Sloane si addormentò quasi immediatamente dopo l’incidente nella Sala delle Convocazioni e quando si svegliò era il mattino seguente.
Matt e Cyrielle l’avevano aiutata a tornare in camera. Lei aveva contato i passi per cercare di non pensare alla devastazione che si era lasciata dietro. Tutti i sifoni e gli oscilloscopi sparsi sul pavimento. Le folate di aria fredda che entravano dall’oculus sfondato. Vetri azzurri, verdi e rossi dappertutto. La mantella di Nero, strappata dai fermagli, che sbatteva a terra. Le trecce di Cyrielle disfatte, le forcine sfilate.
L’avevano fatta sedere sul letto e, quando Matt era uscito per andarle a prendere un bicchiere d’acqua, lei aveva sollevato lo sguardo su Cyrielle e aveva chiesto: «Che cosa significa quello che ho fatto?».
«Non lo so» aveva risposto lei. «Ma non si è fatto male nessuno. Quando riproverai la prossima volta prenderemo… delle precauzioni.»
«Non ci sarà una prossima volta» disse Sloane, e si addormentò seduta come si trovava.
Non sapeva che ore fossero quando si svegliò. Si sentì come se fosse svenuta dopo aver bevuto troppo la sera prima e dovesse ricomporre il proprio corpo pezzo per pezzo. Si levò a sedere. Si strofinò gli occhi. Si passò le mani tra i capelli. Si raddrizzò i vestiti. Matt le aveva lasciato un bicchiere d’acqua sul basso comodino bianco, lo bevve in un sorso, mentre con lo sguardo cercava le scarpe. Qualcuno gliele aveva tolte e le aveva lasciate accanto alla porta.
Se le infilò, legò stretti i lacci e controllò in corridoio se c’era traccia degli altri. Le loro porte erano chiuse, le luci spente. Dormivano ancora. Nessuno se ne sarebbe accorto se usciva per un po’.
Aelia non voleva che lasciassero il palazzo, per cui, neanche a dirlo, era esattamente ciò che Sloane aveva deciso di fare.
Sapeva che Nero aveva un sistema per controllarli, ma non sapeva quale fosse. Non poteva comunque chiamare l’ascensore per cui decise di rischiare di prendere di nuovo le scale. Se la segretezza non poteva essere sua alleata, allora avrebbe dovuto affidarsi alla velocità. Quando arrivò alla porta in fondo al corridoio, cominciò a correre. La aprì e scese i gradini a tre alla volta, poi quattro, quando cominciò a prendere le misure.
Non andava a correre da un po’, per cui il battito del cuore e il dolore alle gambe erano una piacevole distrazione da tutto quello che era successo. Agognava l’aria fredda e la sensazione dell’asfalto sotto le suole degli stivali. Quando raggiunse il pian terreno, vide l’uscita d’emergenza, ma il cartello PORTA COLLEGATA AL SISTEMA DI ALLARME la dissuase dal provarla. Si infilò in un’altra porta e andò nell’atrio, invece.
Era già passata di là più di una volta, insieme agli altri. Era un ampio open space che, con tutte le sue elaborate decorazioni (barocche, pensò Sloane), i suoi archi rampanti (gotici) e i suoi dorati motivi geometrici (art déco), sembrava il presbiterio di una chiesa. Le pesanti porte di legno che davano sull’esterno contribuivano ad accrescere quell’impressione. “Cameron approverebbe” pensò. Andò dritta verso l’uscita: per il momento non aveva incontrato ostacoli…
«Sloane.»
Un uomo che non riconobbe le si parò davanti. Militare, pensò, a giudicare dalla postura, dall’ampia muscolatura e… giusto, l’uniforme. Pantaloni blu marino, informali, infilati dentro gli anfibi. Camicia grigia a maniche lunghe, arrotolate fin sopra i gomiti. Lo stesso simbolo che aveva visto appuntato al petto della gente accanto al fiume era cucito sulla parte destra del suo torace.
