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Sloane si trovava davanti all’entrata della Modern Wing dell’Art Institute di Chicago alle 9.30 del mattino, che era l’orario in cui la sua amica Rebecca la lasciava entrare, nonostante il museo non fosse ancora aperto al pubblico.

Vide Rebecca dietro le porte di vetro, mentre si fermava la treccia con un nastro. Sbadigliò, girò la chiave e fece segno a Sloane di entrare.

«Sei troppo puntuale» le disse. «Come mai non sei in preda ai postumi di una sbornia come tutti i ragazzi della nostra età?»

«Prima di tutto, la “nostra età” non esiste perché tu hai ventidue anni. E secondo, oggi è martedì.»

«E allora? Le sbronze del lunedì sera sono buone quanto quelle del sabato.»

La presenza di Sloane al museo d’arte in orari strani era diventata una cosa normale. Il personale la conosceva e nessuno aveva mai sollevato obiezioni al fatto che qualcuno la facesse entrare presto. Forse era l’unico vantaggio dell’essere una Prescelta che le piaceva davvero.

Era diventata parte della sua routine dei giorni feriali. Non aveva un lavoro. Il governo li aveva pagati per i loro anni di servizio e Sloane aveva passato i soldi a una banca d’investimento. Gli interessi le avrebbero permesso di andare avanti per un po’, se stava attenta alle spese.

Gli altri avevano trovato una maggiore stabilità finanziaria, ma a un costo. Matt aveva venduto i diritti della sua autobiografia e si era messo in società con uno scrittore esperto, guadagnando parecchi soldi, abbastanza da poter vivere di rendita. Non che lo facesse. Era sempre in viaggio, interveniva ai convegni e teneva discorsi nelle università, presenziava alle serate di beneficenza e ai gala filantropici, incontrando politici e organizzatori di comunità. Anche Esther aveva trasformato la sua fama in denaro, coltivando i suoi follower di Instagram come fossero il suo giardino. Ines aveva scritto una graphic novel sulla sua storia, rappresentando la morte dell’Oscuro con un vortice di colori. Albie, nel frattempo, era apparso in alcune pubblicità all’estero, sfruttando la sua faccia per rifarsi dei soldi che aveva speso per il centro di disintossicazione.

Prima o poi Sloane avrebbe dovuto cercarsi un lavoro per il quale la sua identità non rappresentasse un problema, e che non richiedesse qualifiche né esperienza; oppure avrebbe dovuto vendere pezzi di sé, uno alla volta, come avevano fatto tutti gli altri. Non li biasimava per questo – non molto, almeno – ma una parte di lei sentiva che avrebbe preferito vivere nel garage di sua mamma che sacrificare quel poco di privacy che aveva ritagliato dalla sua notorietà.

La Modern Wing era aperta e illuminata, un ampio corridoio bianco con gallerie su entrambi i lati. Salì le scale fino al terzo piano, quello con l’esposizione di architettura e design, da cui iniziava sempre la sua visita. La sala era vuota, ovviamente; lo era quasi sempre, a prescindere da quanto fosse pieno il resto del museo. Sloane oltrepassò le sedie fatte di filo di ferro ritorto e il vaso che sembrava latte versato e raggiunse i disegni delle proposte di edifici per la città. Si sedette su una panchina e fissò una delle tavole del Piano Burnham, il progetto urbano per Chicago che non era mai stato realizzato.

Suo fratello stava studiando architettura quando aveva risposto all’appello per combattere contro l’Oscuro. Era morto in un Gorgo, a Minneapolis. Avevano litigato sulla decisione di Cameron di interrompere l’università, anche se all’epoca lei aveva solo dodici anni. «Tu non sei un soldato» gli aveva detto. «Tu sei un secchione mingherlino e ti farai uccidere.» Un raro momento di preveggenza, forse.

Era andata a recuperare tutte le cose di Cameron a casa di sua madre e si era studiata gli schizzi sui suoi quaderni così tante volte che li conosceva tutti a memoria. Tutti, dal disegno infantile di una cuccia per il cane alla pianta precisa e dettagliata della casa dei suoi sogni. Lui aveva desiderato realizzare luoghi che fossero interessanti e accoglienti. Luoghi che non davano l’idea di una casa, l’aveva preso in giro lei una volta. Di sicuro, non della loro.

A Cameron piaceva quella sala del museo. E così, Sloane, per rendergli visita, andava lì e non sul sito del Gorgo dove lui aveva perso la vita, né nei luoghi dell’Illinois centrale che frequentavano entrambi.

