16

Sloane si ricordò del sapore dell’acqua del fiume e del pallido luccichio della guancia dell’Oscuro alla luce della luna, dopo che il grattacielo era andato in pezzi, dopo che l’Ago aveva proiettato il suo filo di luce verso il cielo, prima che il loro nemico sparisse.

Cercò di gridare e inghiottì acqua. La mano di Esther si allentò e si sfilò dalla sua; subito dopo, anche Matt si staccò da lei. Sloane agitò le braccia selvaggiamente, cercando di ritrovare entrambi, ma i suoi movimenti erano lenti e il buio intorno era assoluto.

Tossì una serie di bolle silenziose. Acqua, era circondata da acqua. Le bruciavano i polmoni. Scalciò. Si stava muovendo, ma non sapeva in che direzione; per quanto ne sapeva, stava scendendo sempre più giù.

Si portò un dito alle labbra e buttò fuori una bolla d’aria. Ne sentì il solletico sotto la punta del polpastrello, il che significava che era a testa in su: le bolle andavano sempre verso l’alto, verso la superficie. Scalciò con più forza. Il suo cappotto, completamente inzuppato, la tirava indietro e lei si divincolò per liberarsene, poi si tirò la tracolla della borsa sopra la testa per sistemarsela sul petto.

L’acqua le pizzicava gli occhi, ma li aprì ugualmente per cercare la luce.

Niente, non c’era niente.

Ora che aveva entrambe le mani libere era più facile nuotare. Cameron gliel’aveva insegnato quando erano bambini, alla piscina pubblica. Un’estate ci erano andati tutti i giorni. Si tuffavano a bomba nella parte più profonda della vasca facendo a gara a chi sollevava più schizzi.

Si spinse su, sempre più su.

Intravide un barlume davanti a lei. Inizialmente solo un accenno, che divenne poi un cerchio verde luminoso, confuso. Nuotò in quella direzione. Perse una scarpa. Scalciò con più forza, le bruciavano le gambe, le braccia e il petto.

Emerse in superficie annaspando. Si sdraiò sul dorso e rimase a galleggiare, il battito del cuore che le pulsava nelle orecchie.

Sopra di lei c’era una falce di luna calante, sottile come il frammento di un’unghia, circondata da un cielo colorato di viola dall’inquinamento luminoso. Avrebbe giurato di aver visto la luna crescente mentre camminava verso la Cupola con l’Ago in mano. Era come se fosse passato quasi un mese in un solo respiro. Si portò una mano agli occhi e li strofinò per schiarirsi la vista.

Per non parlare del fatto che il funerale di Albie era stato di mattina.

Sapeva dove si trovava. L’odore di marcio dell’acqua nelle narici le era familiare, come lo era il profilo irregolare dell’edificio a forma di pannocchia in lontananza, nascosto in parte dalle linee squadrate del numero 330 di North Wabash. Ma al posto del monumento alla sconfitta dell’Oscuro c’era un grattacielo. Non la Trump Tower, azzurra e scintillante con il suo ago che graffiava il cielo, ma un edificio che non aveva mai visto; composto per metà da un semplice cilindro di vetro e per metà da pannelli di acciaio ondulati, come un respiro di fumo che si riversava sul lato occidentale.

Quando ebbe ripreso fiato, si raddrizzò e si accorse che c’erano delle persone sulla sponda. Nella luce di antichi lampioni a sfera che fiancheggiavano il fiume, vide che erano vestite di pesanti stoffe dai colori scuri e forti, decorate da raffinati drappeggi. Agitò i piedi per tenersi a galla e si scostò i capelli dalla faccia. Le facevano male tutti i muscoli, ma non era sicura di volersi avvicinare alla riva, di volersi avvicinare a “loro”.

«Chi…» disse con astio. La sua voce suonò roca e gutturale. Si propagò sopra l’acqua e riecheggiò sulle pareti di cemento che separavano il fiume dalla strada su entrambi i lati. «Chi siete?»

Una donna vestita di verde, con folti capelli scuri e la pelle marrone chiaro, si fece avanti; sembrava sul punto di parlare quando all’improvviso Esther affiorò in superficie, con il mascara che le colava sulla faccia; Matt la seguì, sbucando con la testa vicino alla sponda. Si aggrappò all’argine e vomitò acqua ai piedi della donna. Lei fece un salto indietro. Aveva lucide scarpe a punta.