Lei prese in considerazione l’ipotesi di fare uno scatto fino alla porta, ma decise che non era il momento giusto per un atto così disperato… non ancora, per lo meno. Per cui fece mostra di non essere intimidita.
«Ascolta, più tu sei determinato a tenermi qui, più io sarò determinata a uscire. Per cui, perché non ci risparmiamo tutto l’accumulo di tensione?»
«D’accordo» rispose l’uomo. «E se io ti dicessi che il mio lavoro non è di impedirti di uscire ma di accompagnarti per assicurarmi che non finisci nei guai?»
Sloane guardò fuori dalla finestra la strada deformata dalle spesse increspature nei pannelli di vetro. Riusciva quasi a sentire l’odore dell’aria che veniva dal lago Michigan.
«Dovrei aggiungere» continuò l’uomo, «che se non accetti di lasciarmi fare il mio lavoro, seguiranno un sacco di lamentele e noiose discussioni.»
«D’accordo» acconsentì lei.
«Mi chiamo Kyros.» L’uomo stese la mano. “Presa salda” pensò Sloane. Non la sorprendeva. «Sono il capitano del nuovo Esercito Baluginante. Non che questo significhi molto per te.»
Indossava un sifone al polso, più semplice di quelli che lei aveva visto fino a quel momento; solo due placche di metallo lucido che coprivano il dorso e il palmo della mano lasciando libere le dita. Su una era inciso lo stesso logo del sifone che lei aveva usato il giorno prima: la creatura con la testa d’uccello, il busto di uomo e la coda di serpente.
«Esercito magico» disse Sloane. «Giusto. Che cosa lo rende nuovo?»
«L’esercito precedente è stato massacrato dal Resurrezionista» rispose lui. «Dove vorresti andare?»
“Sorvoliamo l’argomento massacro, giusto?” pensò lei. «Al lago.»
Il lungolago era sempre stato una sorta di ancora per lei; se mai si perdeva, tutto quello che doveva fare era trovarlo e avrebbe saputo da che parte stava l’est. Conosceva a memoria le strade che vi correvano parallele: Lake Shore, Columbus, Michigan, Wabash, State, Dearborn, Clark, LaSalle e via via fino al fiume. Andarvi ora poteva aiutarla a trovare un punto fermo dentro di sé, perfino su Genetrix.
Kyros fece scattare il dito indice verso la doppia porta, che si aprì. Aveva un controllo formidabile, notò lei; le porte si aprirono giusto quanto bastava per farli passare, invece di spalancarsi completamente come avevano fatto con Aelia. Ma le sembrava ugualmente un uso frivolo della magia.
«Per le prossime volte» disse lei oltrepassandole, «so aprirmi le porte da sola.»
«Porgo le mie scuse» rispose Kyros. «Mi viene automatico.»
“Un mondo di magia a portata di polpastrello” pensò lei, “e la usi per aprire una porta.”
Fuori, si adeguarono immediatamente al passo della gente che percorreva il marciapiede. Sloane osservò l’abbigliamento: le diffusissime scarpe a punta con suole dure che producevano un rumore secco, un po’ come scarpe da tip tap; le stoffe pesanti avvolte intorno al collo e alle spalle, che lasciavano scoperta la gola per mettere in mostra i relativi sifoni; le ampie maniche che si fermavano a metà avambracci per sfoggiare i sifoni da polso; i capelli con trecce complicate che rivelavano sifoni da orecchio tempestati di gemme, il genere più elaborato, a quanto aveva osservato Sloane. Dall’altra parte della strada c’era la vista confortante del Daley Center, un edificio compatto marrone scuro che evidentemente era sopravvissuto alla spaccatura tra i due universi. Ma dall’altra parte della strada, dove nel suo mondo c’era un’alta struttura moderna con finestre azzurre, qui c’era un gruppo di guglie che le ricordava La Sagrada Família, la ricca ed elaborata chiesa di pietra di Barcellona.