Non si fermava quasi mai molto. Mezz’ora, forse, poi si faceva un giro per le altre esposizioni. Quella nuova al piano di sotto ospitava una serie di fotografie di autotreni. Dopo aver vagato da una all’altra per qualche minuto, salutò Rebecca, che sembrava già annoiata a morte, e se ne andò. Svoltò a destra, camminò fino alla pista che costeggiava il lago e fece un po’ di stretching prima di mettersi a correre verso nord, verso l’appartamento di Ines e Albie.

Il lago rifletteva un colore azzurro acciaio. Era una giornata nuvolosa e la foschia sopra l’acqua confondeva la linea dell’orizzonte. Il tragitto era lungo una decina di chilometri e ci voleva un’ora per percorrerlo, se teneva il suo ritmo consueto. Oltrepassò una piccola flotta di ciclisti in tute elasticizzate e una donna con leggings rosa shocking che portava a spasso un cane maculato. Un uomo in pantaloncini corti le passò accanto ad andatura spedita.

Sloane guardò le onde che sbattevano contro i frangiflutti, i cani che rincorrevano palline da tennis sulla spiaggia riservata, le donne con le visiere in testa che praticavano la camminata veloce muovendo i pugni avanti e indietro. Nessuno prestava attenzione a lei; lì era solo una persona come tante che faceva jogging. Lasciò il lungolago e svoltò per dirigersi verso il Java Jam.

Ordinò ansimando due caffè, poi riprese la strada per portarli all’appartamento di Ines e Albie, che occupava l’angolo del piano superiore di una grande casa a due livelli. Il tappeto delle scale era verde scuro e logoro al centro dove era stato calpestato da troppe scarpe; i muri erano coperti da una carta da parati a fiorellini viola, rossi e blu.

Ines era già sulla porta quando Sloane raggiunse il pianerottolo, aveva gli occhiali e i capelli raccolti sopra la testa. «Non è un po’ presto?» disse, prendendo il suo caffè dal vassoio e voltandosi per rientrare.

Sloane la seguì, bevendo un sorso dal bicchiere rimasto sul vassoio. Si ritrovò la bocca piena di cannella. «Cambio.»

Si scambiarono le tazze. «Non so come fai a bere quella roba; è praticamente latte.»

Le scarpe da ginnastica di Sloane scricchiolavano sul pavimento; era uno di quei pavimenti in legno di quercia giallognolo tipici di Chicago, che scricchiolavano ovunque si posasse il piede. La porta della camera di Albie era chiusa, e anche quella di Ines, ma la prima lo era come a voler semplicemente tenere fuori i rumori del corridoio, mentre l’altra era bloccata dall’esterno con un catenaccio, sicura come il caveau di una banca. Fino a pochi anni prima lei la disseminava di trappole, anche se era illegale, e Sloane non aveva il coraggio di chiederle se lo facesse ancora. Ines fingeva di stare bene, ma Sloane aveva visto la fila ordinata di medicine sul comò, e come il corpo trasaliva a certi suoni o gesti.

L’appartamento era caldo e accogliente, con un’enorme poltrona a sacco che perdeva continuamente palline di polistirolo; le tende delle due finestre che davano sul vicolo erano due semplici bandiere, rispettivamente canadese e messicana.

Ines tornò ai fornelli, e picchiettò sulle sue uova con un cucchiaio di legno. C’era odore di cipolle nella stanza.

«Sai, una volta che raggiungi i trent’anni, tutta questa cosa del vivere come una studentella diventerà meno affascinante e più inquietante» disse Sloane.

«Cosa intendi con studentella? Ti stai riferendo a Frodo?»

«Vuoi dire il gigantesco pouf che hai deciso di chiamare Frodo Baggins? Sì, mi riferisco esattamente a quello.»

«Solo perché tu ti rifiuti di goderti la vita non significa che non possiamo farlo noi altri» ribatté Ines. «Tu hai gli asciugamani bianchi in bagno e ti senti tonificata da una corsa di prima mattina sotto la pioggia. Sei uguale al padre di Calvin & Hobbes

«Mi è sempre piaciuto il padre di Calvin.»

«Ovviamente» ridacchiò Ines. «Hai già parlato con Matt?»

Sloane scosse la testa. «Aveva la roba sull’incarcerazione di massa ieri sera e una riunione stamattina. Perché?»

Ines bevve un sorso di caffè.

«Sono nei guai, vero?»

Ines si strinse nelle spalle.

