sono approfondite nell’ultimo anno.» Seguiva l’annuncio di impegnarsi «per una ricomposizione del centrodestra» e, al Cavaliere, «un augurio dal cuore, con la sincerità e con l’affetto dei diciotto anni in cui ho lavorato ogni giorno al suo fianco».
Il rapporto tra B. e B. era cominciato male nel 1994. Il Cavaliere era diventato inopinatamente presidente del Consiglio e il vicedirettore del «Messaggero» lo aveva attaccato con estrema durezza. «Berlusconi mi telefonò,» ricorda Bonaiuti «io gli dissi dove sbagliava, a mio avviso, e andai a trovarlo a palazzo Chigi.» Restarono in contatto.
Il 31 maggio 1995, alle 6 del pomeriggio, Bonaiuti sposò in una chiesa dell’Aventino Daniela Melchiorri, una giovane e bella farmacologa, docente universitaria. C’erano una quarantina di persone e Berlusconi non era tra gli invitati. Durante la cerimonia lo sposo sente alle sue spalle un forte brusio: «Nooooo…». Era entrato il Cavaliere e si era seduto in silenzio in fondo alla chiesa. Ora, da vent’anni Berlusconi viene seguito dai giornalisti dappertutto e, quel 31 maggio, tra loro – anche in chiesa – c’era Marco Conti, cronista politico del «Messaggero», il giornale di Bonaiuti. Un minuto dopo la notizia era arrivata al direttore del quotidiano romano, Giulio Anselmi, eccellente giornalista, antiberlusconiano forever e in rapporti molto ruvidi con il suo vice. Di lì a qualche mese, nel 1996, Bonaiuti diventò portavoce del Cavaliere, la sua ombra mediatica.
Perché Bonaiuti, nell’annunciare il distacco da Forza Italia, parlò di «decisione a lungo rinviata, ma pienamente motivata»? Perché, di fatto, da un anno era stato esautorato. Senza gesti clamorosi, un passo dopo l’altro. Nella nuova vita di Berlusconi, Bonaiuti rappresentava il passato.
Come Marinella Brambilla, la storica, efficientissima segretaria. Berlusconi l’aveva presa con sé nei primi anni Ottanta, quando era una ragazzina appena diplomata: gliela aveva segnalata la madre, governante della prima residenza milanese del Cavaliere, in via Rovani. Da allora e per trent’anni sono stati inseparabili. Il suo «scudo umano», la definiva Veronica Lario, di cui Marinella è rimasta amicissima anche dopo la separazione da Berlusconi. Legata al suo capo da una dedizione sacerdotale, bravissima nel compito più delicato (chi passare al telefono e chi no, quanto dovesse durare una visita, quale fosse l’urgenza di un documento da licenziare), all’esterno non ha mai manifestato l’arroganza o l’altezzosità delle donne di potere. Mai un’intervista, mai una confidenza, mai la partecipazione a una serata mondana. Con la determinazione assoluta che la caratterizza, a 50 anni – al secondo matrimonio – ha voluto e avuto un figlio. Il premio della sua vita. Si è distaccata per un po’ dal lavoro, poi è tornata part-time, infine è scomparsa. Adesso lavora con Luigi, il figlio minore di Berlusconi, bocconiano molto solido con interessi nella finanza, e attentissimo al mondo cattolico. (Nel 2006 il padre raccontò a Paolo Bonolis: «Telefono a Luigi e mi dicono di richiamare perché sta pregando. Richiamo ed è ancora in raccoglimento. Allora sbotto: sta dicendo una messa?».)
Il 2 marzo 2014 Maria Latella, amica di Veronica Lario, scrisse sul «Messaggero» che Marinella era stata, di fatto, licenziata dal nuovo «cerchio magico» del Cavaliere: la fidanzata Francesca Pascale, la superassistente Mariarosaria Rossi, l’addetta stampa Alessia Ardesi. Quando gliene parlo, Berlusconi respinge con energia questa ricostruzione. «Non si è interrotto alcun rapporto. Marinella è diventata mamma e, naturalmente, non è più in grado di seguirmi a Roma e ovunque, a tutte le ore del giorno e della notte, il sabato e la domenica, come è sempre successo. Per molti anni, a causa mia, come e più di altri miei collaboratori, non ha avuto una vita privata. Ora ha chiesto un periodo di aspettativa, come è logico per chi deve pensare a un bambino piccolo. Se deciderà di ritornare, la accoglierò a braccia aperte, come sempre.»
In realtà, a quanto mi pare d’aver capito, Pascale, Rossi e Ardesi rimproverano a Marinella Brambilla di essere rimasta troppo legata a Veronica Lario e di non aver fatto, nei momenti più burrascosi, una netta scelta di campo a favore di Berlusconi. In ogni caso, è vero che la maternità non le avrebbe consentito di sacrificare totalmente la sua vita privata come ha fatto per trent’anni, ed è anche vero che il suo ruolo sarebbe stato comunque ridimensionato dall’efficienza organizzativa di Mariarosaria Rossi.
Anche Alfredo Pezzotti, rimasto accanto a Berlusconi come maggiordomo per venticinque anni, è andato via in modo soft perché era incastonato nella vita precedente del Cavaliere. Lui ha sempre smentito di essere stato licenziato perché pagava i fagiolini 80 euro al chilo («Che amarezza, non facevo io la spesa!») e, con l’aiuto di Berlusconi (nei cui confronti ha tuttora solo parole affettuose), ha aperto un ristorante in centro a Roma (Il palato di Alfredo), declinando il provocatorio consiglio di marketing del Cavaliere, contenente una notevole dose di autoironia, di chiamarlo «Bunga bunga».
In effetti, è vero che il maggiordomo Alfredo non faceva la spesa. Ma è anche vero che i fornitori storici, come è accaduto nei secoli in tutte le corti, approfittavano della disponibilità – e soprattutto della distrazione – di un miliardario. Appena insediatasi, la Rossi sostituì tutti i fornitori, fece una drastica spending review, e la presenza di una «famiglia» a palazzo Grazioli (Francesca Pascale, e non solo) ridimensionò il ruolo di un fedele collaboratore che, spesso, aveva anche protetto il Cavaliere da frequentazioni inopportune.
Al «cerchio magico» i giornali addebitarono una parte di responsabilità pure nel progressivo allontanamento di Bonaiuti, dal quale peraltro Berlusconi si era disaffezionato già dalla fine della campagna per le elezioni del febbraio 2013. Fu allora che il Cavaliere recuperò quasi 10 punti rispetto ai sondaggi di fine 2012, pareggiando di fatto le elezioni. Nell’ultima fase Bonaiuti ebbe contrasti con gli altri collaboratori di Berlusconi, che lo accusavano di averlo affaticato troppo con i suoi continui incitamenti a non rallentare la corsa. Mariarosaria Rossi, assistente personale del Cavaliere dall’inizio del 2010, osserva che al presidente non era materialmente possibile fare di più a causa dell’uveite che lo aveva colpito in quelle settimane.
Bonaiuti ebbe la prova del forte raffreddamento del loro rapporto durante il lungo periodo di degenza in ospedale e di successiva convalescenza a cui era stato costretto da una malattia virale. Una telefonata di Marinella che gli annunciava un’imminente visita del Cavaliere non ebbe seguito. Tuttavia, il grosso strappo con Mariarosaria Rossi, la persona di maggior potere all’interno dello staff del presidente, ci fu quando gli fu tolta la gestione del «Mattinale», una nota quotidiana di informazione online destinata soprattutto agli eletti del PdL, e ora di Forza Italia, ma con notevoli ricadute anche all’esterno. Per ragioni di spesa, la Rossi – inflessibile tagliatrice di costi – decise che non dovesse pesare sul bilancio del partito, e così il «Mattinale» fu affidato a Renato Brunetta, che lo gestisce tuttora in qualità di presidente del gruppo parlamentare di Forza Italia alla Camera.
