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«L’hai rivisto dopo che è tornato dal sito del Gorgo?» chiese Matt.

Erano nella sua Bmw, diretti in ospedale, fermi al semaforo rosso più lungo del mondo. O così sembrava a Sloane.

Lei guardò fuori dal finestrino. «No.»

Aveva piovuto, per cui le luci al neon colorate della cooperativa di credito sull’angolo si riflettevano sulla strada. Il fruscio degli pneumatici sull’asfalto bagnato e il ruggito del motore diesel ripartirono quando il semaforo divenne verde. Nessuno dei due aveva acceso la radio per riempire il silenzio.

«Scusa per…» fece per dire Matt.

«Per favore, no.» Sloane si coprì la faccia con la mano. «Sono… concentriamoci su Albie.»

Aveva trovato un pinguino di origami nel sacchetto della farina la settimana prima. Le pieghe erano tutte nette, il che significava che era uno di quelli vecchi. Ma comunque lui aveva avuto il pensiero di metterlo lì, sapendo che l’avrebbe fatta sorridere. A volte aveva l’impressione che Albie fosse l’unica persona al mondo che la conosceva. E questo perché non voleva niente da lei, né sesso, né amore, né segreti. Non c’era moneta di scambio tra loro due.

Ines non aveva detto perché Albie si trovava in ospedale, ma Sloane aveva alcune ipotesi.

Un incidente, forse; era sempre possibile. Potevano anche essere ripercussioni sconosciute del dispositivo magico che aveva sperimentato al sito del Gorgo; ne capivano così poco di magia, non l’avrebbe sorpresa scoprire che in realtà era dannosa, come le radiazioni, e che andava solo degenerando con l’esposizione prolungata. Ma l’ipotesi più probabile era prevedibile e dolorosamente umana: Albie ci era ricaduto ed era andato in overdose.

Matt si infilò nel parcheggio multipiano dell’ospedale, e lui e Sloane scivolarono nelle vecchie abitudini. Lei era più brava nell’orientarsi nei posti nuovi, nell’individuare e interpretare i segni, e aveva maggiore intuito nell’indovinare la struttura di edifici e spazi pubblici. Matt la seguì fino al passaggio che conduceva al Pronto Soccorso e poi alla sala d’attesa, dove era seduta Ines, con gli occhi rossi.

«L’ho trovato un’ora fa» spiegò, controllando il telefono per verificare quanto tempo fosse passato. «Immagino avesse conservato una vecchia scorta. O forse è uscito a comprarne mentre io non prestavo attenzione, non lo so. Il dottore dice che probabilmente non era più di quanto prendeva di solito, ma era pulito da così tanto tempo da non poterne tollerare più così tanta.»

«Per cui è stato un incidente? Non stava… provando niente?»

«Non posso dirlo per certo. Non è un idiota; probabilmente sapeva che era troppa.»

Sloane ascoltava, ma intanto osservava le altre persone nella sala d’attesa. Li vide lanciare occhiate nella loro direzione. Bisbigliando. Spostandosi sui sedili per tirare fuori i cellulari.

«Come stava quando è tornato dal sito del Gorgo?» chiese Matt.

«Non bene» rispose Ines. «Ma ha cercato di nasconderlo. Ha detto che era solo molto stanco, ed era già notte. Non ho pensato di controllare…»

«Non è colpa tua» disse Matt. «Non puoi leggere nel pensiero. Nessuno si aspetta che tu lo faccia.»

«Ehi» esclamò Sloane, con uno scatto del mento verso un ragazzo sui vent’anni con il gel nei capelli che teneva il telefono davanti a sé come se li stesse riprendendo. «Che cosa cazzo ti credi di fare?»

«Slo…» disse Matt.

Lei attraversò la sala d’attesa e strappò il telefono dalla mano del tizio mentre quello cercava di metterlo via, gli occhi sgranati. Passò il dito sullo schermo per cercare il video, lo cancellò, poi gli rilanciò il telefono in grembo, colpendolo allo stomaco così forte da produrre un rumore come di uno schiaffo.

«Fatti i fatti tuoi» gli sussurrò.

Matt andò a chiedere all’accettazione se ci fossero stanze libere in cui potevano aspettare, e Sloane si sedette accanto a Ines in silenzio.

Passarono le ore successive in una camera dell’ospedale vuota, Ines seduta sul comodino, Matt e Sloane sulle sedie. La stanza era tutta grigia e verde acqua chiaro, gli stessi colori della cucina della casa in cui era cresciuta Sloane. Non appena entrarono, Ines accese subito la televisione e cercò il canale delle repliche serali di una sitcom che le piaceva da bambina. Il corpo di Sloane ricordava ancora come dormire in situazioni di ansia, per cui si abbandonò sulla sedia, appoggiò la testa al muro e in pochi minuti cadde nel dormiveglia, con nelle orecchie il suono delle risate registrate.