«Se pensa che mi scuserò per aver tirato un pugno a quel coglione…»

«Non sono qui per sorbirmi la tua litigata con Matt prima ancora che si svolga. Solo, non aspettarti di essere ringraziata per averlo difeso come fossi il suo bianco cavaliere, senza macchia e senza paura.»

Sloane la guardò accigliata.

«Sì, l’ho detto» disse Ines. «Hai visto l’ultimo post di Essy Dice?»

«No, devo preoccuparmi?»

Ines prese il telefono dalla tasca della felpa e glielo passò. Era già pronto sull’account Instagram di Esther.

Sloane riconobbe l’ambientazione consueta dei video di Esther: il suo ufficio, che era arredato come il sogno di un utente Pinterest, con tende di tessuto elegante dai colori tenui, un filo di lucine rosa chiaro e una costosa videocamera che catturava tutta la lucentezza dei suoi capelli e ogni ninnolo sugli scaffali. E, al centro di tutto, Esther, vestita con una maglia grigio mélange con i polsi rivoltati, mentre beveva tè da una tazza con sopra disegnato un piccolo uccello. Il video si intitolava: “Essy Dice fa strada!”.

Sloane guardò Esther presentare un pezzo di video del giorno prima in cui mostrava in avanzamento veloce le operazioni di pulizia del viso e di trucco mentre si preparava per uscire. Sloane era affascinata in modo perverso dal numero di passaggi previsti dal trattamento della pelle quotidiano di Esther. Lei non sarebbe mai riuscita a ricordarsi così tante cose di prima mattina. Non senza un caffè. E delle anfetamine, forse.

«Non ho intenzione di guardarla truccarsi, mi fa venire l’orticaria» disse, ma Ines stava già allungando il braccio verso il cellulare. Mandò ancora avanti il video, oltre l’applicazione di cipria, eyeliner e ombretto, finché tornò Esther con la sua maglia grigia che sorseggiava il tè.

«Ho delle novità da raccontarvi» diceva con uno scatto delle sopracciglia. Parlava con la sua voce da video, allegra e melliflua; simile a quella reale, ma esasperata. «No, non sto parlando dell’incredibile pugno sferrato dalla mia amica Sloane, il link se volete vederlo è nel commento.»

Sloane sospirò. «Fantastico.»

«A breve lancerò Essy, il mio marchio personale di stile e moda!» I suoi occhi perfettamente disegnati dall’eyeliner luccicavano. «È così, da ora avrete un unico punto di riferimento per tutti i consigli e le recensioni che potreste chiedere su qualunque prodotto! E voi lo sapete che il vostro sogno è diventare ragazze Essy.»

«Be’» disse Sloane quando Ines fermò il video. «Era inevitabile, immagino.»

Ines spense il fornello e fece cadere le uova in un piatto che aspettava sul ripiano della cucina. «L’ho invitata a venire giù con me tra un paio di settimane. Dovresti venire anche tu. Allontanarti dal freddo.»

«Io amo il freddo» replicò Sloane. «È il mio sangue nordico.»

«No, è la tua determinazione ad amare tutto quello che gli altri odiano e a odiare tutto quello che gli altri amano.» Ines infilzò con la forchetta le uova strapazzate. «Dovresti venire comunque. Ho intenzione di rapire Albie.»

Sloane trasalì alla parola “rapire”. «L’hai visto dopo…» disse. «Ti ha detto se il prototipo ha funzionato?»

Ines aggrottò le sopracciglia. «No… è tornato a casa ieri sera ed è subito sparito nella sua stanza. Ma ha funzionato. Deve aver funzionato.»

Tutto a un tratto Sloane provò un irresistibile bisogno di dormire.

«Forse non è così male» proseguì Ines, stringendosi un po’ nelle spalle. «Se il mondo si sta rompendo… quella ragazza che volava verso il cielo, mio Dio… forse avremo bisogno della magia per aggiustarlo.»

«Semmai, è stata la magia a romperlo» osservò cupamente Sloane.

«La odi così tanto.» Ines indicò con la testa il nodo di cicatrici sulla mano di Sloane. «Ma non hai mai spiegato perché.»

Sloane nascose la mano sotto il ripiano. «Non è che proprio la odi, è solo che ho visto che cosa può fare.»

«L’abbiamo visto tutti.»

«Già.» Ma Sloane non parlava dei Gorghi o del grattacielo crollato, e neanche della morte dell’Oscuro. Parlava del sapore di rame e sale sulla sua lingua quando era riaffiorata dall’Immersione.

Il suo caffè era finito, rimaneva solo la schiuma.