Il 18 novembre 2013, dopo la scissione del Nuovo centrodestra, Berlusconi nominò Deborah Bergamini responsabile della comunicazione di Forza Italia, che sancì la formalizzazione dello strappo tra Berlusconi e Bonaiuti. (La Bergamini, nata a Viareggio nel 1967, laurea in lingue a Firenze, master negli Stati Uniti, giornalista a Londra all’agenzia Bloomberg, iniziò a collaborare con Berlusconi nel 1999. Dirigente del marketing Rai tra il 2002 e il 2008, da allora è deputato di Forza Italia.) Era il segno della rottura definitiva. Nell’autunno del 2013 i dissensi tra Bonaiuti e il Cavaliere aumentarono. Bonaiuti era una delle «colombe». («A che serve fare le manifestazioni sotto il palazzo di giustizia?» diceva. «A che serve paragonare i magistrati alle Brigate rosse?») Al momento della rottura con Alfano, Bonaiuti mise in guardia Berlusconi dai conteggi di Verdini su quanti senatori avrebbero seguito l’ex segretario (parlava di una dozzina, furono trenta) e gli suggerì di non uscire dal governo. («È uscito dalla maggioranza dalla porta del governo ed è rientrato dalla finestra delle riforme» avrebbe commentato in seguito.)
«Paolo, quando lo vedi, salutami Angelino»
Nelle stesse settimane, Bonaiuti lamentava di essere stato sfrattato dalla nuova sede del partito a San Lorenzo in Lucina. (La Rossi sostiene che alcune delle stanze a lui assegnate erano inutilizzate e occorreva trovare una sistemazione a Giovanni Toti, brillante direttore del Tg4 diventato consigliere politico di Berlusconi e ora parlamentare europeo.) Per di più, i dissensi con il nuovo staff erano ormai insanabili anche per ragioni caratteriali: la Rossi rimproverava a Bonaiuti un eccesso di accentramento, lui non riconosceva allo staff l’autorevolezza per intervenire nelle sue cose.
Berlusconi e il suo ormai ex portavoce si videro a Natale. Bonaiuti lo mise in guardia da quanti lo stavano portando su una linea estremistica, ma venne tranquillizzato. Tornò ad allarmarsi quando chiamò per due volte il Cavaliere dall’estero per gli auguri di fine anno e per due volte non glielo passarono. Al rientro, si vide recapitare sei scatoloni con le carte del suo ufficio di palazzo Grazioli. («Dobbiamo restituire i locali al principe di Sirignano» gli venne spiegato.)
A fine marzo si capì che la situazione non avrebbe retto. Una mattina Gianni Letta andò a casa di Bonaiuti e, facendo colazione con lui nella piccola ed elegante biblioteca, ne raccolse lo sfogo: «Io non voglio andar via, ma…». Secondo Bonaiuti, non ci furono segnali concilianti. E così, decise di lasciare Forza Italia.
Alcuni giornali pubblicarono le indiscrezioni venerdì 11 aprile. Ricordarono i tanti momenti in cui la fedeltà di Bonaiuti era stata particolarmente evidente. Quando, durante la campagna per le elezioni regionali del 2000 sulla nave Azzurra, si ruppe il polso destro e la spalla sinistra, ma restò stoicamente a bordo. Quando, il 18 aprile di quello stesso anno, a Sofia, tentò di fermare Berlusconi, che parlava di «uso criminoso» della televisione da parte di Enzo Biagi e Michele Santoro (il cosiddetto «editto bulgaro»), dandogli calci sotto il tavolo. Quando, un anno dopo a Strasburgo, rispondendo a un’offesa («Siete turisti della democrazia») di Martin Schulz, allora capogruppo dei socialisti al Parlamento europeo, il Cavaliere rincarò la dose paragonandolo a un kapò dei campi nazisti. Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini presero cappello, e lui li rincorse al ristorante per calmarli.
Quell’11 aprile 2014, verso mezzogiorno, Berlusconi lo chiamò: «Leggo che vorresti andar via. Ma sei impazzito?». Bonaiuti gli ripeté le ragioni del suo disagio e gli ricordò che, di fatto, la rottura c’era già stata a Natale. Ma l’altro insistette per trattenerlo. Nel pomeriggio ricevette ancora due telefonate del Cavaliere, alternate a quelle di molti dirigenti del partito che lo invitavano a ripensarci. Fino alle 22.30, quando gli chiese di raggiungerlo ad Arcore la la mattina dopo. «Silvio, è inutile.» «Fallo per me.» (La Rossi e lo staff di Berlusconi sostengono che fu Bonaiuti a chiedere l’incontro, e non il contrario.)
Il sabato mattina Bonaiuti partì da Roma con il Frecciarossa delle 8 e, prima di mezzogiorno, era ad Arcore. Parlarono a lungo: all’aperitivo, a pranzo e dopo pranzo, fino alle 18. Al momento dei saluti, accompagnandolo alla porta il Cavaliere gli disse: «Non andar via. Valuta le mie offerte. [Berlusconi non mi ha mai confermato di avergli proposto di riprendere il ruolo di responsabile della comunicazione del partito, né ha accennato ad altre offerte.] Ci sentiamo domani, a mezzogiorno».
Il giorno dopo, domenica 13 aprile, Bonaiuti fu svegliato da un articolo di Tommaso Labate sul «Corriere della Sera». Titolo: Bonaiuti, colloquio ad Arcore. Gelo di Berlusconi: vai via? Auguri. Attacco dell’articolo: «Va bene, Paolo, ora ti saluto. Ti faccio i migliori auguri se andrai nel Nuovo centrodestra. E mi raccomando, quando lo vedi, salutami Angelino». Labate riferiva che era stato Bonaiuti a chiedere l’incontro, dimostrandosi forse disponibile ad accettare una candidatura in Forza Italia alle europee e pronto a entrare nell’ufficio di presidenza del partito con diritto di voto. «Ma Berlusconi chiude tutte le porte» scriveva Labate. («È l’esatto contrario di quel che è avvenuto» protestò Bonaiuti.) La lettura del «Giornale» e di «Libero» lo convinse che era davvero finita: entrambi i giornali lo bollavano come «traditore».
Furibondo, andò a mangiare qualcosa sotto casa, nel rione di Sant’Eustachio, pieno centro storico di Roma. Nel pomeriggio lo chiamò Maria Latella, dicendogli che, in un’intervista su Canale 5, Giovanni Toti aveva usato nei suoi confronti parole severe. Allora tornò a casa e dettò alle agenzie il suo comunicato: «Lascio Forza Italia…». («Siamo stati allontanati in tre» commentò con un amico. «Tre persone legate a lui da un rapporto affettivo. Marinella da affetto puro. Sandro Bondi da affetto acritico. Io da affetto critico.») In seguito si iscrisse nel gruppo parlamentare del Nuovo centrodestra.
Il 7 luglio 2014 – giorno del suo settantaquattresimo compleanno – Bonaiuti ha ricevuto una telefonata di auguri da Berlusconi. E nell’autunno successivo, quando gli chiedo di commentare il caso, il Cavaliere usa toni concilianti: «Con Paolo non ci sono mai stati dissensi. Dopo una discussione assolutamente innocua, lui ha preso cappello e se ne è andato. Ma io gli voglio sempre molto bene e sono sicuro che lavoreremo ancora insieme».
