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L’invito alla serata di gala era attaccato al frigorifero con il nastro adesivo: CELEBRIAMO DIECI ANNI DI PACE. Come se la sconfitta dell’Oscuro avesse portato armonia nel mondo intero. Non era così, naturalmente, ma almeno per gli Stati Uniti era stato il motivo per ritirarsi da tutto. Una nuova era di isolazionismo, l’avevano chiamata i titoli dei giornali. Le reazioni erano state… contrastanti. C’era chi aveva festeggiato per il ritiro delle truppe dagli altri Paesi, ma aveva protestato per l’abbandono delle organizzazioni internazionali che si preoccupavano di preservare la pace. E chi aveva esultato per la chiusura dei confini, ma aveva obiettato alla riduzione della presenza militare all’estero. A prescindere dalle posizioni, però, tutti avevano condiviso la stessa paranoia: nessuno conosceva le origini dell’Oscuro, il che significava che poteva essere arrivato da qualunque parte. Poteva essere stato un amico o un vicino di casa, un rifugiato o un immigrato. Persino la madre di Sloane si era procurata il porto d’armi e si esercitava al poligono di tiro una volta al mese, come se le pistole avessero mai salvato qualcuno dall’Oscuro, che faceva implodere le armi dall’interno, come edifici che collassassero, deformando e torcendo il metallo senza neanche toccarlo. Sloane non poteva fare a meno di domandarsi quanto ci avrebbero messo all’ARIS a trovare il modo di imbrigliare un potere simile. Se non l’avevano già fatto.

Prese il vestito dall’armadio e lo appese alla porta. Era un abito lungo con perline dorate che sembrava uscito dagli anni Venti. Era pesante sulle spalle, per cui non aveva intenzione di indossarlo che all’ultimo momento. In un giorno normale, non si sarebbe presa il disturbo di vestirsi con tanta eleganza, ma Sloane amava le occasioni formali, anche se non l’avrebbe mai ammesso con nessuno. Poco prima si era perfino nascosta in bagno per guardare un tutorial di Esther su Instagram per imparare a mettersi l’eyeliner a coda di rondine. Se Esther l’avesse scoperto, non gliel’avrebbe mai fatta passare.

La forma purtroppo aderente dell’abito di perline significava che doveva trovare il capo di abbigliamento che più temeva al mondo: il body modellante. Il più grande strumento di contenimento di busti femminili non proprio perfetti dopo il corsetto. L’ultima cosa che voleva era risvegliarsi con i siti di gossip che mostravano sequenze di foto sempre più zoomate del rotolo di ciccia intorno alla sua vita, accompagnate da speculazioni sullo stato del suo grembo. Le voci su una presunta gravidanza la perseguitavano fin dal momento in cui lei e Matt si erano messi insieme.

Non riuscì a trovare il body nel cassetto dell’intimo né in quello delle calze, per cui si rivolse al guardaroba di Matt. A volte si perdeva nel mare di boxer elasticizzati neri che lui preferiva: frugò lì in mezzo, e le sue dita sfiorarono un oggetto piccolo e duro.

Una scatolina che le stava nel palmo. Nera.

“Cazzo.”

Sloane gettò un’occhiata alla porta; era ancora chiusa e non si sentivano movimenti in corridoio. Bene. Aprì la scatoletta. Conteneva un anello, ovviamente; e non un anello qualunque, ma uno in stile antico, tempestato di pirite invece che di diamanti. Si era ricordato che tipo di gioielli le piacevano, anche se lei non ne indossava mai.

Chiuse la scatoletta di scatto e la rinfilò nel cassetto, sentendosi stringere alla gola. Naturalmente sapeva che cosa significava: lui aveva intenzione di chiederle la mano. E presto, probabilmente, perché non si sarebbe fidato del cassetto della biancheria come nascondiglio se non per poco tempo. Considerata la sua passione per i gesti eclatanti, probabilmente l’avrebbe fatto al gala di quella sera.

Sloane si sentì male dal terrore. Aprì la porta e sbirciò in corridoio. Matt era al telefono con il suo assistente, Eddie. Il suo calendario era pieno fino a scoppiare di campagne civili. Solo quella settimana doveva moderare un dibattito sull’incarcerazione di massa, presenziare a un evento di finanziamento per una scuola e incontrare un senatore per parlare del finanziamento statale a un servizio di consulenza psicologica per i sopravvissuti agli attacchi dell’Oscuro affetti da sindrome post-traumatica. Probabilmente sarebbe rimasto al telefono per un po’.