«Cosa…» La donna si voltò verso un’altra persona, un uomo biondo che se ne stava a distanza stringendosi al petto un grosso libro. «Perché ce n’è più di uno?»

«Non…» L’uomo guardò a turno Sloane, Esther e poi Matt, a bocca aperta. «Non lo so.»

«Dov’è Ines?» chiese Sloane a Esther e Matt.

Esther scosse la testa. «Non l’ho vista.»

Sloane si stancò di tenersi a galla, nuotò fino all’argine e si tirò su, le braccia tremanti per lo sforzo. Ricadde sul marciapiede, rischiando quasi di spaccarsi la testa sul cemento, ma raccolse le ginocchia sotto il corpo e si alzò in piedi. Era più alta della donna, ma non di molto.

La donna fece un passo indietro.

«Ti ho fatto una domanda» disse Sloane. Sfortunatamente, parte del tono di minaccia andò perso perché subito dopo dovette piegarsi per tossire e buttare fuori altra acqua. Sapeva di pesca marcia.

«Calmati per favore» disse la donna. «Noi…»

«Col cazzo che si calma!» esclamò Esther dall’acqua. Stava lottando per liberarsi del cappotto. Sloane vedeva gli sbuffi bianchi del suo fiato alla luce della luna.

Matt era riuscito a uscire dal fiume e sedeva sull’argine con l’acqua che gocciolava dalle gambe dei suoi pantaloni. Esther riuscì a raggiungere la sponda e si scostò i capelli dal viso.

Sloane osservò il gruppo di persone che ora si trovava a solo pochi passi da lei. Erano vestiti in varie fogge, ma tutti avevano un dettaglio in comune: una spilla d’oro delle dimensioni di un mandarino appuntata al petto. Molti indossavano altri gioielli elaborati, con un che di meccanico come stile, intorno alla gola o alle mani. Una donna ne aveva uno sopra l’orecchio sinistro, placcato di rosso, come fosse fatto di rubini.

«Dove siamo?» chiese loro Matt nella voce bassa che usava quando voleva essere preso sul serio. Era convinto che intimidisse, anche se agli altri suonava solo come un’imitazione di Batman. Avevano deciso tutti insieme di non prenderlo in giro però, dal momento che a lui sembrava piacere tanto.

«Chi di voi è il Prescelto?» chiese la donna, guardandoli a turno.

Che bel gruppo dignitoso componevano, pensò Sloane. Esther, sulla sponda del fiume, stava cercando di togliersi il mascara che le era colato sulla faccia con le mani. Matt si stava sfilando un guanto di pelle fradicio prendendolo tra i denti. E lei aveva i pantaloni così appesantiti dall’acqua, che di sicuro le si vedeva il culo.

«Non puoi fare domande finché non rispondi alle nostre» disse, infilando le dita tra i passanti per tirarsi su i pantaloni.

Matt sollevò la mano. «Io. Sono io il Prescelto.»

Esther buttò fuori una mezza risata.

«Che c’è?» Matt si strinse nelle spalle. «Ha fatto una semplice domanda.»

«Voglio dire, eravamo un po’ tutti Prescelti» chiarì Esther. Era riuscita a spalmarsi le tracce di mascara sul lato del viso, verso le orecchie. Sloane si rese conto che era dall’ultima battaglia che non la vedeva senza uno spesso strato di trucco. Appariva… stanca. Tanto quanto si sentiva lei.

«Ne manca uno» disse Sloane. «Dov’è Ines?»

La donna la guardò accigliata. «Aspettavamo una persona sola, non tre. E di sicuro non quattro. E, per rispondere alla vostra domanda precedente, siete nello stesso posto esatto in cui eravate un attimo fa, con la notevole differenza che ora siete in… una dimensione più a sinistra. Per così dire.»

«Tipo un universo parallelo?» disse Esther. «Cosa ti sei fumata?»

Molto tempo prima, Sloane aveva sentito parlare delle dimensioni parallele, della teoria delle stringhe e delle infinite possibilità che si diramavano l’una dall’altra verso un’eternità che nessun essere umano poteva comprendere. Da allora aveva evitato di pensarci, non volendo soffermarsi sull’idea che, per ogni decisione che prendeva, c’era una Sloane identica su un’altra Terra che ne prendeva un’altra, generando universi che si ramificavano all’infinito. Chi era lei, in realtà, se non aveva un’identità stabile, se c’erano diverse Sloane che percorrevano altrettante strade, spinte in una direzione o nell’altra da minime alterazioni nelle circostanze?