E Friedman rivelò il «tranquillo colpo di Stato»
«È vero: non si sono visti né carri armati, né cortei di gente in rivolta nelle strade, ma come chiamare il capovolgimento della volontà espressa liberamente dai cittadini senza passare di nuovo dalle elezioni?»
Silvio Berlusconi ripassa a memoria le vicende dell’ultimo ventennio: l’avviso di comparizione ricevuto nel novembre 1994 a Napoli mentre presiedeva la conferenza Onu sulla criminalità internazionale, avviso che lo trascinò in un processo per corruzione conclusosi sette anni dopo con l’assoluzione piena; il ribaltone di Umberto Bossi, con la garanzia del capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, che non sarebbero state sciolte le Camere; la sessantina di processi intentatigli nell’arco di vent’anni, con più di tremila udienze; le continue interferenze nella sua vita privata (troppo disordinata per un presidente del Consiglio, come anch’io gli ho sempre contestato nei colloqui per i miei libri), l’assedio della sorveglianza e delle intercettazioni (140.000, secondo i calcoli di Berlusconi) a chi frequentava la sua casa; il tentativo di Fini, nel 2010, di costituire una maggioranza diversa da quella eletta dai cittadini; la vendita dei titoli di Stato italiani da parte delle banche tedesche e la richiesta di provvedimenti di emergenza da parte dell’Europa nel 2011; l’impossibilità di varare quei provvedimenti con un decreto legge perché qualcuno non lo voleva (il Cavaliere non fa nomi, ma si riferisce al presidente Giorgio Napolitano, appoggiato nella circostanza dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti), e, infine, le trame internazionali contro il governo italiano. Al punto che Jürgen Habermas, famoso sociologo della sinistra tedesca, commentò l’operazione delle dimissioni imposte al governo come «a quiet coup d’État», un «dolce colpo di Stato». (Il «Wall Street Journal» riferì di una telefonata di Angela Merkel a Napolitano per chiedere un cambio a palazzo Chigi. La cancelliera riteneva che Berlusconi non sarebbe stato in grado di fronteggiare la tempesta finanziaria in arrivo e che l’Italia avrebbe trascinato con sé nella sua caduta l’Europa intera.)
Non è una novità che il Cavaliere si senta da vent’anni vittima di trame oscure, anche se negli ultimi mesi l’assoluzione in appello per il caso Ruby gli ha fatto smorzare di colpo i tradizionali attacchi alla parte politicizzata della magistratura. Ma difficilmente avrebbe immaginato che, nell’arco del 2014, a indicarlo come vittima di manovre inconsuete e poco trasparenti sarebbero stati addirittura quattro insospettabili testimoni, nessuno dei quali ha mai manifestato simpatie berlusconiane: il giornalista americano Alan Friedman, l’economista italiano Lorenzo Bini Smaghi, l’ex primo ministro spagnolo José Luis Zapatero e l’ex ministro del Tesoro degli Stati Uniti Tim Geithner. A loro si sono aggiunti due autorevoli analisti internazionali, l’americano Edward Luttwak, economista ed esperto di geopolitica del Pentagono, e l’inglese Ambrose Evans-Pritchard, editorialista del quotidiano «Daily Telegraph».
Il caso più clamoroso è quello di Alan Friedman, che non solo ha trascritto nel suo fortunato Ammazziamo il Gattopardo alcuni colloqui chiave che dimostrano l’intenzione di Napolitano di sostituire Berlusconi a palazzo Chigi già alcuni mesi prima del drammatico novembre 2011, ma ha addirittura raccolto le testimonianze video che – con un po’ di ingenuità provinciale, bisogna dire – gli stessi testimoni gli hanno rilasciato, senza valutare le conseguenze dirompenti di quanto andavano affermando. Friedman ricorda che, a giudizio di Napolitano, «i governi Monti e Letta sono stati presentati quasi come inventati per capriccio dalla persona del presidente della Repubblica e invece non si tratta di nomi diversi da quelli indicati nelle consultazioni».
E scrive: «Stando alle parole di Carlo De Benedetti e Romano Prodi, entrambi amici di Monti, e per ammissione dello stesso ex premier, le cose sono andate diversamente. De Benedetti dice che in quell’estate del 2011 Monti, in vacanza vicino a casa sua a St. Moritz, è andato a chiedergli un consiglio, se accettare o meno la proposta di Napolitano sulla sua disponibilità a sostituire Berlusconi a palazzo Chigi, in caso fosse stato necessario. Romano Prodi ricorda una lunga conversazione con Monti sullo stesso tema, ben due mesi prima, a giugno 2011. “Il succo della mia posizione è stato molto semplice: ‘Mario, non puoi fare nulla per diventare presidente del Consiglio, ma se te lo offrono non puoi dire di no. Quindi non ci può essere al mondo una persona più felice di te’.” Durante oltre un’ora di domande e risposte nel suo ufficio alla Bocconi per la registrazione del video dell’intervista, Monti conferma di aver parlato con Prodi (a fine giugno 2011) e con De Benedetti (nell’agosto 2011) della sua possibile nomina. Ammette anche di aver discusso con Napolitano un documento programmatico per il rilancio dell’economia preparato dall’allora banchiere Corrado Passera tra l’estate e l’autunno 2011. E quando chiedo e insisto: “Con rispetto, e per la cronaca, lei non smentisce che, nel giugno-luglio 2011, il presidente della Repubblica le ha fatto capire o le ha chiesto esplicitamente di essere disponibile se fosse stato necessario?”, Monti ascolta con la faccia dei momenti solenni, e, con un’espressione contrita, e con la rassegnazione di uno che capisce che è davanti a una domanda che non lascia scampo al non detto, risponde: “Sì, mi ha dato segnali in quel senso”. Parole che cambiano il segno di quell’estate che per l’Italia si stava facendo sempre più drammatica. E che probabilmente porteranno a riscrivere la storia recente del nostro paese».
Fin qui Friedman. Se può valere una piccola testimonianza personale, l’11 settembre 2011 – decennale della distruzione delle Torri Gemelle – mi collegai da New York con Mario Monti e lui si disse nettamente favorevole a sostituire il gabinetto Berlusconi con un governo tecnico. Non sapevo che, da tre mesi, il professore aveva già avuto un’investitura operativa da Napolitano, con tanto di documento programmatico preparato da Corrado Passera, allora amministratore delegato di Intesa Sanpaolo. E, francamente, non l’avrei mai immaginato. Non per l’indubbio prestigio del presidente della Bocconi, quanto perché siamo dinanzi a una lesione costituzionale bella e buona. L’Italia digerisce tutto, specie quando le vittime della lesione sono di una certa parte politica. Una commissione parlamentare d’inchiesta, sollecitata in maggio da Forza Italia su queste e altre rivelazioni (che vedremo tra poco) e poi insabbiatasi, non avrebbe risolto nulla, perché raramente tali strumenti hanno condotto a una conclusione chiara. (Fece eccezione quella sulla P2 presieduta da Tina Anselmi: un plotone d’esecuzione e un esempio di come – commettendo lo stesso peccato – si possa essere sommersi o salvati.) Ma i fatti sono senz’altro di indiscutibile gravità.