Richiuse la porta e si sedette sul bordo del letto, fissando la casa a due piani dall’altra parte della strada, quella con la gronda decorata da fili di pacchiane lucine azzurre accese in qualunque periodo dell’anno.

Prese il telefono e compose un numero che non componeva da anni. Il numero di sua mamma.

«Pronto?» disse June Hopewell, la voce più brusca che mai.

«Mamma?»

«Sloane?»

Sloane aggrottò le sopracciglia. «Sì, sono io, a meno che tu non abbia qualche altro figlio in giro di cui non sono a conoscenza.»

«Ti ho visto in televisione stamattina» disse June. «Sicura di non voler ripensare la tua politica “niente autografi”? Sembravi una inseguita dai lupi.»

«Sì, mamma. Sono sicura.» Sloane non pensava che a sua madre importasse davvero se lei firmava o meno gli autografi ma, dopo la sconfitta dell’Oscuro, aveva cominciato a dire la sua su tutto quello che faceva, forse nel tentativo di rimediare alla sua totale assenza come figura genitoriale quando Sloane era ancora bambina. In fondo, si era persa l’intera adolescenza della figlia dal momento che se ne era completamente fregata quando era arrivato il governo a portarla via.

«Ascolta, c’è una cosa di cui vorrei parlarti» disse Sloane. «Ho appena trovato un anello nel cassetto della biancheria di Matt. Un anello di fidanzamento.»

Sua madre rimase in silenzio all’altro capo del telefono. «Okay, e allora?»

«E allora?» Sloane si batté una mano sulla fronte. «E allora sono in panico!»

«Slo, state insieme da dieci anni.»

Sloane sentì le guance scaldarsi. «Non ne abbiamo neanche mai parlato! Non pensi che se voleva sposarmi avrebbe dovuto, insomma, sollevare casualmente l’argomento matrimonio a un certo punto? A quanto ne sa lui, io odio tutte le istituzioni per principio.»

«Il che non è affatto sorprendente, considerando il numero di cose che odi» disse June, un accenno di divertimento che le si insinuava nella voce. «Forse voleva farti una sorpresa.»

Sloane guardò dalla finestra un gatto che camminava lungo il bordo del marciapiede.

«Sloane.» Sua madre sospirò. «È il meglio che potrai mai avere. Fidati.»

Lei non rispose.

«Devo andare» disse sua mamma.

“Dove?” avrebbe voluto chiedere Sloane. Riattaccò senza neanche salutare. June non ne sarebbe rimasta sorpresa. Di solito parlavano solo una volta all’anno, a Natale, per circa cinque minuti. Non si erano mai scambiate un “Ti voglio bene” da quando Sloane era bambina. Da quando suo padre se n’era andato per poi risaltare fuori morto in un obitorio dell’Arkansas, ucciso da un Gorgo, e June era stata costretta ad andare a identificare il corpo.

“È il meglio che potrai mai avere.” Aveva ragione, naturalmente, perché Matt irradiava così tanta bontà che a volte veniva voglia di tirargli un pugno. Non amarlo era come non amare la libertà. O i cuccioli.

Ma c’era qualcosa nel modo in cui June l’aveva detto che irritava Sloane. “È il meglio che tu potrai mai avere” sottintendeva. E anche questo era vero. Che cosa avrebbe potuto fare, scaricare una app di incontri? Fingere di avere un lavoro normale? A quale punto della conversazione avrebbe accennato al fatto di essere una dei cinque salvatori dell’umanità? Era un argomento da terzo appuntamento o più da quinto?

Ma sarebbe stato bello, pensò, se June le avesse detto qualcosa di carino e di rassicurante per una volta.

Sloane rimase seduta con il telefono tra le mani. Il sole stava tramontando, e le lucine azzurre si erano già accese dall’altra parte della strada. Si sentiva instabile, come se la stanza si fosse spostata intorno a lei. Ma sapeva anche che, in qualunque momento Matt le avesse fatto la proposta, lei avrebbe risposto di sì, perché era l’unica cosa razionale da fare. Si sarebbero sposati e lui si sarebbe preso cura di lei e lei avrebbe provato con tutte le sue forze a essere abbastanza per lui.