«Chi siete?» chiese di nuovo.

In qualunque universo, in qualunque dimensione, erano sempre le persone a preoccuparla.

«Mi chiamo Aelia» si presentò la donna. «Sono pretore di Cordus e tribuno dell’Esercito Baluginante.»

«Sta dicendo parole a caso?» chiese Esther a Sloane. «Sta dicendo parole a caso, signora?»

Erano parole antiche e strane, con le luci di una città moderna che brillavano dietro la testa della donna. Ma Sloane ne colse il significato. «Si chiama Aelia ed è quella che comanda» tradusse.

«Un’altra dimensione» disse Matt. «Com’è possibile?»

«Voi altri non siete al corrente che esistono altre dimensioni?» chiese Aelia, stupita. Indossava una fascia di tessuto rigido intorno alle spalle, pantaloni aderenti che si stringevano alle caviglie e una camicia con un colletto corto e dritto. Uno stile che Sloane riconosceva solo in parte. La spilla d’oro sul petto spiccava sul grigio e verde dei suoi vestiti; e aveva la mano chiusa in un apparecchio che sembrava un guanto meccanico tempestato di pietre preziose.

«Solo in astratto» rispose Matt.

Aelia guardò di nuovo l’uomo biondo, il disprezzo nel naso arricciato. «Allora immagino sarete sotto shock in questo momento» disse.

Sloane fece un verso nasale.

«So che avete molte domande e prometto di rispondervi» continuò Aelia, guardando Sloane con gli occhi socchiusi. «Ma perché io possa farlo, dovrete fidarvi abbastanza da venire con noi in un posto.»

Matt torse il bordo del suo cappotto con entrambe le mani per strizzarlo. Aveva l’aria noncurante di uno che scuoteva l’ombrello rientrando dalla pioggia. «Okay.»

«No!» Sloane gli lanciò un’occhiataccia. I pantaloni le stavano di nuovo scivolando sui fianchi. «Noi non… andiamo in un altro posto. Non finché non sapremo che diavolo sta succedendo.»

Gli angoli delle labbra di Matt si sollevarono di scatto. Per anni, quando davano la caccia all’Oscuro, era l’unico sorriso che lei gli avesse mai visto. Ma dopo la loro vittoria era diventato sempre più raro, man mano che lui si rasserenava e si rilassava, non essendo più responsabile di altre vite oltre alla sua.

Il ritorno di quel sorriso significava che si stava lavorando Aelia, e Sloane lo stava ostacolando.

“Devi lasciare che gli altri sfruttino i propri punti di forza come loro ti lasciano sfruttare i tuoi” le disse la voce di Bert nel ricordo. Ciascuno di loro aveva un ruolo nel piccolo plotone e, anche se la cosa la irritava ora che lei e Matt erano fidanzati, era Matt il capo. Era lui che prendeva le decisioni. Dovevano fidarsi o il sistema si sarebbe sfasciato.

«Ho tutta l’intenzione di dirvelo» rispose Aelia, «ma alcune cose è meglio che le vediate da voi.»

Esther si spostò affiancando Sloane; sembrava diffidente quanto lei, ma cercò il suo sguardo e annuì, le labbra contratte.

«D’accordo, facci vedere» assentì Sloane.

Sloane seguiva Aelia passo passo mentre salivano l’ampia scalinata minimalista di pietra levigata che, sulla sua Terra, si chiamava River Theater. Qui i gradini erano sostituiti da terrazze sulle quali crescevano alberi che creavano una sorta di foresta proprio al centro della città. Aelia camminava zigzagando tra gli alberi e Sloane, Matt ed Esther la seguirono fino al livello della strada.

Gli altri osservatori erano appena dietro. Il loro silenzio turbava Sloane, la loro presenza alle sue spalle le faceva rizzare i capelli sulla nuca. Si sentiva trascinata contro la sua volontà.