Berlusconi: «Nessuna trattativa per uscire dall’euro»
Il presidente della Repubblica aveva tutto il diritto di essere preoccupato per la gravissima situazione in cui versava l’Italia, attaccata dalla speculazione internazionale e con l’esecutivo che poggiava su una maggioranza traballante. Ma l’affidamento «morale» di un incarico di governo mentre era costituzionalmente attivo quello uscito dalle urne, sinceramente non si era mai visto. Dopo la scissione di Fini, Berlusconi era debole e tamponava la maggioranza alla bell’e meglio, come abbiamo visto nel capitolo precedente. E non sappiamo francamente quanto avrebbe retto. Ma se è caduto, lo si deve a quella che – pur con imbarazzo – è difficile non chiamare «congiura internazionale», alla luce di quanto dichiarato in libri e interventi dai protagonisti e testimoni sopra citati.
Lorenzo Bini Smaghi – dal 2005 membro italiano del comitato esecutivo della Banca centrale europea, dimessosi nel novembre 2011 per favorire la nomina a presidente di Mario Draghi – ha scritto nel suo libro Morire di austerità che nel 2011 il Cavaliere «aveva ventilato in colloqui privati con i governi di altri paesi dell’eurozona l’ipotesi di un’uscita dell’Italia dall’euro», precisando tuttavia che «Berlusconi, per quanto ne so, non ha mai cercato una exit strategy nemmeno dietro le quinte». Poche settimane dopo l’uscita del saggio, nell’autunno del 2013, Hans-Werner Sinn, presidente di Ifo-Institut, l’istituto di ricerca congiunturale tedesco, rivelò che l’Italia aveva concretamente avviato trattative in sede europea per uscire dall’euro. Questo atteggiamento, giudicato molto pericoloso dai nostri principali partner europei, li avrebbe convinti ad accelerare la caduta del governo e la sostituzione di Berlusconi con Monti. Questa è anche la convinzione di Ambrose Evans-Pritchard, prima firma economica del «Daily Telegraph», che il 13 settembre 2013 scrisse citando Bini Smaghi: «Bene, adesso sappiamo. Silvio Berlusconi progettò seriamente di portare l’Italia fuori dall’euro nell’ottobre-novembre 2011, provocando la propria immediata rimozione dall’incarico e la propria decapitazione da parte dei gendarmi dell’Unione monetaria europea». Ma nell’ottobre del 2014, quando gli giro queste osservazioni, il Cavaliere nega recisamente: «Non è vero. Garantisco di non aver mai avviato alcuna trattativa avente per oggetto una nostra uscita dall’euro».
L’uscita italiana dall’euro, gli chiedo, è un problema ormai superato o hanno ragione Lega Nord e Fratelli d’Italia che vi insistono ancora? «Il nostro governo» è la sua risposta «deve assolutamente pretendere e ottenere un cambiamento della politica monetaria dell’Unione europea. La Bce deve fare la banca centrale e garantire i debiti sovrani degli Stati dell’euro, stampando moneta, se necessario. L’euro deve tornare alla parità con il dollaro. La Bce deve immettere nell’economia ingenti quantità di liquidità, come hanno fatto e fanno Stati Uniti, Giappone e Cina. Solo se si verificheranno questi tre cambiamenti, potremo continuare con l’euro. Diversamente, sarà la realtà stessa della nostra economia che ci costringerà a riprenderci la nostra sovranità monetaria. Ma, per convincere gli euroburocrati e la Merkel, queste richieste dovranno venire da tutti i paesi del Mediterraneo insieme. Solo così ci potrà essere qualche speranza di ottenerle.»
L’8 ottobre 2013, pochi giorni dopo l’articolo del «Telegraph», fecero rumore le anticipazioni del libro di José Luis Zapatero, El dilema. Anche l’ex primo ministro socialista spagnolo ha un ricordo drammatico della cena del 3 novembre durante il vertice di Cannes. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti» scrive. (Una settimana dopo Monti sarebbe stato nominato senatore a vita, con il consenso di Berlusconi, e il 12 l’avrebbe sostituito a palazzo Chigi.) «C’era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano. Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale … Davanti a questo attacco ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola di Berlusconi e del ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Entrambi allontanano il pallone dall’area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi, che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani.»
Angela Merkel, la vera padrona di casa di Cannes, chiese a Zapatero se avrebbe accettato una linea di credito di 50 miliardi di euro dal Fondo monetario internazionale e a Berlusconi se ne avrebbe accettato 85. Entrambi rifiutarono, sapendo che dall’indomani avrebbero perso qualunque autonomia. (Giudicando peraltro la cifra del tutto irrisoria, Tremonti mi raccontò di aver detto a Christine Lagarde, direttore del Fmi: «Christine, hai dimenticato uno zero…».) A tavola il ministro italiano disse: «Conosco modi migliori per suicidarsi». Alla fine il Cavaliere, sostenuto anche da Barack Obama, accettò la supervisione del Fmi, ma non il salvataggio.
Conclude Zapatero: «È un fatto che [la serata] ebbe effetti importantissimi sull’esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi dopo l’approvazione della finanziaria, con le misure di austerità richieste dall’Unione europea e il successivo incarico a Mario Monti per un governo tecnico».
Tim Geithner, ex ministro di Obama: «Ci chiesero di far cadere Berlusconi»
La rivelazione più clamorosa, dopo la pubblicazione in febbraio del saggio di Friedman, è avvenuta nel maggio 2014. Nel suo libro Stress Test l’ex ministro del Tesoro americano, Tim Geithner, racconta che nell’autunno del 2011, in piena crisi dell’euro, fu avvicinato da alcuni «officials» europei che gli suggerirono un piano per costringere Berlusconi a dimettersi: «Volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fmi fino a quando non se ne fosse andato». Geithner rivela di aver parlato al presidente Obama di questo invito «sorprendente», «ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello. “Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani” dissi».
Geithner parla di «officials», letteralmente «funzionari, pubblici ufficiali», ma è difficile che un semplice funzionario, pur se di alto grado, possa permettersi di parlare in questo modo al ministro del Tesoro degli Stati Uniti. È, quindi, più probabile che nel suo libro Geithner nasconda sotto un termine ambiguo qualche eminente uomo politico europeo. (Nel drammatico meeting di Cannes del 3-4 novembre 2011, Obama si comportò correttamente con Berlusconi, ma gli Stati Uniti ne diffidavano per alcune scelte di politica estera, a partire dal suo asse privilegiato con Gheddafi fino al fortissimo legame personale con Vladimir Putin.)
Il 16 maggio 2014, commentando le anticipazioni di Stress Test su Radio 24, Edward Luttwak disse che «il complotto fu ordito da Merkel e Sarkozy con l’appoggio di molte persone in Italia». Indicò, tra gli italiani, Giorgio Napolitano e – per la prima volta – l’ex ministro dell’Interno del governo Berlusconi Beppe Pisanu. Ascoltato consigliere del segretario della Dc Benigno Zaccagnini durante la Prima Repubblica e parlamentare di Forza Italia dal 1994, Pisanu ruppe con il Cavaliere dopo l’incidente avvenuto nella notte elettorale del 2006: il ministro uscì dal Viminale annunciandone la vittoria, ma più tardi la situazione si ribaltò grazie ai voti notturni di Campania e Calabria, che suscitarono molte polemiche su presunti brogli. Nonostante Berlusconi lo avesse nominato, comunque, presidente della commissione antimafia nella legislatura 2008-2013, nel 2011 Pisanu auspicò un governo di larghe intese senza il Cavaliere. Secondo i documenti riservati dell’ambasciata americana a Roma trasmessi a Washington e resi pubblici dopo lo scandalo WikiLeaks, fin dal 2009 Fini, Tremonti e Pisanu avrebbero lavorato per scalzare Berlusconi da palazzo Chigi.
