17

«Abbiamo appena superato il municipio» disse Sloane a Esther, quando la macchina accostò al marciapiede. «Questo deve essere il Thompson Center.»

«Il grosso edificio di vetro rotondo?» Esther indicò con un gesto la facciata di pietra che avevano davanti. «Non lo sembra.»

«Voglio dire, credo che l’architettura sia diversa, ma siamo in quel punto.» Sloane corrugò la fronte. «Per così dire.»

Attraversarono un atrio scuro e spazioso verso un gruppo di ascensori. Era troppo buio perché Sloane vedesse quanto era alto il soffitto. Nero tirò una grata di bronzo ossidato davanti alle porte dell’ascensore prima di premere il pulsante.

«Questo edificio si trova nella scuola dei Passatisti» disse mentre l’ascensore saliva. «Il che significa che è stato costruito senza quasi alcun intervento magico, ma combina stili di molti periodi diversi senza attenzione all’accuratezza.»

«Senza intervento magico» ripeté Matt. «Questo è… raro? Costruire qualcosa senza la magia?»

Nero si strinse nelle spalle. «A Chicago sì. L’architettura è un’industria pesantemente influenzata dalla magia, e la gente di qui ama la propria architettura.»

Cameron ne sarebbe stato entusiasta, pensò Sloane.

L’ascensore si fermò al settimo piano. Nero li condusse a un balcone che dava su una cupola di pietra; la Sala delle Convocazioni, spiegò, come se il significato fosse ovvio. Si spostarono verso il retro dell’edificio e salirono una scala a chiocciola di ferro battuto per altri due piani fino a quella che sembrava una solida parete di legno.

Nero appoggiò la mano coperta dal sifone sul legno, poi la tolse, lasciandosi dietro una luminosa impronta bianca. L’impronta scomparve nel giro di pochi secondi, dopodiché il legno lucido si aprì al centro mostrando un lungo corridoio con porte su entrambi i lati.

«Queste stanze vengono utilizzate all’occasione come appartamenti per ospiti importanti del Centro Cordus» spiegò Aelia, indicando una porta. Fischiò e la porta si spalancò, andando a sbattere violentemente contro il muro dietro. «L’arredamento è studiato per mettere in mostra il lavoro di designer emergenti, per cui sono camere un po’… strane.»

Nero cominciò ad aprire le altre porte con un impiego più delicato del suo sifone.

«Il Centro Cordus» ripeté Matt. «È lì che ci troviamo ora?»

Sloane percorse il perimetro dell’ingresso, passando davanti alle stanze dai diversi stili. Registrò con lo sguardo solo rapide impressioni di ciascuna: una di una semplicità spartana, un’altra simile a una cattedrale gotica in miniatura con finestre di vetro colorato e l’ultima piena di mobili di legno finemente intagliati.

«Sì» rispose Aelia. «Questo edificio è in primo luogo un’istituzione accademica, il Centro Avanzato di Ricerca e Apprendimento della Magia di Cordus.»

«Caram» disse Nero, «o, come lo chiamano affettuosamente gli studenti, la Caramella.»

Aelia gli lanciò un’occhiataccia e Nero abbassò lo sguardo. «Ci incontreremo di nuovo domani per discutere ulteriormente» disse lei. «Per favore, cercate di riposare. Nero» lei mosse di scatto la testa da una parte. «Una parola in privato?»

Nero salutò tutti con un cenno e seguì Aelia di nuovo in corridoio verso l’ascensore. L’istinto di Sloane fu di andargli dietro e trovare il modo per ascoltare la loro conversazione, ma il corridoio era tutto dritto fino in fondo, senza angoli o nicchie in cui nascondersi per origliare, per cui rimase dov’era.

«Io voglio la stanza della chiesa» disse immediatamente Esther.

«Prenditela» rispose Matt, lanciando un’occhiata a Sloane.

Di sicuro lui non voleva dividere la camera con lei.

Infatti, si voltò e andò nella stanza di legno intagliato.