Aveva quasi paura di sollevare la testa, di trovarsi di fronte alla “inesattezza” di quel posto. Ma almeno Wacker Drive era uguale a quella che conosceva lei, con le auto che si inclinavano sfrecciando lungo la curva più avanti e la Diciassettesima Chiesa del Cristo, Scientista, che sembrava una nave spaziale acquattata nel punto in cui la strada si divideva in due. Non c’erano pedoni sui marciapiedi e solo quando il gruppo dietro di lei si allargò a ventaglio ne capì il motivo. Uno di loro sollevò un braccio ed emise un trillo disumano. Un muro di iridescenza gli apparve di fronte, formando una barriera che attraversava un vialetto a circa cento metri da Sloane.

Aelia si schiarì la voce. Si fermò accanto a una limousine squadrata color vino con le ruote con i cerchioni cromati. Aprì l’ampia portiera posteriore e poi il pannello centrale, e si infilò dentro. L’uomo biondo attendeva accanto all’auto. Quando sollevò una mano, e la manica gli scivolò giù scoprendo il polso, Sloane riuscì a vedere meglio l’apparecchio che portava. Era più semplice di quello di Aelia, ma non meno bello; sembrava un guanto, ma era di rame, con articolazioni mobili. Ogni piastra era decorata da fitte incisioni che riproducevano tralci e minuscole foglie e, a differenza dei grossi guanti delle antiche armature, era affusolato, chiaramente modellato perché lo indossasse lui e lui soltanto.

«Posso asciugarvi, se volete» disse.

Sloane guardò Esther.

«Non vi avremmo portato fin qui solo per farvi del male un istante dopo. Mi chiamo Nero. Chi vuole essere il primo?»

Ci volle qualche secondo perché Matt si offrisse volontario, anche se era stato lui a insistere per assecondare la loro richiesta. Si fermò avanti a Nero, un po’ a disagio. «Che cosa devo fare?»

«Stai solo fermo, per favore» rispose Nero. Sollevò la mano, le dita allargate, il palmo rivolto verso Matt. Canticchiò una nota grave e la camicia di Matt si spostò, quasi impercettibilmente, come se investita da una brezza.

Nero mormorò di nuovo, e dalla testa di Matt si staccarono piccole gocce d’acqua che rimasero sospese in aria. Lui le fissò, stupefatto. Sloane si guardò intorno solo per assicurarsi che non si fosse fermato il tempo, impedendo all’acqua di cadere. Non sarebbe stata la cosa più strana di quel giorno.

Continuando a canticchiare la stessa nota Nero spostò la mano più in basso, prima all’altezza delle spalle di Matt, poi della pancia e del bacino. L’acqua si staccò dalla stoffa del cappotto e della camicia e si fermò a mezz’aria.

Quando ebbe finito, Nero cambiò nota, muovendo la mano in cerchio. Tutte le goccioline che erano rimaste sospese volarono nella sua direzione aggregandosi in un’unica sfera d’acqua, che accompagnò con il gesto fino a farla librare sopra la strada, e poi la lasciò cadere nel canale di scolo. Quando la palla toccò terra, si disgregò di nuovo in liquido senza forma.

Sloane aveva già visto eseguire magie: la forza di un uragano che faceva a pezzi la gente; il guizzo di una fiamma instabile nelle mani di Albie; la strana luce che emanava dal Ramo d’Oro di Matt. Ma non aveva mai visto manipolare la magia con tale delicatezza, tale magnifica precisione.

Matt era asciutto ora, la camicia impeccabile. Nero si rivolse a Esther e Sloane.

«Chi vuol essere la prossima?»

Matt, Esther e Sloane si strinsero sul sedile posteriore della limousine. Sloane guardava fuori dal finestrino pizzicando tra il pollice e l’indice il velluto bordeaux che rivestiva il sedile. Stavano percorrendo la curva della Upper Wacker in direzione di Lake Shore Drive. La luce della luna si increspava sul lago. Il profilo frastagliato della città le era quasi sconosciuto, ma vi riconosceva alcuni riferimenti: le linee verticali bianche dell’Aon Center, il vetro inclinato dell’edificio della Crain Communications, come una carota tagliata in diagonale, le colonne ioniche del Field Museum.

«Che cosa sono quelli?» chiese Matt, indicando l’apparecchio di Nero e di Aelia. Quest’ultima teneva la mano appoggiata sul ginocchio, per cui Sloane poté vedere nel dettaglio lo spesso polsino a cui erano attaccate sottili catene, che seguivano le dita per terminare con un cappuccio simile a un ditale sulla punta di ogni polpastrello. Lungo ogni catenella erano distribuite perline rosse e al centro del polso c’era una pietra rossa.

