Sloane camminava zigzagando tra le tende che circondavano il sito del Gorgo. Aveva piovuto da poco, per cui il terreno era morbido sotto gli stivali. C’erano meno persone in giro rispetto a quando vi era andata di giorno, e quelle che si trovavano ancora fuori erano raccolte intorno alle griglie portatili o a piccoli fuochi, con lanterne appese sopra le teste o fari attaccati davanti alle tende. Sentì provenire da qualche parte una strofa di The Times They Are a-Changin’, e le parole di Bob Dylan la rincorsero, come portate dal vento freddo, per tutta la strada fino alla Cupola.
Si fermò alla barriera di sicurezza che separava la folla dei cercatori – a prescindere dal motivo per cui si trovavano lì, tutti loro stavano cercando qualcosa – dal sito del Gorgo. Non era lontana ora dal gruppo di tende verso cui aveva camminato con passo deciso qualche giorno prima per tirare un pugno in faccia a quell’uomo.
Ma ora le sembrava un sogno. Albie non c’era più, il che significava che non importava come l’aveva chiamata qualche accolito dell’Oscuro o che cosa voleva. Albie non c’era più, e ora c’era solo quello che andava fatto e la persona disposta a farlo.
Nessuno l’aveva riconosciuta, né l’avrebbe fatto. Si era cambiata i vestiti in auto. Questi erano neri e larghi, e nascondevano qualunque tratto femminile della sua figura. Era abbastanza alta da poter essere scambiata per un uomo. Si era tirata il cappuccio sulla testa, e si era coperta il naso e la bocca con la maschera in neoprene che indossava quando andava a correre in pieno inverno. Era contenta di non essersi truccata quel giorno; una cosa in meno da togliere. Alla ARIS avrebbero sospettato di lei, ne era certa, non appena si fossero accorti di che cosa aveva fatto. Ma il travestimento le avrebbe fatto guadagnare un po’ di tempo.
Prese i pezzi rotti dell’Ago di Koschei dal contenitore nella tasca posteriore. L’aveva spezzato lei stessa. Dopo che Bert era morto per essere andato a cercare lei e Albie, senza motivo, e dopo essere stata prigioniera dell’Oscuro, aveva provato repulsione per quell’Ago conficcato nella sua carne. Aveva litigato con i responsabili dell’ARIS quando si erano rifiutati di rimuoverlo; avevano detto che non c’era modo di sapere come si sarebbe comportato se l’avessero disturbato. Così una notte, con un piede in un incubo e un piede nella realtà, Sloane se l’era tolto dalla mano a morsi, strappandolo via con i denti. Poi, con ancora in bocca il sapore metallico del sangue, l’aveva spezzato a metà. Non era stato facile come quando si spezzava un ago della macchina da cucire perché l’avevi infilato in modo scorretto. Ci era voluta tutta la forza che aveva, e tutta la magia dell’Ago stesso. Subito dopo era collassata, ogni energia esaurita, e si era risvegliata in ospedale una settimana dopo, con la mano fasciata.
Da allora non aveva più toccato l’Ago a mani nude, per paura che le si potesse infilare di nuovo sotto pelle. Ma le sembrava che, da spezzato, non avesse lo stesso potere che aveva quando l’aveva trovato sul fondo dell’oceano. Ne percepiva ancora la magia, come l’agitarsi dell’acqua sul punto di bollire. Formicolava e bruciava dentro di lei, ma il suo richiamo non era più irresistibile.
La magia non era un’arma e neanche una fonte di energia immorale; era un’infezione. Ovunque arrivava, la gente moriva, i posti imputridivano e l’ordine delle cose veniva sovvertito, a volte in modo irreparabile. Ma non c’erano altre armi contro la magia sviluppata dalla ARIS se non la magia stessa.