Il pensiero le procurò una stretta al cuore. Cameron una volta aveva portato a casa un libro di architettura preso in biblioteca e doveva poi essersi dimenticato di restituirlo, perché Sloane l’aveva trovato in camera dopo la sua morte, con le orecchie alle pagine a segnare i suoi edifici preferiti. La Sagrada Família era tra questi.
«E così, questo Resurrezionista… Se lo vedessi – e immagino che lo riconoscerò quando lo vedrò – che cosa dovrei fare?»
«Quello che dovresti fare è imparare le manovre difensive di base con il sifone» rispose Kyros. «C’è uno scudo che è semplice da imparare e sembra far guadagnare tempo alla gente quando se lo trova davanti. Gli impedisce di eseguire il suo processo preferito.»
«Che sarebbe?»
«Far collassare i polmoni» disse Kyros, nello stesso modo diretto in cui le aveva parlato del massacro dell’esercito. «È difficile rigonfiarli in tempo prima che la persona soffochi, e la vittima non riesce a farlo da sola dal momento che non riesce a produrre suoni.»
Sloane represse un brivido. «Okay. Scudo, quindi.»
«Guarda. Te lo mostro.»
Lui le mise una mano sul gomito e la guidò verso un vicolo pieno di scatole di cartone e sacchi dell’immondizia. Lei avrebbe protestato se non fosse stata così curiosa di vedere lo scudo. Kyros stese il braccio, il palmo rivolto verso Sloane, e fischiò tra i denti a una frequenza così alta che Sloane si coprì le orecchie con le mani. Si stava domandando come fosse possibile produrre un suono così acuto quando vide qualcosa luccicare nella bocca di Kyros. Un dente finto? Un piercing? Non avrebbe saputo dirlo.
Qualunque cosa fosse, a quel fischio l’aria sembrò addensarsi, come quando usciva gas da un fornello. Sloane la vedeva incresparsi davanti a Kyros a ogni ripetizione del suono.
Allungò la mano, quasi inconsciamente, la bambina che era in lei avida come sempre di verificare con il tatto. Aveva una consistenza vischiosa, setosa, come di acqua stagnante.
«Non lo fermerà» disse Kyros, la voce smorzata dalla barriera. «Ma lo rallenterà.»
«Peccato che io sia una frana con i sifoni.»
«Dovresti sforzarti di non essere “una frana”» ribatté Kyros con espressione determinata. «O metterai in pericolo te stessa e le persone intorno a te, soprattutto se insisterai a voler lasciare la sicurezza del Centro Cordus senza essere accompagnata.»
«Ricevuto.» Sloane ebbe la sensazione di non piacere molto al capitano.
Kyros rimosse lo scudo con sguardo severo, e ripresero a camminare.
Oltrepassarono alcuni negozi che sembravano familiari: panetterie, paninoteche, pizzerie. Fu solo quando furono passati davanti a una caffetteria con una tenda parasole azzurra che Sloane si rese conto che stava cercando Starbucks… e non lo trovava. Quel posto si chiamava I Fagioli Magici di Jack e ovviamente aveva come logo il contorno bianco di un fagiolo che scompariva in una nuvola.
All’incrocio della Randolph con la State, Sloane notò che a consentire l’attraversamento dei pedoni non c’era l’omino bianco luminoso a cui era abituata, ma un pezzo di metallo, che ruotava a ogni cambio di indicazione, con una serie di cerchi sovrapposti. Il simbolo dell’Alt era un cerchio soltanto. Si domandò come potessero essere visibili di notte.
Mentre si avvicinavano a Michigan Avenue, inclinò la testa indietro per guardare l’edificio nero che si trovava sulla curva di Lake Shore Drive, ma non riuscì a trovarlo. Al suo posto c’era una grande torre di vetro con un buco al centro e, sospesa al centro del buco, con il vuoto tutto intorno, una sfera dello stesso vetro e metallo del resto dell’edificio.
«Come…» si sentì strana, come se fosse uscita dal proprio corpo. «Come…»
«Ah, quello. Non so bene come funzioni» disse Kyros, in tono divertito. «Magia, ovviamente, ma non ho ben chiari i dettagli.»