La stanza di Sloane, l’unica opzione rimasta, era tutta bianca: muri bianchi, lenzuola bianche, pavimento di legno dipinto di bianco. Ma quando infilò le dita nelle ampie fessure tra i pannelli del muro, scoprì dei cassetti, un piccolo armadio e una libreria nascosti. L’ultima persona che aveva dormito lì vi aveva lasciato alcuni libri: La manifestazione dei desideri impossibili: una nuova teoria del magico; Una società divisa: la Guerra fredda tra magia e scienza; e infine La misteriosa storia magica del sifone da gola. Sloane stava soppesando l’ultimo quando qualcuno bussò.

«Riunione di squadra» annunciò Esther. «Nella mia camera.»

Sloane posò il libro, lasciando aperto il pannello bianco del muro. Quando entrò nella stanza accanto, Esther era già seduta sul letto, appoggiata alla testiera finemente intagliata. Matt stava battendo su una delle finestre di vetro colorato come a testarne la stabilità. La sua faccia era punteggiata di luci colorate a forma di Vergine Maria.

Sloane si appoggiò contro la base di un arco rampante.

«Dunque» esordì Matt. Aveva l’aria stanca. «Qualcuno ha pensato qualcosa?»

La richiesta era un’imbeccata perché lei tornasse a indossare i panni della persona che era quando avevano combattuto contro l’Oscuro la prima volta.

E lei cominciò a parlare. «La sovrapposizione tra questo universo e il nostro sembra considerevole. Ho visto un sacco di edifici che conosco sulla strada per il sito del Gorgo. La mia ipotesi è che il punto di separazione tra questo mondo e il nostro è relativamente recente.»

Esther sembrava disorientata, per cui Matt spiegò. «Secondo una teoria della fisica quantistica esiste un numero infinito di esiti possibili per ciascun evento, e ognuna di queste possibilità genera un universo differente. Pensalo come… una biforcazione della strada. Tu hai la possibilità di percorrere entrambe le direzioni, per cui esiste un universo in cui hai scelto di andare a sinistra e un altro universo in cui hai scelto di andare a destra. Slo sta dicendo che la biforcazione della strada che porta da una parte a Genetrix e dall’altra alla Terra è avvenuta non molto tempo fa.»

«È una cosa buona?» chiese Esther.

«Credo di sì» rispose Sloane. «Significa che un sacco di cose saranno come le conosciamo.»

«A parte il fatto che… ho la sensazione che tu stia sottovalutando una questione abbastanza cruciale in questo momento, e cioè che non sappiamo come tornare a casa» puntualizzò Esther. «Mentre loro sì. Per cui siamo in trappola.»

«Non la sto sottovalutando» rispose Sloane. «Sto dicendo che è un bene che se dovevamo finire in un universo parallelo, siamo finiti in uno in cui la gente parla la nostra lingua e non ha sviluppato una terza narice né dorme in vasche piene di melma o che so.»

Esther rispose con un verso nasale, e per un momento rimasero tutti in silenzio.

«Erano sorpresi che fossimo più di uno a uscire da quel fiume» disse Sloane. «Si aspettavano un solo Prescelto.»

«Già, come ti sei precipitato a reclamare il titolo, Matt, a proposito?»

Sloane attraversò la stanza e aprì una finestra. Una folata di aria fredda la colpì in viso, facendola rabbrividire. Dall’altra parte della strada c’era un edificio di pietra marrone con una fila di colonne sulla facciata. Il Municipio. Lei sentì il rumore delle ruote delle auto sull’asfalto e lo sferragliare di un treno in lontananza. Erano gli stessi rumori della Chicago che conosceva lei.

Quando si voltò, Matt si stava stringendo nelle spalle. «Che Sloane si incazzasse non sembrava d’aiuto, per cui ho deciso di provare a collaborare, invece.»

«Scusa se ero un po’ allarmata scoprendo di essere stata risucchiata in un’altra dimensione» rispose piccata Sloane.

«Allarmata.» Matt sollevò le sopracciglia. «È un modo per dirlo. Un altro potrebbe essere “ostile”.»

«Ehi» intervenne Esther con l’aria stanca. «Dobbiamo stare uniti se vogliamo farcela.» Si morse il labbro. «Vogliamo farlo davvero?» Il suo sguardo era inespressivo, fisso sul muro di fronte, o su qualcosa ancora più in là. «Vogliamo combattere di nuovo contro l’Oscuro?»