Aelia sollevò la mano. «Si chiamano sifoni» rispose. «Incanalano energia magica.»

«Energia magica» ripeté Matt. «Ma sembra tecnologia.»

«In realtà» osservò Esther, «sembrano gioielli.»

«Sono tutte e tre le cose insieme» disse Aelia, con espressione sconcertata. «Magia, tecnologia e ornamenti. Queste cose sono in contrapposizione nel posto da cui venite?»

«La nostra tecnologia non usa la magia» spiegò Matt. «Noi siamo tra i pochissimi che l’abbiano mai impiegata e anche noi stavamo appena cominciando a comprendere come farlo.»

E aveva ucciso Albie, pensò amaramente Sloane.

Aelia si voltò verso Nero e inarcò un sopracciglio. Nero abbassò la testa.

«Affascinante» commentò Aelia. «La nostra integrazione dei due elementi non è senza strappi. Ci sono persone secondo le quali la tecnologia dovrebbe progredire senza la magia, nel caso che la magia si riveli una risorsa finita. E ci sono perfino persone che vedono l’uso della magia come opera del diavolo. Ma questo è un sifone, un trionfo sia della tecnologia sia della magia.» Girò la mano, formò un pugno, poi riaprì le dita. Fischiò, e sul suo palmo danzarono scintille.

«Originariamente inventato da Liu Huiyin, di Xiamen, Cina, nel 1980» intervenne Nero. «La magia non si è diffusa su Genetrix se non dopo il 1969.»

Sloane fissava la mano di Aelia. Le scintille erano già sparite, ma le avevano lasciato dietro le palpebre un’immagine residua deformata.

«Che cosa è successo nel 1969?» chiese Matt.

«L’incidente della Tenebris» rispose Nero.

«Sono sicura che avremo tempo più tardi per le lezioni di storia» disse Aelia.

«Il vostro pianeta si chiama Genetrix?» domandò Esther. Le sue mani erano chiuse a pugno sulle ginocchia, le nocche bianche.

Sloane tornò a guardare fuori dal finestrino. Ne sapeva abbastanza di architettura da capire che alcuni di quegli edifici non rientravano nelle categorie consuete. Le strutture moderniste, talmente onnipresenti nella sua città da diventare anonime ai suoi occhi, erano sparite. Al loro posto c’erano strane forme illuminate in un’ampia gamma di colori. Ma prima che lei avesse il tempo di comprenderle, la limo era già passata oltre. Uscirono da Lake Shore Drive e si tuffarono nel South Loop.

«Quando la magia divenne comune cominciammo a usare due nomi per designare i posti, uno per le questioni ordinarie e l’altro per quelle magiche» spiegò Aelia. «Usiamo come nomi sia Terra sia Genetrix, così come chiamiamo questa città Chicago ma anche Cordus, che significa “seconda”.»

«Giusto… la Seconda città» disse Matt. «Ricostruita dopo l’incendio.»

«Mi sembra di sognare» sussurrò Esther a Sloane. «Come la prima volta che ho visto un filmato del Gorgo.»

Sloane annuì. Oltrepassarono gli archi gialli di un McDonald’s, non diverso da quelli che conoscevano.

«Non stavate tenendo per mano Ines quando siamo… arrivati qui?» chiese poi.

Esther scosse la testa. «L’avevo appena lasciata andare. Non la ricordo in acqua insieme a noi.»

«Allora probabilmente è ancora sulla Terra. Forse c’è un modo per metterci in contatto con lei.»

Si fermarono a un semaforo e Sloane sbirciò nell’auto accanto. C’era una donna al volante, un sifone sulla mano sinistra, la mano destra che girava la manopola della radio. La luce del cruscotto era arancione, era analogico, non digitale. C’era un orologio tra le bocchette dell’aria, le lancette puntavano sulle dieci e sulle dodici. Erano le dieci di sera.

«Cosa potete fare con quell’affare?» chiese Esther a Nero. Aveva ancora una macchia di mascara sulla tempia.