Sul ruolo di Fini (e di Napolitano) in quel periodo ci sono due testimonianze di amici dell’ex presidente di An. Il 12 febbraio 2014 Amedeo Laboccetta, per anni una delle persone a lui più vicine, disse al giornalista del «Tempo» Carlantonio Solimene che Napolitano e Fini avevano una forte intesa fin da quando, nel 2008, dopo la vittoria elettorale di Berlusconi, il leader di An era diventato presidente della Camera. Secondo Laboccetta, i due si sentivano al telefono «praticamente ogni giorno». E lui avrebbe assistito «a molte di quelle telefonate». Nel 2009, continua il racconto di Laboccetta a Solimene, Fini considerava il Cavaliere politicamente finito («Varie procure sono al lavoro»), e poiché «Napolitano era della partita», il premio a Fini per aver fatto cadere Berlusconi sarebbe stato un governo di «salvezza nazionale» presieduto da lui. «Credi che mi muoverei così se non avessi un accordo forte con Napolitano?» avrebbe detto Fini a Laboccetta. Aggiungendo: «Non avrò pace fino a quando non vedrò la testa di Berlusconi ruzzolare ai miei piedi».
Il 10 ottobre 2014 Franco Bechis pubblicò su «Libero» un breve colloquio con Luigi Martini, già deputato di Alleanza nazionale, tuttora amico di Fini e suo compagno di immersioni subacquee. Nel colloquio videoregistrato, Martini sostiene che, dopo il drammatico alterco del 22 aprile 2010 («Che fai, mi cacci?»), il presidente della Camera ricevette una telefonata da Napolitano («Ne sono certo al cento per cento») in cui il capo dello Stato spiegò «i motivi istituzionali» («L’Italia era sull’orlo del disastro, bisognava salvare il paese…») per cui il governo Berlusconi andava messo in minoranza.
Lo show down avvenne in dicembre e, come abbiamo visto, il Cavaliere se la cavò grazie ai voti dei Responsabili. Cadde l’anno successivo «perché l’Italia fosse salvata». Fate presto invocò a tutta pagina «Il Sole-24 Ore», sollecitando la rimozione del presidente del Consiglio. Con Mario Monti, che obbediva alle disposizioni europee, all’Italia è stata imposta una cura da cavallo, ricaduta poi sulle spalle di Enrico Letta e di Matteo Renzi. Risultato: la disoccupazione, che alla fine del 2011 era dell’8,4 per cento (uguale al 2010), è salita al 12,3 per cento in tre anni. I giovani inoccupati sono aumentati dal 28 al 44 per cento. La decrescita è stata del 2,5 nel 2012, dell’1,9 nel 2013 ed è ancora negativa alla fine del 2014. E Renzi (con François Hollande al posto dello strafottente Nicolas Sarkozy) deve battersi come i suoi predecessori per alleggerire i «compiti a casa» ancora richiesti dalla cancelliera Merkel.
Gli esiti della cura sono raccolti in un piccolo, drammatico grafico pubblicato dall’«Economist» l’11 ottobre 2014. Fatto 100 il prodotto interno lordo del 2000, a prezzi costanti, la Grecia è salita fino a 133 nel 2008, per poi precipitare a 102 nel 2014. La Spagna è arrivata a 128, per poi planare a 120. La Francia si è fermata a 118. La Germania è stata sotto l’Italia fino al 2006 (ma crescendo, grazie alle riforme del 2003 di Schroeder), per poi raggiungere la Francia a 118. L’Italia è salita fino a 109 nel 2007, per poi precipitare alla fine del 2014 un filo sotto 100, un po’ peggio del 2000. Abbiamo perso, insomma, quattordici anni secchi.
Piersilvio Berlusconi: «Mediaset-Telecom, un sogno italiano»
Nella primavera del 1998 Berlusconi era sul punto di vendere Mediaset al magnate australiano Rupert Murdoch. Pds e Rifondazione comunista erano molto preoccupati che un «patrimonio nazionale» (che si era tentato invano di mutilare con il fallito referendum del 1995) finisse in mani straniere. La trattativa, comunque, fallì e il Cavaliere mi disse di aver ceduto alle pressioni dei figli perché mantenesse il controllo dell’azienda. Sedici anni dopo gli chiedo se la questione della cessione di Mediaset si pone di nuovo e lui mi invita a parlarne con il figlio Piersilvio (Milano, 1969), vicepresidente esecutivo della società e presidente e amministratore delegato di Rti, l’azienda che cura tutte le attività televisive del gruppo.
«È vero. Nel 1998 io e mia sorella Marina spingemmo perché la vendita non avvenisse, e oggi credo di poter dire in assoluta serenità che fu la decisione giusta. Dalla quotazione in Borsa del 1996 a oggi, Mediaset ha distribuito cinque miliardi di euro di dividendi… Vendita? Non siamo interessati, perché pensiamo che l’azienda abbia molto da dire e da dare sotto il profilo industriale. Da allora il mondo è cambiato anche nel settore dei media, la globalizzazione si è accentuata e si tende a creare grandi agglomerati in più paesi. Noi oggi poggiamo su due gambe, l’Italia e la Spagna, dove siamo il primo gruppo televisivo. Ma ora stiamo valutando nuove partnership per ampliare il nostro business o l’opportunità di fare altre acquisizioni. Vogliamo crescere e, purtroppo, la crisi ha ristretto il mercato italiano.»
Anche Telefónica, la grande compagnia spagnola di telecomunicazioni, vuole allargarsi. È escluso che un giorno ce la troviamo come azionista di maggioranza di Mediaset? «No, assolutamente. Non nego che con Telefónica abbiamo avuto momenti di confronto molto accesi, perché anche in Spagna avremmo voluto allargarci nella pay tv. Ma adesso abbiamo trovato la soluzione più giusta: noi produciamo contenuti e loro li distribuiscono attraverso la banda larga. Loro credono nel nostro modello e sono entrati in Italia comprando per 100 milioni il 10 per cento di Mediaset Premium.»
E veniamo a Telecom Italia, un matrimonio sempre immaginato e mai andato in porto. «In tutto il mondo stanno avvenendo grandi fusioni e la telefonia si sta muovendo verso i contenuti. Prenda la Gran Bretagna, dove British Telecom ha soffiato la Champions League alla storica pay tv di Murdoch. Nel 2001 presentai a mio padre il progetto di una fusione Telecom-Mediaset con enorme anticipo sui tempi: ci avrebbe portato a una posizione di grande vantaggio sul mercato europeo. Poi, a causa del solito conflitto d’interessi (mio padre era da poco nuovamente presidente del Consiglio), un po’ per mancanza di convinzione, il progetto è saltato. Peccato, perché il mondo è andato in quella direzione…».
Tredici anni dopo, i tempi sono maturi per una fusione? «Oggi è un altro mercato. Non c’è nessuna mira da parte nostra sull’azionariato di Telecom, e tantomeno sul controllo. Portiamo avanti un progetto industriale Mediaset per legare l’abbonamento alla pay tv ai servizi telefonici. Ci crediamo profondamente e lo svilupperemo. Certo, una partnership con Telecom avrebbe senso. Ma ci sono anche altre strade.»
Quali sono le difficoltà che state incontrando con Telecom? «Stiamo parlando… Il nostro progetto è giusto non solo per Mediaset Premium e per Telecom, ma anche per il paese. L’Italia non perderebbe una delle ultime occasioni per mantenere in mani italiane la leadership in un settore strategico come questo.»