«L’abbiamo combattuto una volta.» La testa di Matt era incorniciata dalla finestra di vetro colorato, per cui sembrava che la Vergine Maria lo stesse guardando dall’alto, gli occhi semichiusi, il ritratto della serenità. «E abbiamo imparato molto da quella battaglia. Lo possiamo rifare… magari anche meglio stavolta.»

«No» disse Sloane. «No, non lo faremo per un cazzo meglio.»

Matt aveva l’obiezione pronta. «Slo…»

«No! Non ho intenzione di lasciarti fare il discorsetto d’incoraggiamento quando ci troviamo in un dannatissimo incubo a occhi aperti. Albie è morto, Ines è a un universo di distanza, l’Oscuro è ancora vivo e questo mondo è pieno di magia che noi non sappiamo utilizzare!»

«Direi che tu ne sai qualcosa su come utilizzarla» rispose freddo Matt. «In che altro modo saresti riuscita a far saltare in aria la Cupola ieri notte? Con una bomba rudimentale?»

Sloane non rispose. Non sapeva cosa dire.

«Pensi che sia stata Slo ad attaccare la Cupola?» esclamò Esther. «Matt…»

«Ha ragione.» Sloane tenne gli occhi fissi in quelli di Matt mentre parlava. «Sono stata io. Ho dissotterrato l’Ago di Koschei e ho distrutto il prototipo magico.»

«Cazzo, Slo» disse Esther. «Pensavo che l’Ago fosse stato distrutto anni fa.»

«Invece no. Semplicemente non volevo che se lo prendesse la ARIS

«Ma hai pensato che andasse bene se lo tenevi tu? Perché tu saresti più affidabile dell’Agenzia?» obiettò Matt.

«Sì» rispose lei. «Lo sono.»

«Probabilmente hai ucciso delle persone, lo sai questo?» la incalzò Matt. «Addetti delle pulizie, personale della sicurezza.»

Sloane abbassò lo sguardo sulla cicatrice in rilievo sul dorso della mano, sulle linee seghettate lasciate dai suoi denti storti. «Non sarebbe la prima volta.» Sollevò la testa.

«Cosa?»

«Perché pensi che mi sia strappata l’Ago a morsi?» Sloane allungò il dorso della mano verso Matt come fosse un’arma. «Perché tutte le altre persone che erano con me nella missione Immersione Profonda sono morte. Li ho uccisi tutti, fino all’ultimo.» Era tesa, le spalle sollevate fino alle orecchie. Si stava preparando all’impatto. «La ARIS non ha voluto rimuovere l’Ago neanche quando li ho implorati. E così l’ho fatto da sola.»

Ricordava la radiografia della sua mano dopo quella missione. Le ossa, nettamente bianche contro lo sfondo nero e grigiastre nei punti in cui erano meno dense. E, giusto al centro, il grosso Ago, che si assottigliava verso la punta aguzza.

«È proprio conficcato dentro» aveva detto il dottore. «Come se pensasse che quello è il suo posto.»

In tutta la sua vita Sloane non aveva mai ottenuto quello che desiderava. Nessuno gliel’aveva neanche mai chiesto, che cosa desiderava. Non compilava la lista dei regali di Natale né faceva richieste per il compleanno, quello era scontato, ma non c’erano neanche moduli firmati per le gite scolastiche, niente associazioni o sport o strumenti musicali, niente soldi per il pranzo; diavolo, neanche niente cibo in cucina la metà delle volte, soprattutto dopo che Cameron si era arruolato per combattere l’Oscuro. Per quanto ne sapeva sua mamma, Sloane non aveva desideri al di là delle necessità fisiche. E a volte non le era permesso desiderare neanche quelle.

Per cui, quando aveva deciso di voler tirare via l’Ago, aveva anche deciso che per una volta avrebbe ottenuto quello che voleva, anche a costo di farlo con i denti.