«Non è un’illusione?»
«No. Vuoi entrare?»
Sloane scosse la testa. No, non voleva trovarsi dentro una sfera di vetro gigante sospesa in aria. Si portò una mano alla tempia dolorante. Dalla parte opposta della strada, vide qualcosa di conosciuto, il Chicago Cultural Center. Deviò immediatamente in quella direzione, senza neanche gettare un’occhiata al semaforo per assicurarsi che la strada fosse libera. Era tutto troppo, e troppo veloce. Aveva bisogno di sedersi, aveva bisogno di respirare.
Kyros la inseguì dall’altra parte della strada e su per i gradini di pietra. Il Chicago Cultural Center era una vecchia costruzione; il che, Sloane cominciava a capire, significava che era comune a entrambi gli universi. Era un edificio neoclassico composto da una fila di archi sormontata da una fila di colonne, come strati di una torta. Ma era l’interno che ne faceva uno dei suoi posti preferiti, le cupole di vetro Tiffany che brillavano colorate e belle nel sole del mattino. Quelle e il silenzio che sempre regnava nelle sale.
Appena dentro, trovò una fresca panchina di marmo e si sedette, prendendosi la testa tra le mani. Kyros le si sedette accanto – non troppo vicino, per fortuna, o lei avrebbe potuto tirargli un pugno – e rimase in silenzio mentre lei respirava profondamente.
«È troppo» disse lei quando si sentì più calma.
Kyros annuì. «Immagino.»
«Ti dispiace se vado là…» indicò la cupola Tiffany in cima alle scale. Ne poteva vedere solo una fettina illuminata di verde da dove era seduta, ma prometteva un senso di familiarità e – se Kyros gliel’avesse permesso – solitudine. «Da sola? Ho giusto bisogno di qualche minuto.»
Kyros la guardò socchiudendo un occhio.
«Prometto di non andare da nessun’altra parte.»
«D’accordo. Ma tra pochi minuti salgo a controllare.»
Sloane si alzò, sentendosi più stabile. Salì i gradini, poi si fermò alla fine di una rampa per guardare la citazione di Bacone – “Il vero scopo di tutta la conoscenza è questo: che dovremmo dedicare quella ragione che ci è stata data da Dio all’uso e al vantaggio dell’uomo” – composta di piccole tessere inserite nel mosaico che ricopriva ciascun muro, incorniciata su ogni lato da decorazioni verdi gialle e azzurre, spirali e rombi e nastri ondulati.
Quando svoltò l’angolo, vide la cupola Tiffany brillare sotto il sole. Le pareti che salivano a incontrarla erano coperte da piastrelle che componevano forme organiche, verdi spire di viticci intrecciati. La cupola in sé era più semplice, divisa in sezioni rettangolari che si facevano di dimensioni sempre più ridotte quanto più si avvicinavano al centro. Il vetro di ogni rettangolo era composto da semicerchi azzurri e verdi, come le squame di un pesce, e al centro c’erano i simboli dello zodiaco. Il lampadario riproduceva la forma e il motivo della cupola stessa.
Contro la parete in fondo erano disposte tre tele. Le due sui lati viste da lontano non presentavano tratti distintivi, erano enormi e vuote, come dei Rothko. In quella al centro si intravedeva un cenno di luce, come qualcosa che si schiudesse per rivelare qualcosa di luminoso all’interno. Sloane si avvicinò, vide la targhetta fissata sul muro accanto ai dipinti e si fermò proprio sotto il lampadario.
E a un tratto… qualcosa la afferrò per la caviglia, con dita fredde e rigide, e le sollevò il piede verso il soffitto. Sloane soffocò un grido, mentre il suo corpo si capovolgeva, pensando alla ragazza che volava su verso le nuvole nel video che le avevano mostrato Henderson e Cho. Le pareti presero a ruotare intorno a lei; o era lei a ruotare, trascinata dalla mano che le teneva la caviglia, una mano che non sembrava esserci affatto. I vestiti si allontanarono dal suo corpo, ma senza ricadere del tutto verso il basso. Anche i capelli fluttuavano intorno a lei come se galleggiasse in una pozza d’acqua e non si trovasse sospesa nel vuoto, a fissare il pavimento come se fosse un soffitto.