Sky ha già un fatturato superiore a quello di Rai e di Mediaset. Crede che potenzierà la sua presenza anche nel digitale terrestre? «Queste voci, secondo me, sono una bufala totale. Il core business di Sky è la televisione a pagamento. Che interesse avrebbe a farsi male da sola? È invece sensato il progetto di diffondere in chiaro le news per un fatto di immagine. Un promo di Sky che va su Sky Tg24, sul digitale terrestre viene visto da più gente…»
E Netflix, la possibilità di abbonarsi per vedere i film sul computer o sull’iPhone? «Non so francamente quanto spazio possa avere in Italia. Noi siamo già partiti in questo settore con Infinity nel 2013: con 9 euro al mese puoi vedere tutto quello che vuoi su qualunque device, con un catalogo di cinquemila film. Offriamo anche anteprime in contemporanea con le sale cinematografiche.»
L’idea di andare voi sul satellite? «Con il passar del tempo i contenuti conteranno sempre di più e la piattaforma su cui si vedranno conterà sempre meno. La nostra idea per il futuro è che il cliente non dovrà più porsi il problema di come e dove vedere un programma: satellite, digitale, televisore o computer che sia. Offriremo tutto dappertutto. Stiamo lavorando a un decoder unico che funzioni con il satellite, il digitale e la banda larga, per ampliare al massimo l’offerta.»
Francesca Pascale: «Ecco la mia storia d’amore con B.»
«Scusate, ma adesso ho tre badanti, tutte donne, e le donne, si sa, sono sempre in ritardo…» disse Berlusconi nel marzo 2014 ai partecipanti a una «Missione azzurra». Ecco chi sono le tre donne sempre al fianco del Cavaliere. Mariarosaria Rossi (Piedimonte Matese, Caserta, 1972), consigliere circoscrizionale di Roma e, dal 2008, prima deputata del PdL e poi senatrice di Forza Italia, è capo dello staff di Berlusconi e, dal marzo 2014, amministratrice straordinaria di Forza Italia. Ha sostituito Marinella Brambilla come «filtro» del Cavaliere, ma con un ruolo politico che l’altra non aveva. Alessia Ardesi (Manerbio, Brescia, 1977), laurea in giornalismo allo Iulm di Milano, già giornalista televisiva, molto legata a Francesca Pascale, lavora nell’ufficio stampa di Berlusconi e al «Mattinale». E poi, soprattutto, c’è Francesca Pascale (Napoli, 1985), da alcuni anni compagna del Cavaliere.
Sono andato a trovarla a villa San Martino ad Arcore un grigio e caldo sabato pomeriggio di ottobre 2014. Non la conoscevo. Francesca è una bella ragazza trasformatasi rapidamente in elegante, giovane signora: mi riceve in tubino nero accollato, dal quale spunta la piccola catena di un curioso talismano. «È una cabala» mi dice. «Il 15 luglio, giorno del mio compleanno, me la regalò il portavoce della comunità ebraica di Roma. L’ho indossata il 18, il giorno della sentenza d’appello sul caso Ruby. Quando il presidente è stato assolto, ho deciso di non toglierla più.»
Presidente? Lo chiama in modo così formale? «In privato lo chiamo Amore o B., a lui B. non piace, quindi da un po’ lo chiamo solo Amore. In pubblico, presidente.»
Le chiedo di raccontarmi la sua storia, da Fuorigrotta a villa Certosa. «Mio padre era dipendente della Kodak, ma per arrotondare lo stipendio faceva il fotografo ai matrimoni, che a Napoli rendono molto. Foto dopo foto, ci siamo comprati due casette. Mia madre era l’angelo della casa. Quando se n’è andata lei, nel 2007, la famiglia ha ceduto. Io ho sempre avuto un rapporto difficile con mio padre. Ho due sorelle; io sono l’ultima figlia, nata undici anni dopo la prima. Mia madre voleva un maschio, sognava un calciatore. Ha avuto una calciatrice, perché io scalcio da quando sono nata. Una delle mie sorelle lavora in uno studio legale; l’altra faceva la cuoca, adesso è stata promossa “chef”. E pensare che, a casa, non voleva cuocere un uovo.
«Ho studiato al liceo artistico Filippo Palizzi di Napoli, all’interno del bellissimo museo del Novecento. Poi ho frequentato un anno di scienze politiche all’università Federico II, piena di comunisti. Ho cambiato ateneo e mi sono laureata in scienze della comunicazione al Suor Orsola Benincasa. Ho guadagnato i primi soldi reggendo il flash a mio padre e arrotolando lo scotch che serviva per incollare le foto grandi sugli album matrimoniali, poi facendo la cameriera in pizzeria, poi la soubrette televisiva, perché sono sempre stata vanitosa. Telecafone era una specie di “Zelig” alla napoletana: prendendo in giro i napoletani che mangiavano il gelato Calippo in piazza, ci conquistammo una grande popolarità.
«Mio padre è sempre stato fascista e maschilista, mia madre era craxiana ed è stata la prima berlusconiana della famiglia. Nel 1994 mio padre ha votato per la destra, mia madre per Berlusconi: “Ha fatto Milano 2, ha fatto la televisione privata,” diceva “farà anche il bene dell’Italia”. Io avevo nove anni e sono cresciuta a pane e Canale 5: guardavo i Puffi, Mike e i Vianello. Ma non sono mai stata milanista e non lo sarò mai. Il Napoli, per sempre, anche se questo mi costa un sacco di litigate con B. Ho sempre detestato la Juventus. Ah, dottor Vespa, lei è juventino? Orrore. Nella mia cameretta c’era un poster: “Meglio uno scudetto da leoni che cento da Agnelli”.
«Ero ancora una ragazzina quando mi sono messa in testa di conoscerlo. Ho iniziato ad amarlo in maniera ossessiva. Mio padre lo criticava da destra, mia madre lo ammirava perché le ricordava Craxi. Io dicevo: “È proprio un bel figo”. E lei: “Ma che dici, è sposato e potrebbe essere tuo padre”. Piano piano cominciai ad avvicinarmi a Forza Italia. Facevo attivismo politico a scuola contro le occupazioni. Ma quello era anche il mio periodo dark, mi vestivo da punkabbestia, da rockettara hard (mi cambiavo fuori casa, perché mio padre mi avrebbe linciato). Adoravo Piero Pelù: mia madre scrisse a Raffaella Carrà perché me lo facesse incontrare a “Carramba”. Pelù ci andò, ma al posto mio incontrò una ragazza di Firenze. Era già cominciata l’egemonia fiorentina, che dura tuttora…
«A 17 anni incontrai Antonio Martusciello, coordinatore di Forza Italia a Napoli, a 21 – nel 2006 – fondai con altri ragazzi il club “Silvio ci manchi”: Prodi aveva vinto le elezioni con i brogli e il presidente era di nuovo all’opposizione. Mi candidai al consiglio comunale di Napoli e presi 88 voti. Pochi? No. Soltanto nel palazzo in cui abitavo io c’erano dodici candidati di liste diverse e io non avevo una lira né un qualunque sostegno. In ogni caso, con “Silvio ci manchi” seguivamo il presidente dappertutto. Eravamo un centinaio, ma quelli scatenati come me soltanto una decina. Dovunque lui facesse un comizio, noi c’eravamo con le magliette, i cappellini e le bandiere. Io scavalcavo ogni transenna per dargli la mano. Fino a quando, il 5 ottobre 2006 alle 13.50, arrivò la grande occasione. Con altre quattro pazze di “Silvio ci manchi” eravamo a Roma per un documentario di al-Jazeera su giovani e politica quando ci dissero che lui aveva una riunione al Duke Hotel dei Parioli, di proprietà di Alfredo Pallone, un nostro eurodeputato. Ci precipitammo lì e lui arrivò: era davvero affascinante. Lo guardai come una deficiente: “Presidente,” gli dissi “lei è bellissimo”. Lui sorrise: “Ti senti bene?”. Ci invitò a pranzare in una sala diversa dalla sua (lui era a tavola con tutti gli eurodeputati azzurri), insieme alla scorta, che naturalmente cercai di farmi amica. Alla fine mi avvicinai di nuovo e con sfrontatezza gli chiesi: “Da azzurra ad azzurro, possiamo darci del tu?”. “Sì, certamente” rispose lui. “Questo è il mio numero” gli dissi, allungandogli un pezzetto di carta. “Aspetto una tua telefonata, così mi annoto il numero.” E lui: “Vai di fretta, tu…”.»