«I sifoni possono essere attaccati a quasi tutte le parti del corpo, e la loro posizione influisce su quello che permettono di compiere. I sifoni da polso, come questo, di solito vengono usati per scopi pratici: manipolazione dell’elettricità, o dell’acqua, dell’aria…»

«Del fuoco?» chiese Sloane.

Nero annuì.

«Quindi è un’arma» disse lei.

«Tutto può diventare un’arma» rispose Nero. «Se ti ci impegni abbastanza.»

«Sto solo cercando di capire fino a che punto siamo tenuti in ostaggio.» La sorprese che Matt non intervenisse per rimproverarla del modo brutale in cui si era espressa. Rimase in silenzio; forse voleva saperlo anche lui.

La bocca di Nero si torse in un sorriso affabile. “Affabile” era un aggettivo che gli si addiceva in generale, pensò Sloane. La sua voce aveva una qualità setosa, non pressante, ma delicata. I suoi movimenti, dall’andatura ai gesti più piccoli, erano attenti, come se li selezionasse consapevolmente uno per uno. Lui girò la mano e slacciò una fibbia all’interno del guanto di metallo. Una luce scintillò tra le placche di metallo mentre se lo sfilava. Lo posò sul pianale della limousine in mezzo a loro e mostrò i palmi aperti.

«Noi non abbiamo intenzione di minacciarvi» disse.

«E chi sarebbero questi “noi”?» chiese Matt. «Tu e lei?»

«Siete stati convocati dal Consiglio speciale di Cordus» spiegò Aelia. «Abbiamo organizzato un’adunanza per affrontare… un problema particolare che vi descriverò nel dettaglio. Io sono a capo del Consiglio oltre che funzionario eletto del governo della città. Pretore, come ho detto.»

Sloane guardò con le sopracciglia aggrottate il dispositivo sul pavimento. Non percepiva lì il richiamo della magia, il formicolio e il bruciore che sentiva a casa. Allungò una mano verso il sifone, aspettando qualcosa, qualunque cosa, ma non provò nulla. Forse la magia pervadeva così completamente quel mondo che non riusciva ad avvertirla, così come una persona smette di udire il rumore bianco dopo pochi minuti. Sfiorò il sifone con le dita, era caldo per il contatto con la pelle, ma per il resto inerte.

«Ci vuole l’intenzione» le disse Nero.

Era quello che temeva.

La macchina si fermò. Aelia aprì la porta e fece segno di seguirla.

Sul loro lato della strada c’erano antichi lampioni a gas con eleganti basi nere e vetri anneriti dalle fiamme. Sull’altro lato c’erano macerie. Pezzi di cemento ammassati insieme ad assi di legno spezzate, tralicci contorti salivano verso il cielo, vetri rotti luccicavano sotto la luna.

Sloane sentì i passi di Esther alle sue spalle, poi sentì la sua mano fredda e asciutta. La prese e la tenne stretta, e le due donne rimasero a guardare, spalla a spalla. I resti di un edificio rotolavano su quelli dell’edificio accanto e così via, fin dove Sloane riusciva ad allungare lo sguardo nella pallida luce lunare. Dove prima c’era una strada ora c’erano carneficina e distruzione: un ricciolo giallo-bianco, la colonna vertebrale di uno scoiattolo; una camicetta da donna, con un motivo a fiori, intrappolata sotto una roccia; un pezzo di imbottitura di un peluche in bocca a un topo che si aggirava rapido tra i detriti.

«Un Gorgo» disse Esther.

Sloane si sentì come se il tempo fosse tornato indietro e lei fosse di nuovo sul margine del sito dove sarebbe poi sorta la Cupola, completamente circondata dagli adoratori dell’Oscuro e dai cercatori di magia. Il Gorgo era come un’impronta digitale, diversa da tutte le altre forme di magia di cui lei era stata testimone. Solo una persona poteva aver lasciato quel segno distintivo.

Se quello era il sito di un Gorgo, voleva dire che l’Oscuro era passato di lì.

Nero si allontanò da loro per spostare le stesse transenne che Sloane aveva visto su Wacker Drive, che servivano a tenere lontani i pedoni. Ma Aelia rimase accanto a loro. «Nel vostro mondo» disse, allargando le dita chiuse nel sifone, simili ad artigli di metallo, «ha operato una forza del male… e voi l’avete sconfitta?»