Era circa mezzanotte quando la porta finalmente si aprì ed entrò una donna di mezza età che indossava un camice da laboratorio sopra i pantaloni e la camicetta, i capelli tirati indietro e l’espressione grave.

«Salve. Sono la dottoressa Hart. Voi dovete essere gli amici di Albert.»

Ines si stava raddrizzando, passandosi le mani tra i capelli. Matt era già in piedi, aveva passato il tempo a cambiare i canali della televisione. Sloane rimase semplicemente a fissare la dottoressa perché dal tono della sua voce e dalla curva titubante delle spalle già sapeva che cosa li aspettava.

«Ho cattive notizie» disse la dottoressa Hart.

Quello che seguì fu solo rumore statico su uno schermo televisivo, il ronzio del segnale di una linea occupata. Sloane colse i punti salienti: collasso degli organi, Albie, chi avrebbe dovuto contattare la sua famiglia. Morto. La dottoressa avrebbe dato loro un po’ di tempo, sarebbe tornata più tardi per rispondere a qualunque domanda. Era dispiaciuta per la loro perdita.

Sloane sbatteva gli occhi fissando i due cestini che aveva davanti, uno rosso, per il materiale pericoloso di origine biologica, e l’altro bianco, per gli altri rifiuti. Sul muro c’era un poster con il disegno del sistema circolatorio, un uomo composto di vene e arterie.

Non c’era niente di meglio di un Gorgo per ricordarti di che cosa si componevano gli esseri umani. Era quello che aveva pensato Sloane la prima volta che ne aveva visto uno in azione. Il modo in cui la gente ti si scomponeva davanti agli occhi, mostrando ossa, muscoli e organi interni tutti schiacciati insieme un istante prima che si separassero. Sloane era attratta dagli oggetti meccanici; le piaceva vedere come funzionavano. Era sempre rimasta sbalordita di fronte alla complessità del corpo umano rivelata in modo così raccapricciante, nei momenti prima di rendersi conto che aveva davanti la morte.

Ma del corpo il Gorgo rivelava anche le fragilità. Quanto era morbido, quanto era facile distruggerlo. Lei non aveva difficoltà a credere che Albie se ne fosse andato, nella realtà dei fatti. Il suo corpo era come quello di chiunque altro, cedevole, frangibile.

Ma di comprendere il vuoto che si era lasciato dietro non ne era capace.

La dottoressa Hart se ne andò in silenzio. Nessuno di loro pianse. Nessuno di loro si mosse. L’orologio ticchettava e le notizie della sera ronzavano dalla tv.

Alla fine, Sloane sentì il bisogno di muoversi, di fare qualcosa perché altrimenti, pensò, si sarebbe messa a gridare. Prese il telefono dalla tasca e aprì la rubrica.

«Chiamo Esther» disse allo schermo del telefono invece che direttamente a Ines e Matt. «Uno di voi può mettersi in contatto con la madre di Albie? Io non le sono mai piaciuta.»

Matt la fissava come se non avesse idea di che cosa stesse parlando.

«Ci penso io» si offrì Ines.

«Grazie» rispose Sloane. «Vado in corridoio, tu rimani qui.»

Si alzò, la schiena le faceva male dopo essere rimasta per tanto tempo sulla sedia. Pensò al dolore, allo scricchiolio del pavimento sotto le sue scarpe da tennis, all’odore di solvente chimico nell’aria. Un’infermiera le rivolse un sorriso a labbra serrate, e lei lo restituì, di riflesso.

Almeno c’era un protocollo da seguire. Chiama la famiglia, chiama gli amici. Poni le domande su cui potreste interrogarvi nelle prossime settimane o nei prossimi mesi, anche se ora non vi importa dei particolari. Poi vai a casa, dormi.

Sloane non aveva bisogno di interrogarsi sulle disposizioni per la sepoltura. Sapevano tutti quali erano le preferenze di ciascuno: era un genere di discorsi che avevano affrontato ai tempi dell’Oscuro, parlando dell’evenienza “Se non dovessi farcela”. Albie desiderava essere cremato. E che le ceneri fossero disperse sopra il sito di un Gorgo, non importava quale. Niente funerali in grande, non gli piaceva la folla.

Esther si trovava in una discoteca quando Sloane la chiamò; era difficile sentirla sopra il martellare dei bassi. Sloane dovette gridare per dirle di uscire dal locale. Le diede la notizia come aveva fatto la dottoressa: diretta, chiara, concisa.

Dopo aver riattaccato, sprofondò in posizione accovacciata, appoggiando la schiena contro il muro di mattoni di cemento intonacati alle sue spalle. Guardò gli infermieri andare avanti e indietro, con i loro camici e le Crocs ai piedi. Pensò alle dita tremanti di Albie, e di come le aveva messo in mano i tovagliolini quel giorno nel bar perché se li avvolgesse intorno ai piedi.

Rimase così finché le si addormentarono le gambe.