Sloane sollevò i due pezzi di Ago sotto la luce della stazione di sorveglianza. Due punte bianche luccicavano come magneti dalle polarità opposte; lei percepì il richiamo che si formava tra le due estremità e l’urgenza insopprimibile di ricongiungersi. Non gliel’avrebbe permesso. Poi una specie di fuoco risalì lungo le sue dita fino al dorso della mano destra, al braccio, alla spalla; lo sentì fervere nel sangue e bruciare nella colonna vertebrale; sentì la forza dell’Ago, capì che voleva congiungersi anche con lei, così come voleva ripararsi.
Strinse i denti e resistette. I pezzi dell’Ago lottavano per avvicinarsi e lei li girò, stringendoli come coltelli al centro del pugno.
I palmi delle mani le bruciavano come se ci avesse versato sopra dell’acido, ma tenne stretti i due frammenti e camminò verso la stazione di sorveglianza. La guardia – non era la stessa dell’ultima volta, ma indossava la medesima uniforme anonima – le intimò di fermarsi. Lei proseguì dritta verso il cancello.
Quello che avvenne dopo fu come un riflesso, come la risposta nervosa al colpo di martelletto del dottore su un ginocchio. Sollevò di scatto le due metà dell’Ago e il cancello si staccò da terra, struttura e tutto, alzandosi fin sopra la sua testa. Poi rimase immobile, mentre lei e la guardia lo guardavano dal basso. Il vento risuonava passando attraverso gli anelli della catena, ma per il resto tutto era silenzioso.
Sloane si volse verso la guardia sollevando un sopracciglio. Lui non ripeté l’ordine di fermarsi.
Il cancello rimase sospeso anche dopo che lei vi fu passata sotto. Quando si voltò, era ancora là, a oltre quindici metri da terra, come fosse attaccato con un filo alle nuvole.
L’ingresso principale della Cupola andò incontro allo stesso destino. Le porte si sfilarono senza sforzo dai cardini e sfondarono il tetto. Il buco che si lasciarono dietro era sottile e rettangolare, come il taglio di un coltello.
Il tetto della Cupola era scuro ora, ma le luci di emergenza brillavano qua e là, mostrando i raggi della ruota di bicicletta e i percorsi verso le uscite di sicurezza. Una guardia armata di Taser le bloccò il passaggio.
«Signore, abbassi la sua… arma» le disse.
L’Ago sembrò capire che si riferiva a lui; Sloane fece una smorfia quando il bruciore alla mano si intensificò. La voce l’avrebbe tradita per cui non parlò e si limitò a scuotere la testa.
Lui sollevò il Taser.
Lei sollevò l’Ago spezzato.
Il Taser esplose in minuscole particelle di polvere nera. Un filo di luce avvolse la mano della guardia, facendola urlare.
Sloane gli girò intorno, tenendosi a distanza. Non c’era tempo per la compassione o per lo stupore. Corse verso la stanza dove aveva percepito la presenza del prototipo. La sentì di nuovo, pulsante, come il cuore sotto il pavimento nel racconto di Edgar Allan Poe. Chiamava qualcosa che era dentro di lei e qualcosa che era dentro l’Ago. La magia chiamava la magia, come sempre.
Come l’Oscuro una volta aveva chiamato lei.
Ciao, Sloane. Sei riuscita a dormire un po’? Spero di sì, perché hai una decisione importante da prendere oggi.
Lei allontanò le parole dell’Oscuro dalla mente e rincorse quel richiamo, permettendosi solo allora di articolare quello che aveva sempre saputo: che quella sensazione che aveva, che la magia le parlasse, era come di qualcosa che tornava in vita. Una nuova pulsazione, la riattivazione della circolazione in un arto a lungo inutilizzato.
La trasformava in qualcosa di nuovo.
La porta del laboratorio dove era conservato il prototipo schizzò su e si fermò, stabile, appena sotto la curva della Cupola. Sloane attraversò la soglia, più cauta ora rispetto a prima. Il laboratorio era bianco: pareti bianche, pavimenti bianchi, tavoli bianchi. C’era una fila di microscopi su un tavolo, e una di sottili monitor di computer su un altro. Un’unità con lavaocchi e doccia di emergenza. Robusti condotti di aerazione si attorcigliavano sul soffitto, pure quello dipinto di bianco, terminando con enormi prese d’aria.