«L’Oscuro» rispose Matt piano. «Sì. Io… noi, in realtà, tutti noi… l’abbiamo ucciso.»

«Meraviglioso» Aelia sorrise, e il suo sorriso sembrò quasi sinistro nella luce fioca dei lampioni a gas; le ombre si raccoglievano sotto i suoi zigomi sporgenti. «Anche noi abbiamo una specie di Oscuro. Noi lo chiamiamo il Resurrezionista.»

«Chiamiamo» disse Esther. «Tempo presente.»

«Sì. Il nostro Resurrezionista è ancora vivo. Ancora ci terrorizza. Ancora fa questo

Indicò la distesa buia davanti a loro. Sloane vide sagome scure muoversi in lontananza; sfrecciavano dentro e fuori dagli edifici distrutti. L’area presentava le caratteristiche tipiche dei siti del Gorgo; una distesa di frammenti di cemento, legno e acciaio che si facevano sempre più piccoli quanto più allungavi lo sguardo. Al centro, tutto sarebbe stato fine come sabbia.

«Questo è successo l’anno scorso» spiegò Aelia. «È il punto più vicino al centro della città in cui si sia spinto il Resurrezionista. Diventano ogni anno più potenti, e si avvicinano sempre di più.»

«Diventano, al plurale?» chiese Esther.

«Il vostro Oscuro agiva da solo?» La bocca di Aelia si torse in un sorriso amaro. «Ci sono seguaci, ci sono sempre seguaci, ma quelli del Resurrezionista sono il motivo del suo soprannome. Sono morti viventi.»

Di fronte a loro c’era lo scheletro di una casa, spogliata del rivestimento laterale e del muro a secco. La schiuma isolante rotolava nel vento, rosa e vaporosa come zucchero filato.

«Come voi, avevamo un Prescelto» continuò Aelia. «Era coraggioso e aveva talento con la magia. Era giovane, anche. Forse troppo.»

«Era?» chiese Esther.

«È morto» la voce di Aelia si incrinò. «È stato sconfitto.»

Avrebbe dovuto essere ovvio, pensò Sloane. Doveva persino aspettarselo. Se c’era un universo in cui lei e i suoi amici avevano vinto, ovviamente c’erano universi in cui avevano perso. In cui erano morti. In cui non erano mai esistiti.

«Ma lui era il Prescelto» obiettò Esther. «Non può essere “morto”. Sei sicura che fosse la persona giusta?»

«Ne siamo certi» rispose Aelia in tono secco. «C’è stata una profezia. Una profezia piuttosto precisa. E abbiamo usato la sua firma magica per convocare qui voi.»

«Firma magica?» disse Matt nello stesso momento in cui Esther chiedeva: «Perché avete convocato proprio noi?».

Matt fece un passo indietro. Quella di Esther era la vera domanda a cui Matt voleva una risposta, pensò Sloane.

«Non è evidente?» disse Sloane in tono aspro, la voce che tremava. «Vuole che affrontiamo il suo Oscuro per lei.»

«Non è il “mio” Oscuro» rispose piccata Aelia. «E vi assicuro che non avrei fatto ricorso a tali misure se la situazione non fosse stata davvero disperata. Non posso permettere che muoia altra gente. Non posso permettere che altre parti del nostro mondo vengano distrutte.»

«Oh, be’, se la situazione è disperata allora va bene rapire la gente da altre dimensioni» ribatté Sloane. Si sentiva la gola chiusa da un imminente attacco nervoso.

«Già, e dire che stavo giusto pensando che il quoziente di disperazione qui non è abbastanza alto» aggiunse Esther acidamente.

«Vi assicuro che lo è!» esclamò Aelia, la sua voce stava diventando quasi stridula.

«Non credo sia molto portata per il sarcasmo» commentò Esther con Sloane.

«Ci adorerà, allora» fece eco Sloane.

«Dovete capire» disse Matt, alzando un po’ la voce per coprirle, «che siamo già passati attraverso tutto questo e non siamo impazienti di passarci di nuovo, soprattutto per un mondo che non è neanche il nostro.»

«Temo che non sia così semplice.» Nero intervenne dal centro della strada, a qualche metro di distanza. Allacciò le mani davanti al corpo, il guanto di metallo che si chiudeva sopra la carne nuda. «I fati dei nostri mondi non sono più così distinti come si potrebbe sperare.»