«Mi chiamava il Sogno e non avevo i soldi per la ricarica»
«Qualche giorno dopo, a mezzanotte, squilla il mio cellulare. “Pronto, chi sono?” E io: “Dài, Lello, non prendermi in giro…”. “Davvero non mi riconosci?” Restammo al telefono per due ore filate. Parlammo di politica, di televisione, di calcio. Poi mi raccontò di sua madre e dei suoi figli. Mi recitò una poesia. Ero affascinata. Alla fine della telefonata, mi provocò: “Ancora non credi che sono io. Richiamami tra un minuto su questo numero”. Mi accorsi in quel momento che non avevo più credito. Mi stava chiamando il sogno della mia vita e io avevo il cellulare senza credito. Allora impostai la formula Sos Ricarica e parlai di nuovo con lui. “Ti chiamo domani a mezzogiorno per invitare voi di ‘Silvio ci manchi’ a villa Certosa.”
«A mezzogiorno e un minuto dell’indomani mi chiamò Marinella, la sua segretaria, per organizzare il volo privato Napoli-Olbia, con scalo a Roma. I miei genitori vollero accompagnarci all’aeroporto perché credevano si trattasse di uno scherzo. E, invece, il comandante del G5 era già lì, in attesa. A Roma salì B. In tuta e scarpe Hogan: bellissimo. In volo ci parlò di capi di Stato, di Stati Uniti e di Europa, di villa Certosa, dei suoi figli e di Marina. Ci arrivammo. Uno come se la immagina una villa di Berlusconi? Molte stanze, un grande giardino, una bella piscina. E invece era uno straordinario, meraviglioso, incredibile parco verde e fiorito. Ci offrì scarpe da jogging, a ciascuno della sua misura, e cominciammo con le macchine da golf e a piedi un giro per il parco sconfinato. Conosceva il nome di ogni albero, di ogni arbusto, di ogni fiore. Come se fossero persone.
«Il cuore mi batteva forte forte. Restai incantata dalla sua semplicità e dal suo rispetto per gli altri. Se ogni italiano potesse passare un quarto d’ora con lui, saremmo un popolo di berlusconiani. Avrebbe il 100 per cento dei voti. Ci diede appuntamento per l’aperitivo vicino al lago delle ninfee. Io, sfacciata, gli dissi: “Quando un giorno staremo insieme, verremo qui e tu mi dedicherai una canzone”. Sei anni dopo siamo stati di nuovo lì, e lui mi ha dedicato una canzone che aveva composto per me: A Francesca. Invece di ringraziarlo, gli dissi che quella canzone andava bene per qualsiasi donna, bastava cambiare il nome. Lui se la prese: “Non scriverò mai più un’altra canzone per te. Sei diffidente e ingrata!”.
«Ripartimmo da villa Certosa la sera dell’indomani. Tra noi non ci fu niente. Tornando a casa, facevo come Marzullo: domande e risposte. Dicevo a me stessa: “Guarda, Francesca, tu sei presa dal fascino di quest’uomo e dal potere carismatico che emana, ma non è amore, smettila, potrebbe essere tuo padre…”.
«Ogni tanto mi telefonava. Avevo impostato nella suoneria del cellulare il suo numero alla canzone di Gianna Nannini Sei nell’anima. Non l’avevo detto a nessuno. Solo mia madre aveva capito che, dietro quella suoneria, c’era Berlusconi. Nell’autunno del 2006 ci incontrammo a Vicenza per una grande manifestazione contro la legge finanziaria di Prodi. Alla fine, ci invitò a pranzo ad Arcore. Era la mia prima volta ad Arcore: appena arrivata, fui inebriata da un profumo che ritrovo sempre quando ci ritorno. Continuammo a sentirci, anche se non c’era ancora niente tra me e lui.
«Poco dopo, la nostra conoscenza si approfondì, nei limiti consentiti a un uomo ancora sposato. B. mi dimostrava un’attenzione speciale, anche con regali pensati per farmi felice. Io investivo nel mio sentimento testa e cuore, e lui molta pazienza. Entrambi i sentimenti si sarebbero rafforzati quando, negli anni successivi, lui sarebbe tornato un uomo libero.
«L’anno seguente, il 2007, fu, da subito, un anno terribile. Mamma si ammalò di tumore. Il presidente la fece ricoverare e assistere al San Raffaele di Milano, ma non ci fu niente da fare. Non le avevo raccontato niente di noi, ma l’ultima cosa che mi disse prima di morire fu: “Francesca, mi raccomando… È più grande di te… Salutalo per me…”. A pochi mesi di distanza, anche il presidente perse sua madre, alla quale era straordinariamente legato, e qualche tempo dopo sua sorella Etta, e la giovane nipote figlia di Etta. Le telefonate si fecero più frequenti.
«Nel 2009 io diventai consigliere provinciale a Napoli. Con i suoi voti, naturalmente. Sono stata spesso un problema per la dirigenza partenopea, forse ancora oggi lo sono, perché non esito mai a dire quello che penso di ogni persona e di ogni situazione. Un solo esempio. In occasione della scelta del candidato per le elezioni regionali mi permisi di sostenere, contro l’opinione dei vertici campani di Forza Italia, che Stefano Caldoro sarebbe stato il nostro miglior candidato. Apriti cielo, me ne dissero di tutti i colori. Alla fine, grazie all’intervento del presidente, Caldoro fu il nostro candidato e vinse.
«Il 13 dicembre 2009, dopo una manifestazione in piazza del Duomo a Milano, il presidente subì un grave attentato. Girò la testa in tempo e si salvò la vita. Io ero presente: svenni. Mi soccorse Maria Tripodi, del movimento giovanile di Forza Italia: “Franci, è vivo!”. Poi lo vidi fare un gesto di saluto dall’auto con la faccia insanguinata. Mi precipitai in ospedale, ma non volevano farmi entrare. Chi ero? Finalmente entrai e conobbi Marina. Ha le qualità e la grinta del padre. Ma è anche tenera, delicata, dolce, perché è donna e madre. Sognavo che scendesse in campo, ma B. le vuole troppo bene per esporla a subire quel che ha dovuto subire lui. La vista di padre e figlia così vicini e così innamorati l’uno dell’altra mi commosse. Io mi sentii imbarazzata nel presentarmi. Ma lei fu aperta e gentilissima. Così non ci fu una notte in cui non sia rimasta al San Raffaele al fianco del presidente.»
«Stiamo cercando una casa normale, tutta per noi»
«Gli dicevo: “Tra noi ci sono quasi cinquant’anni di differenza, è vero, potrei esserti figlia e perfino nipote. Lo so che hai tantissime aspiranti fidanzate. Ma io sono innamorata di te e, prima o poi, tu ti innamorerai di me”. Lui resisteva: “Devi ragionare. Io ti stimo e ti voglio bene, ma non posso darti un futuro…”. Questa storia del futuro continuò a ripetermela per molto tempo e io ci soffrivo moltissimo. “Io ti voglio molto bene,” mi diceva “ma mezzo secolo di differenza tra noi è insuperabile.” Io continuavo a tenere a distanza le tante signore e signorine che stravedevano per lui e gli facevano la corte. Ma lui era come il miele per le mosche: leader politico, capo del governo, presidente del Milan, numero uno della televisione e del cinema, simpatico, ironico, affascinante, e con una fama indiscussa di grande amatore. Ce n’era abbastanza per disperarmi. Ma io tenni ugualmente duro: “Si accorgerà che nessun’altra può arrivare ad amarlo come lo amo io”.