“Zitta” si trovò a pensare, la reazione che le veniva automatica nelle situazioni di panico. Perché il silenzio l’aveva aiutata a scappare dall’Oscuro insieme ad Albie; il silenzio l’aveva aiutata a sfuggire alla morte decine di volte. Strinse i denti e si immobilizzò, lasciandosi girare, appesa come una decorazione di Natale appena agganciata a un ramo. Se solo avesse potuto liberare la gamba… ma avrebbe rischiato di cadere di testa sul duro pavimento, che doveva essere un paio di metri più in basso. Guardò la caviglia prigioniera come se la forza invisibile che la tratteneva potesse parlarle e dirle cosa fare.
«Ciao» disse una voce sotto di lei.
Lei trasalì e guardò su. O piuttosto giù.
Stava ancora girando, ma la faccia dell’uomo era appena sotto la sua, solo qualche decina di centimetri più in basso. Allora dovevano essere più di due metri da terra, perché lui sembrava alto. Era come se lui fosse il centro di una girandola.
«Serve aiuto?» le disse. Aveva una voce profonda ma stranamente musicale per una faccia così seria. Era pallido, con un naso che poteva garbatamente essere descritto come “pronunciato” e occhi scuri che non si erano staccati dai suoi dal primo momento in cui lei l’aveva guardato. La loro intensità era inquietante.
«Che cazzo è questo?!» disse lei.
Lui accennò un sorriso. «Uno scherzo irrealista, credo» rispose. «Ecco, dammi la mano che ti tiro fuori dalla trappola.»
L’ultima cosa che Sloane voleva fare era dare la mano a un uomo strano in una dimensione parallela, ma non le sembrava di avere scelta. Allungò il braccio sopra la testa – cioè, verso il basso – e le loro mani si allacciarono saldamente. Lui sollevò l’altra mano, rivestita da un sifone che sembrava un guanto senza dita. Come tutti i sifoni che aveva visto Sloane, era di metallo, ma doveva essere stato dipinto di verde. Il colore si stava scrostando sui bordi e le piastre erano coperte di strisciate e graffi. C’erano grosse viti intorno ai bordi e cerniere visibili di metalli di diversi colori che suggerivano che era stato riparato più volte.
Lui mormorò, un suono cupo e profondo che lei si sentì quasi vibrare nelle dita. La tensione intorno alla caviglia scomparve di scatto, come una corda che si fosse spezzata. Lui tenne il braccio disteso e continuò a mormorare, anche se cambiò frequenza. La gamba di Sloane si abbassò lentamente, e il suo corpo si raddrizzò a poco a poco. Un momento dopo lei era in piedi davanti a lui, la mano nella sua ancora per un istante prima che entrambi si rendessero conto che non era più necessario.
Ora che era a terra, poté vedere che lui la superava in altezza di tutta la testa, il che non era cosa da poco, considerato quanto era alta. Era vestito con colori scuri ma spenti, grigio, blu marino e nero, con quella strana fascia di tessuto intorno alle spalle come un cappuccio. Non era fermata da un ornamento d’oro, come quella di Aelia e dei suoi pari, ma da qualcosa che sembrava un grosso bullone. Lei sorrise debolmente vedendolo. Sembrava quasi una burla, per prendere in giro la stessa gente che aveva convocato lei su Genetrix.
«Grazie» gli disse. «Hai detto che era… uno scherzo?»
«Sì, il collettivo degli artisti irrealisti sta mettendo trappole per la città da un paio di mesi ormai. Le chiamano “tranelli”. Ho letto il loro manifesto l’altro giorno, qualcuno ci ha tappezzato un treno della metropolitana.»