«Cioè?» disse Matt.

«I nostri mondi sono collegati. Noi riusciamo a vedere la connessione. L’uso della magia li ha resi entrambi instabili. Il Resurrezionista approfitta di questa instabilità per portare avanti la sua opera di distruzione.»

Sloane socchiuse gli occhi. «In che modo?»

«Non lo sappiamo. Non sappiamo niente per certo. Tutto quello che sappiamo è che non dovrebbe essere in grado di fare questo.» Aelia indicò con un gesto le macerie. «Nessuno era in grado di farlo prima che arrivasse lui.»

Sloane pensò a quando aveva toccato l’Ago per la prima volta, a come l’aveva trasformata in uno stomaco vuoto, un buco nero di desiderio. A come lei aveva preso tutto – tutto – dentro di sé, freneticamente e indiscriminatamente, a come aveva trasformato l’acqua in schiuma e le ossa in particelle di sabbia. A come era emersa dalla superficie dell’oceano grondante di sangue e ruggente di potere.

«No.» La parola uscì con voce rotta. «No, non può essere. Non può succedere questo.»

«Sloane» disse Matt dolcemente.

«Noi l’abbiamo ucciso» continuò Sloane. «Io l’ho visto, sott’acqua, l’ho visto morire.»

«In un mondo» aggiunse Matt. «A quanto pare non in tutti.»

«Be’, era il mio mondo! Ho fatto la mia parte, ho combattuto contro il mio Oscuro. Ho fatto il mio dovere!» Stava piangendo. Lei odiava piangere. «Potete restare ad aiutare se volete. Ma io non ho intenzione di rifarlo. È stato già abbastanza difficile la prima volta.»

Matt le posò una mano sulla spalla sinistra, poi l’altra sulla destra, costringendola a guardarlo. Aveva bisogno degli ansiolitici. Aveva bisogno di una madre meno disastrosa della sua. Aveva bisogno di essere a casa.

«Non posso» disse di nuovo, questa volta solo a Matt.

«Lo so.» Lui annuì. «Neanche io. Ma penso che forse dobbiamo.»

Sloane guardò Aelia. Ponendole una domanda silenziosa.

«È un’impresa enorme, spostare persone da un universo all’altro» chiarì Aelia. «Potremo ripeterla solo un’altra volta, per mandarvi a casa. Cosa che il nostro bisogno urgente ci costringe a fare soltanto dopo aver ricevuto il vostro aiuto.»

«Quindi ci avete rapito» intervenne Esther, «e ora ci terrete prigionieri finché non vi avremo aiutato.»

Aelia abbassò lo sguardo, senza rispondere.

«Volevo essere sicura che la situazione fosse chiara.» La voce di Esther era aspra ma insicura.

Sloane guardò la fascia buia oltre Matt, fiancheggiata da edifici intatti, piacevolmente illuminati. Un intero isolato della città annientato. Aelia li aveva portati là per conquistarsi il loro favore, Sloane ne era certa. Per mostrare loro un segno tangibile della distruzione che si trovavano ad affrontare. “Questo è solo l’inizio degli orrori che vi mostrerò” diceva quel posto.

“È una scelta semplice, mia cara” le aveva sussurrato l’Oscuro.

Sloane sentì in bocca sapore di bile.

«Sono sicura che vi serve tempo per elaborare tutto quanto» disse Aelia. «Abbiamo preparato delle camere per voi, dove starete finché resterete qui. Possiamo parlare di nuovo domani, dopo che vi sarete riposati.»

Esther cercò la mano di Sloane e la strinse con delicatezza. Era calda, stabile e familiare. Avevano già combattuto fianco a fianco, in situazioni da cui pensavano non sarebbero mai riusciti a uscire. Sloane si ricordò di quando erano rimaste sveglie insieme per fare la guardia, le schiene premute l’una contro l’altra perché ciascuna sorvegliasse un diverso orizzonte.

Lasciò che il calore della sua amica la riportasse a se stessa. Sapeva come farlo. Sapeva come scrutare paesaggi oscuri in cerca del nemico, come addormentarsi solo a metà, come mettere trappole in una casa servendosi solo di un barattolo di biglie, come marciare inesorabile verso un unico scopo e una morte quasi certa.

Era come una danza, e lei non avrebbe mai dimenticato i passi.