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Il discorso del sindaco consistette in una raccolta di frasi trite sul lasciarsi il dolore alle spalle, sul trionfo del bene sul male e sull’onorare i morti. A metà dell’orazione, Ines si sporse verso gli altri per sussurrare una battuta dal telefilm Friday Night Lights, “Chi ha cuore e coraggio non perde!”, e Sloane si dovette coprire la bocca perché dal pubblico non la vedessero ridere. Albie finse un attacco di tosse ed Esther tirò una gomitata nelle costole a Ines. Matt si costrinse a conservare un’espressione seria. Solo per un istante, Sloane si sentì un po’ ripagata.

I flash delle macchine fotografiche scattarono da ogni parte quando il discorso si concluse e la folla applaudì. Sloane vi si unì, finché i palmi cominciarono a pizzicare. Seguì una serie di salde strette di mano e, finalmente, arrivò il momento per i Prescelti di benedire il Monumento dei Dieci Anni con i loro passi santi o che altro diavolo aveva detto il sindaco Clayton. Sloane si domandò se poteva approfittare della scusa per togliersi le scarpe, visto che le stringevano. Di sicuro non si poteva benedire qualcosa con tacchi così scomodamente alti.

La scatola di metallo era circondata da una piattaforma di cemento. Sloane scese i gradini del palco e ne sentì il calore sotto le suole delle scarpe. Le sembrava di camminare sulla superficie di un mare grigio. Il monumento era un’isola di bronzo cento metri più avanti, unico punto di luce calda in mezzo alla desolazione ed etereo, come un miraggio. Mentre lo guardava, Sloane si sorprese di sentirsi affiorare le lacrime agli occhi. Con il tempo, il bronzo sarebbe invecchiato, la sua lucentezza avrebbe lasciato il passo a un opaco strato di ossido verde. Anche il ricordo di quello che era successo sarebbe sbiadito e sarebbe diventato opaco, e il monumento sarebbe stato dimenticato, meta di gite scolastiche e dei tour in autobus per appassionati di storia.

Anche lei si sarebbe ossidata. Sempre famosa ma sempre più sbiadita, come le vecchie stelle del cinema, che portavano in viso il fantasma della loro versione più giovane.

Era strano sapere con certezza di aver già vissuto il momento più alto della propria esistenza.

Camminò verso la scatola seguendo Albie, gli altri erano dietro di lei. Non riuscì a trattenersi dal gettare un’occhiata dall’altra parte del fiume, verso il punto in cui si era fermato Matt durante l’ultima battaglia, il Ramo d’Oro sollevato che gli proiettava una luce sovrannaturale sul viso. Uno della manciata di momenti in cui si era innamorata di lui.

C’era una stretta apertura nel lato della scatola dalla quale si accedeva all’interno e Albie vi si infilò immediatamente. Ines stava per seguirlo, ma Sloane la fermò con una mano. «Lasciamogli un momento da solo.»

Ogni membro del gruppo si combinava con gli altri in un modo diverso, e ognuno conosceva meglio un pezzo diverso degli altri. Esther sapeva come far ridere Albie, Ines riusciva quasi a leggergli nel pensiero e Matt sapeva come farlo parlare. Ma Sloane era l’esperta di Albie nei suoi giorni negativi, ed era escluso che quello non lo fosse.

«Questa è decisamente una cosa su cui la gente finirà per pisciare» commentò Ines.

«Non è necessario riempire proprio ogni singolo silenzio» reagì Matt.

«Vado dentro a vedere se sta bene» disse Sloane. «Datemi un minuto o due.»

«Certo» rispose Matt.

«Sì, così Esther avrà il tempo di calcolare la giusta angolazione per la foto» aggiunse Ines.

Esther le tirò una sberla sul braccio, poi tirò fuori il telefono. Sloane fuggì dalla scena prima di lasciarsi convincere a fare un altro selfie, cercò l’ingresso del monumento e vi si infilò dentro.

C’erano piccole lettere incise sulle pareti di metallo: i nomi di tutte le persone uccise dall’Oscuro. Ci erano voluti anni per trovarli e inciderli tutti, a quanto aveva detto l’artista, e i caratteri erano per lo più così piccoli che si leggevano appena. L’artista aveva montato dei pannelli luminosi dietro le lamine di metallo in modo che i nomi brillassero. Sembrava di osservare un cielo notturno in qualche vasta terra disabitata, senza l’inquinamento a interferire con la luce delle stelle.

Albie stava al centro del cubo, e fissava una parete.

«Ehi» gli disse lei.

«Carino qui, vero?»

«Il bronzo è stato una buona scelta. È quasi accogliente. Hai trovato il nome di tuo padre?»

«No. Ago, pagliaio.»

«Forse potremmo chiedere all’artista.»

Albie si strinse nelle spalle. «Credo che il punto sia che uno non dovrebbe leggere i singoli nomi. Dovrebbe solo farsi l’idea di quanti sono stati.»

Così tanti da non avere più importanza, pensò Sloane. Già conosceva il numero delle persone perdute per colpa dell’Oscuro. Qualunque totale compreso tra cento e un milione era solo un numero, la mente era troppo limitata per comprenderlo veramente.

«Mi piace così» disse Albie. «Mi ricorda che siamo solo una manciata di persone che ha perso qualcosa in mezzo a migliaia di altre persone che hanno perso qualcosa. Non fa né più né meno male di quanto ne faccia a una qualsiasi delle famiglie di questa gente.»