Sloane osservò tutto questo, ma il suo interesse si puntò immediatamente sul prototipo, che se ne stava su un tavolo tutto suo sopra una piattaforma di metallo. Qualcuno vi aveva messo intorno un nastro rosso. Come aveva previsto Ines, era una scatola. Abbastanza piccola da stare in una mano, ma lunga trenta centimetri, di metallo opaco. Il corpo di Sloane tremava mentre vi si avvicinava tenendo l’Ago spezzato davanti a sé.
E poi: una sensazione a lei familiare quanto l’aria nei polmoni. L’aveva provata solo una volta nella sua vita quella fame, quel vuoto che chiedeva di essere riempito: appena prima che l’Ago uccidesse tutte le persone intorno a lei durante l’Immersione. Allora non aveva avuto forma, era solo una volontà così potente che era stata costretta a cedervi.
E ora lei voleva solamente una cosa: distruggere quell’oggetto prima che potesse fare male ad altri.
Il suo desiderio si agganciò all’Ago come un filo attraverso la sua cruna e poi…
Luce…
Lei odorava di polvere e fumo.
Quando riprese i sensi era ancora buio. Intorno al suo corpo un cerchio perfetto di pavimento era rimasto intatto e pulito come quando vi era entrata. Ma oltre c’erano solo macerie. La Cupola era ancora in piedi, ma aveva un enorme buco nel fianco, come una mela morsicata. Il laboratorio e il prototipo erano ridotti a pietrisco e frammenti di metallo troppo piccoli per poterli rimettere insieme.
Sloane rimase seduta a lungo dentro il cerchio di pavimento, tremando. Ma il sole stava sorgendo. Per cui si costrinse ad alzarsi e si allontanò barcollando da quella devastazione. Uscendo, vide una guardia che giaceva a terra accanto a una porta esterna. Era fortunata a essersi risvegliata per prima.
Ammesso che la guardia fosse priva di sensi, e non morta.
Non vide nessun altro. Forse erano fuggiti non appena avevano riconosciuto l’azione della magia. Non poteva biasimarli. In fondo, l’Oscuro era l’unica persona di cui avessero mai sentito parlare capace di usarla, e i Gorghi avevano insegnato che al primo accenno di presenza della magia, era meglio scappare.
La luce e il rumore avevano svegliato i cercatori nelle loro tende, che si erano avvicinati quanto più potevano alla barriera di sicurezza. Sloane oltrepassò una seduta spiritica e un gruppo di uomini che parlavano eccitati del “suo ritorno”. Nessuno prestò attenzione a lei.
Si infilò in auto e guidò fino a una vicina riserva forestale. Mancavano ancora ore al funerale. Si inoltrò a piedi tra gli alberi per accendere un fuoco, raccogliendo ramoscelli lungo il cammino. Li ammucchiò dentro uno dei cestini di metallo che erano distribuiti per i sentieri, gli diede fuoco con un fiammifero, aspettò che le fiamme crescessero e avviluppassero i pezzi di tronco più spessi che vi aveva aggiunto, poi si spogliò restando in mutande e reggiseno.
Bruciò i vestiti con cui era entrata nel sito del Gorgo e indossò di nuovo quelli del giorno prima. Quando della stoffa non rimase che cenere, uscì dal bosco, i rami che le graffiavano il collo, le orecchie e le spalle, il sottobosco che le scorticava le caviglie. Si scosse la polvere dai capelli e li raccolse in una stretta treccia. Quando guardò il suo riflesso nello schermo scuro del telefono – che aveva tenuto spento dalla sera prima – si rese conto che tutti i suoi sforzi per apparire normale erano andati sprecati. Aveva un’espressione da folle, gli occhi troppo sgranati, la mascella serrata per la tensione. Matt avrebbe capito che era successo qualcosa. Non importava.
Impostò il GPS perché la portasse al sito del monumento nel Loop e guidò in silenzio.