«Era per la tua sicurezza» disse Matt. «La ARIS non sapeva come avrebbe reagito l’Ago…»

Sloane rise. «Alla ARIS non gliene è mai fregato un cazzo della nostra sicurezza, finché sopravviveva almeno uno di noi per realizzare quella dannata profezia. Mi costringevano a tenere l’Ago perché serviva ai loro scopi. Tutto qui.»

Le sopracciglia di Matt si avvicinarono come facevano sempre quando provava compassione per qualcuno. Una cosa che lei odiava.

«E ora eccoci qui» continuò, «di nuovo a fare da muro di carne tra chi comanda e l’Oscuro. E quindi, come pensiamo di sopravvivere stavolta?»

Nessuno degli altri due rispose. Esther sembrava non volesse neanche guardarla. Sloane pensò alle onde rosse di sangue che sbattevano contro la barca della ARIS vuota. Pensò a come si era trascinata sopra il ponte e aveva camminato con i piedi nelle pinne fino al pannello di controllo per attivare il segnale di emergenza, con il sapore di rame sulla lingua.

Pensò agli stinchi che bruciavano per l’impatto con l’acqua quando si tuffava a bomba dal trampolino. A Cameron che l’aspettava sul bordo della piscina.

E al sapore dell’acqua del fiume, al pallido luccichio della guancia dell’Oscuro sotto la luce della luna, prima che sparisse.

Aprì la porta e stava per andarsene quando Matt parlò di nuovo.

«Troveremo il modo.»

«Già» rispose lei, e uscì.

Non la sorprese che Matt la seguisse in corridoio.

Il loro primo bacio era avvenuto in una situazione simile. Dopo la sconfitta dell’Oscuro, lui le aveva chiesto diverse volte di uscire insieme. Lei aveva sempre rifiutato. Erano amici, diceva. Non pensava a lui in quel modo.

Ma era solo una scusa, perché non lo sapeva più in che modo pensava a lui. L’immagine di quando l’aveva incontrato la prima volta – tutto gomiti e ginocchia – era svanita, sostituita da quella di lui che sconfiggeva l’Oscuro, la luce calda del Ramo d’Oro sul viso, il braccio teso e muscoloso sollevato prima di scagliare il colpo mortale, il petto ansimante, la mascella serrata…

Il suo eroe. L’eroe di tutti, in realtà, ma soprattutto suo.

Matt non aveva accettato i suoi rifiuti, il che l’aveva infastidita. La sua insistenza era insultante, gli ripeteva. Come se lui pensasse che lei non sapeva quel che voleva. Ma, in quel caso particolare, aveva ragione lui. Perché a una delle feste di Ines e Albie, lei e Matt avevano parlato fino alle tre del mattino, le braccia appoggiate sullo schienale del divano sfondato, le bottiglie di birra che pendevano dalle loro dita anche molto dopo che la birra era finita. Matt gliel’aveva chiesto di nuovo e lei aveva evitato la domanda e si era alzata per andare in bagno. Lui l’aveva seguita in corridoio e l’aveva baciata.

«Pensa a me in un altro modo» le aveva detto staccando le labbra.

Lei non riusciva più a ricordare quella sensazione di fuoco nella pancia che l’aveva spinta a schiacciarlo contro il muro accanto al bagno e a infilargli la lingua in bocca. Non la provava più.

«So che non è un buon momento» la incalzò Matt. «Ma dobbiamo…»

«Parlare. Lo so.»

Indossava gli abiti eleganti del funerale: camicia bianca, cravatta, maglione nero. I pantaloni di lana stirati quel mattino per dargli una piega perfetta. Ora appariva sgualcito ed esausto, come se quella conversazione fosse solo un’altra incombenza in fondo a una lunga lista.

«Non so neanche bene da dove cominciare, sinceramente.»

Sloane rise. Sembrò più un colpo di tosse. Non c’era bisogno che cominciasse. Come se aver preso in giro con Albie la sua proposta di matrimonio quando era ubriaca non fosse stato sufficiente, c’era anche l’aver fatto saltare in aria la Cupola, l’aver mentito sull’Immersione, taciuto sulla richiesta FOIA, nascosto l’Ago in cantina… e tutta la serie di piccoli inganni che componevano le loro giornate, ogni volta che lei provava una cosa ma ne diceva un’altra o lo assecondava nelle sue fantasie su di lei che non avevano nessuna aderenza alla realtà. Non c’era più quasi niente di loro che fosse reale, ed era colpa di Sloane.