Indicò il pannello di fronte a lui. Albie aveva solo trent’anni, ma i suoi capelli erano diventati sottilissimi e si andavano diradando sulle tempie. Aveva anche rughe sulla fronte, abbastanza profonde da essere notate. Il tempo lo stava consumando.

«Sono stanco di essere speciale» disse lui con una risata incerta. «Sono stanco di essere ricordato per la cosa peggiore che mi sia mai capitata.»

Sloane gli andò vicino, così vicino che le loro braccia si toccarono. Pensò alla pila di documenti del governo nell’ultimo cassetto della sua scrivania, a Rick Lane che parlava di lei come se lei fosse un pezzo di carne dal macellaio, agli incubi che dal sonno la inseguivano fin nella veglia.

«Sì» disse sospirando. «So cosa intendi.»

O almeno, lo credeva. Ma vide la mano di Albie tremare quando lui la sollevò per passarsela sul viso, e si domandò se lo sapesse davvero.

«Toc-toc!» Esther teneva il telefono sollevato – rivolto verso il suo profilo migliore, ovviamente – entrando nel monumento, i capelli perfettamente sistemati sopra le spalle. Si spostò in modo da includere anche Albie e Sloane nell’inquadratura. «Fate ciao ai miei follower di Instagram, ragazzi!»

«È una diretta?» chiese Sloane.

«No» rispose Esther.

Sloane lanciò un’occhiata ad Albie e poi sollevò entrambi i medi mentre Albie si portava le mani alle guance per fare un sonoro rumore di scoreggia. Ines entrò dopo Esther, con l’aria nervosa, e vide Sloane che a sua volta agitava i medi accanto alla faccia di Albie. Esther abbassò il telefono, imbronciata.

«Doveva essere una registrazione dal vivo della mia prima volta nel Monumento dei Dieci Anni! Ora sarò costretta a rientrare e fare finta che sia la prima volta.»

Uscì di furia, passando davanti a Matt.

«Che cosa mi sono perso?» chiese lui.

«Aspetta» disse Albie, portandosi un dito alle labbra.

Esther rientrò, il telefono tenuto alto e lontano dal viso, gli occhi spalancati in finto stupore mentre guardava i nomi illuminati. Albie schizzò avanti e inclinò la testa in modo da entrare nell’inquadratura e disse: «È la seconda volta che lo fa! Non lasciatevi ingannare…».

Esther lo spinse via e abbassò il telefono. «Che problemi avete, tutti?»

«Noi? Sei tu quella che ha un telefono innestato nella mano!» rispose Sloane. «Sei peggio di Matt.»

Matt sollevò i palmi. «Io non c’entro.»

«Non sono la prima persona al mondo a usare i social media!» protestò Esther. «È il mio lavoro, non è necessario che siate così maledettamente giudicanti al riguardo.»

«Questa dovrebbe essere una cerimonia austera» fece notare Matt. «E poteva rappresentare anche una buona occasione per rinsaldare il gruppo…»

«Riprenderla non la rende meno austera» ribatté Esther.

«Sì, se passi il tempo a cercare l’inquadratura migliore per i selfie» disse Ines, mimando Esther che sollevava il telefono. Si mise in posa buttando in fuori un fianco. «“Ecco a voi i nomi dei morti, ed ecco il mio culo sexy.”»

Sloane non riuscì a reprimere una risatina. Le uscì così acuta che si coprì la bocca con la mano, imbarazzata.

«Sloanie Sloanie Maccheroni ha appena fatto un verso da bambina» disse Albie, sollevando le sopracciglia.

«Non ti permettere di chiamarmi così.»

«Non fare finta che non ti abbiamo visto tutti in quei video girati da Cameron» commentò Esther. «Puoi aver preso questa posa da dura che se ne frega di tutto adesso, ma nel profondo sarai sempre la bambina che ha ballato sulla musica di Diamonds Are a Girl’s Best Friend con un tutù fatto con la carta stagnola.»

Sloane imprecò contro la videocamera del suo defunto fratello e stava per rispondere quando Matt parlò. «Ho trovato Bert.»

Il vero nome di Bert ovviamente non era Robert Robertson. Lui gli aveva rivelato quello vero in segreto pochi mesi prima della sua morte perché potessero ritrovarlo se perdevano i contatti. Ma nessuno di loro pensava a lui come Evan Kowalczyk; per loro sarebbe sempre stato Bert.

Andarono tutti a mettersi dietro a Matt e seguirono la linea del suo dito fino a un piccolo nome: EVAN KOWALCZYK, scritto tutto a lettere maiuscole. Lei non aveva idea di come Matt l’avesse scovato tra tutti quei nomi e tutti quei pannelli. Era come trovare un particolare albero in una foresta di alberi identici. La mano di Matt ricadde e il nome di Robert scomparve di nuovo nella parete, confondendosi in mezzo agli altri.

Tutte quelle perdite, e tutte per niente. Per un signore delle tenebre e la sua fame insaziabile.

«Mi domando che cosa farebbe ora» disse Matt.

«Probabilmente si starebbe rifiutando di godersi la pensione» rispose Ines.

Sloane si voltò verso l’ingresso prima che la sua espressione la tradisse. Non voleva riferire agli altri che cosa aveva letto nei file che le aveva mandato l’agenzia governativa, non voleva parlare degli indizi che vi aveva trovato di un Bert che non aveva mai conosciuto.

«Andiamo» suggerì. «Si staranno chiedendo dove siamo finiti.»