«Furono anni molto difficili. Partecipai anch’io a qualcuna delle famose “cene eleganti”, che in effetti tali erano. Ho conosciuto quasi tutte le donne che assediavano il presidente e sono stata gelosissima di tutte. Come lo sono ancora, anche di una commessa che vuole farsi una foto con lui. In questo, sono peggio di una siciliana. Noemi Letizia? È vero che siamo amiche. Alla festa dei suoi 18 anni c’ero anch’io. Dopo la serata, il presidente mi disse: “Vedrai che riusciranno a dire qualcosa di negativo sulla mia partecipazione al compleanno di questa Noemi. Avevo promesso di esserci e, come al solito, ho mantenuto la parola. Hai visto anche tu quanta gente c’era e quante foto ho fatto. Ma mi sa che ci monteranno sopra una storia…”. Aveva, purtroppo, come sempre ragione.
«Finalmente, il 16 dicembre 2012, nella trasmissione di Barbara D’Urso, lui, rispondendo a una domanda inaspettata, si lasciò andare e dichiarò pubblicamente: “Francesca è la mia fidanzata, con lei mi sento bene…”. Finalmente. Era ora. Da allora sono sempre al suo fianco, lo inseguo, lo assedio, lo controllo, non lo lascio mai. Adesso stiamo cercando una casa a Roma. Perché, ha ragione lei, dottor Vespa, palazzo Grazioli è di una tristezza unica, con la finestra del suo studio che guarda su un vicolo e lo costringe a tenere la luce sempre accesa. Ma lui, da dov’è, non si vuole muovere perché palazzo Grazioli funziona: è casa, è ufficio, è partito, è tutto. Comunque, io non dispero. Vorrei per noi una casa normale, luminosa, moderna e, soprattutto, separata dall’ufficio.»
Su un solo punto Francesca Pascale è in totale disaccordo con Berlusconi: la passione per le moto. «Lui dice no, no, assolutamente no…»
Quindi? «Mi sono comprata una Harley-Davidson Seventy Two e non posso nemmeno portarla ad Arcore.»
Questa moto è un mito. Nella pubblicità dei rivenditori c’è scritto: «Essenziale ed estrema, incarna l’essenza dei chopper degli anni Settanta», cioè dei trasgressori che si facevano personalizzare la moto al punto di renderla una loro appendice esistenziale. «Ho sempre avuto questa passione, ma da piccola a casa mia non mi consentivano nemmeno di andare in bicicletta. Quando potei decidere da sola, non avevo i soldi per comprarla. E quando li ho avuti, B. mi ha proibito di comprarla. Non ho obbedito e tengo la moto presso un concessionario Harley a Monza, che è uno dei più importanti nel mondo. Sono loro che mi hanno presentato Alberto Cecotti, pilota, che mi ha insegnato a guidare le due ruore.»
A quale velocità può arrivare la moto? «Duecento all’ora. Io non l’ho raggiunta mai. Gli eccessi mi spaventano. Casco integrale, guanti. Nessuno può riconoscermi.»
Lui l’ha vista? «Sì.»
Gli piace? «Non lo ammetterà mai. Cerca di dissuadermi, ma sinora non c’è ancora riuscito.»
Coltiva altre passioni? «Solo una: il mio Presidente.»
Le domando del suo impegno sui diritti civili. «Sì, sono favorevole alle unioni civili, anche tra persone dello stesso sesso. Ma non parlerei di matrimonio, che è un sacramento, parlerei più semplicemente dell’unione tra due persone. Sono favorevole anche alle adozioni da parte di coppie omosessuali. I bambini soffrirebbero ad avere due papà o due mamme? È negli orfanotrofi che soffrono. I bambini cercano amore e stanno male quando non si sentono amati. Io ho sofferto moltissimo nel non sentirmi amata da mio padre. E oggi sono così legata a Silvio perché è il mio fidanzato, il mio amante, ma anche il padre che ho sempre desiderato, la figura che mi è sempre mancata. I figli soffrono e piangono in assenza di amore.»
Com’è lui in privato? «È tenerissimo, divertente, ironico, instancabile. I film che amo io, quelli romantici, i supereroi, i cartoni, non gli piacciono. Non ricordo un film visto con lui. Legge, scrive, studia, pensa, telefona continuamente. Liti? Spesso e su ogni argomento: anche su come collocare un soprammobile su una mensola. Mi dà sempre torto. Ma pochi minuti dopo…»
Politica? «No, grazie. Ci ho provato, ma poi ho preferito starne fuori. La Forza Italia che immagino è diversa da quella di oggi. Vorrei che tornasse alle origini, che fosse il partito che ho conosciuto io, un partito liberale senza liti interne e senza gelosie, dove non ci siano né falchi né colombe. Solo uomini e donne liberi e di buonsenso con tanta passione, tanto entusiasmo, tanti ideali. Un partito che possa davvero aiutare questo paese a risollevarsi. È quello che cerca ancora di costruire il nostro presidente.»
L’erede di Berlusconi? «Berlusconi. Lo dico a malincuore, sa? Il problema è che chiunque arrivasse, dovrebbe fare i conti con vent’anni di Berlusconi, un protagonista carismatico con alle spalle una carriera imprenditoriale unica, un leader che ha fatto innamorare milioni di persone. Non ho mai visto tanta gente catapultarsi sull’auto di un altro politico come fa con lui. Non ho mai visto nessuno entrare in un ristorante e avere tutti i presenti che si alzano in piedi e lo applaudono.»
Renzi? «Racconta benissimo la favola di un’Italia nuova e giusta. Ma mi spiace che non sia favorevole ai diritti civili. Mi dicono che sia la moglie a frenarlo su questo tema, e mi dispiace. B., invece, è da sempre convinto ma, dovendo preservare l’unità della coalizione di centrodestra, ha dovuto tenere conto anche delle posizioni degli altri partiti.
«B. mi dice sempre che ho la capacità di capire, di valutare una persona in pochi minuti. Non credo sia merito mio, credo sia una sensibilità, un talento che abbiamo noi donne. Alfano, per esempio. Quando era il delfino più delfino che si possa immaginare, io dissi al presidente: “Secondo me, un giorno se ne andrà per conto suo, ma non sarà mai un vero leader…”.»
Arriva Dudù. Ed ecco Dudina, la fidanzata, più piccola. «Io cercavo un cagnolino che mi facesse compagnia. Una sera è arrivata la Brambilla tutta vestita di nero, me la ricordo bene, ha aperto la tasca del cappotto ed è spuntata la testolina bianca di Dudù. Me ne sono innamorata subito. Poi, la primavera scorsa, è arrivata Dudina. E adesso voglio i cuccioli di Dudina e di Dudù!»
Dalla vetrata che si apre sul parco appare Berlusconi. Francesca continua: «Quando rientra da Cesano Boscone, è sollevato per la carica di umanità che ci trova. Ma alla sera, alle 23, quando i carabinieri o i poliziotti suonano alla porta per controllare se è in casa, diventa triste, molto triste. È davvero incredibile e inaccettabile che l’Italia possa trattarlo così…».