Ma la gola le si era chiusa al pensiero di quello che stava per arrivare, perché lui sarebbe diventato un’altra persona che non la voleva. Come se non bastassero i suoi genitori, Bert e tutti i giornalisti e i fan dei Prescelti del mondo. «Tu e io siamo completamente sbagliati» disse. «Non hai bisogno di convincermi di questo.»

«Non hai intenzione neanche di contraddirmi?»

«A che scopo?»

«Per cui non hai nessun desiderio di lottare per noi» disse lui, alzando la voce. «Hai solo… cosa, aspettato che fossi io a rompere con te perché tu non ne avevi il coraggio?»

Lei scosse la testa. «Non è questo. Io… io so che quando si trova una cosa bella, bisogna tenersela stretta. Tutto qui.»

«Questo è…» Lui sbatté le palpebre. «Questo è maledettamente egoista, Sloane.»

«Cosa?»

«Dieci anni. Dieci anni che io avrei potuto passare con qualcuno a cui fregasse davvero qualcosa di me invece di stare con una persona che mi mente e non riesce neanche a far finta che le importi quando ci lasciamo.»

«Mi importa. Solo perché non sono una che si mette a piangere non significa che non m’importi!»

«Se ti importasse, non saresti scappata subito dopo che ti ho chiesto di sposarmi, per prendermi in giro con Albie. Se ti importasse, avresti chiamato un maledetto terapeuta dopo avermi quasi ammazzato nel dormiveglia nel cuore della notte.»

«Non ti stavo prendendo in giro con Albie. Lui ha detto che sembrava non mi conoscessi, e io ero d’accordo. Tutto qui.»

«Che non ti conoscessi

«Sì!» Sloane sollevò le braccia in un gesto di esasperazione. «Ti comporti come se tutto questo ti cogliesse di sorpresa! Be’, io sono esattamente quello che ho sempre affermato di essere. E tu sei semplicemente andato in giro con le dita nelle orecchie per dieci anni.»

«Quindi, in altre parole, è colpa mia perché credevo in te.»

«No, è colpa tua per esserti comportato come se mi conoscessi meglio di come mi conosco io!»

Lei si rese conto in ritardo che lui aveva detto “credevo”. Al passato. Non si era mai resa conto di quanto il suo credere in lei, per quanto stupido fosse, le fosse penetrato dentro. Ora che l’aveva perso, si sentì come una mela senza torsolo, svuotata di tutto quello che poteva produrre vita, o un futuro. Tutta pelle lucida e polpa succosa, e nient’altro.

Si sfilò l’anello dal dito e glielo porse. Le sue mani erano ferme, ma non riuscì a guardarlo. Se l’avesse fatto, le avrebbe ricordato quanto erano dolci i suoi occhi ogni volta che la guardava. Come luccicavano un po’ quando sorrideva a qualche sua battuta. Come potevano diventare feroci quando qualcosa minacciava le persone che lui amava. Lei avrebbe significato molto poco per lui da quel momento. Una vecchia amica, una ex. Sarebbe sbiadita nei suoi ricordi. Era così che succedeva sempre; lei sbiadiva nella mente delle persone una volta che aveva esaurito il suo scopo. «Mi dispiace davvero» disse piano. «Di non essere di più.»

«Già.» Matt si mise l’anello in tasca. «Anche a me.»

Lui si chiuse la porta alle spalle. Sloane si sedette ai piedi del letto, ascoltando i tonfi dei passi di Esther nella stanza accanto e il fruscio delle auto che passavano in strada, lo si sentiva perfino a quell’altezza. Quando riuscì a muoversi di nuovo, scivolò verso la testiera, senza togliersi le scarpe, e si rannicchiò su un fianco. Sentì arrivare i singhiozzi incontrollati e violenti che la travolgevano quando il senso di vuoto dentro di lei si faceva insopportabile. Prese il cuscino e vi seppellì la faccia, e quando fu troppo stanca per provare ancora qualcosa, cadde addormentata.