Lei stava per chiedere chi fossero gli Irrealisti ma si ricordò che avrebbe dovuto mimetizzarsi il più possibile e si rimangiò la domanda. «Che cosa diceva?» chiese invece. Sembrava una domanda priva di rischi.
«Asseriscono che l’introduzione della magia ci ha disancorati dalla vita pratica e quindi dalla realtà stessa. E contestano l’esistenza di certezze quando metà delle cose che un tempo consideravamo certe sono attualmente sovvertite. Da qui il ribaltamento della gravità di cui hai appena fatto esperienza.»
Non avevano tutti i torti, pensò lei. La gravità era una legge di natura e la magia la sovvertiva. La disfaceva. Che cos’altro poteva disfare la magia?
Il tempo. Lo spazio. Intere dimensioni, forse.
«Be’, interessante o no, li odio» commentò Sloane.
Lui scoppiò a ridere. La sua faccia si contrasse tutta e la bocca si aprì mostrando una fila di denti leggermente storti. «Sono fastidiosi, ma per lo più innocui.» I suoi occhi si spostarono sulle mani di lei. «Niente sifone? Una scelta coraggiosa.»
«È in riparazione» mentì lei affettando noncuranza. Tra tutti i Prescelti, era la peggiore a mentire, persino Albie era più convincente di lei, ma si era esercitata abbastanza ormai da non essere un disastro totale. «È una schifezza» aggiunse per un ulteriore tocco di autenticità.
«Un po’ come il mio» disse lui, agitando le dita. «Conosco una persona che ripara a poco prezzo, comunque.»
Rimasero in silenzio. Sloane sapeva che avrebbe dovuto chiudere lì la conversazione, ringraziarlo di nuovo e tornare giù a incontrare Kyros. Ma era passato tanto tempo dall’ultima volta in cui aveva parlato con qualcuno che non sapesse chi era lei o che cosa era. Una vita, in effetti. Non aveva nessuna voglia di smettere.
«E così… ti piacciono i quadri?» riprese lui, indicando le tre tele.
Lei si avvicinò un po’ per leggere la targhetta sul muro: TENEBRIS, CHARLOTTE LAKE, 2001.
«Ho sentito l’artista parlare ieri sera» continuò l’uomo. «Ha detto che la gente immagina che rappresentino la vista dalla USS Tenebris prima dell’incidente, ma in realtà sono dalla prospettiva della magia, guardando le luci della Tenebris attraverso il velo.»
Sloane non sapeva che cosa dire. Non sapeva che cos’era la USS Tenebris – a parte che era evidentemente una nave della marina militare – o di che incidente si trattava, anche se il nome le suonava familiare.
«Non capisco molto di arte» disse. «Non c’è stato molto spazio nella mia vita per quello.»
«E che cosa ha preso tutto lo spazio?»
Lei ci rifletté un momento, poi rispose, con un accenno di sorriso: «Il caos».
Lui rise un po’, ma i suoi occhi indugiarono in quelli di lei, come se sapesse che non stava scherzando del tutto. «Mi chiamo Mox» si presentò, stendendo la mano con il sifone.
«Sloane» rispose lei, chiudendo le dita intorno al metallo. Era freddo. «E così… tu ti occupi di arte, quindi.»
«Non in particolare. Riparo e personalizzo sifoni non Abraxas, per cui sono qui solo per consegnare un lavoro finito a un amico.»
«Ah. Per cui il tipo delle riparazioni a poco prezzo che conosci… sei tu.»
«Che fortuna» scherzò.
«Allora magari ti cercherò se il mio solito riparatore mi fa un lavoro da schifo.»
Per la prima volta dopo molto tempo, Sloane si sentiva se stessa. Non era una Prescelta né il cane randagio di Bert né la stronza al quadrato che qualche giornalista di “Trilby” odiava ma voleva scoparsi. E nell’istante in cui ebbe recuperato quel piccolo frammento di sé, le venne un desiderio disperato di riavere anche il resto.
«Meglio che vada» disse. Non voleva che Kyros arrivasse e rovinasse quel momento.
«Se non hai niente da fare, più tardi, a volte lavoro in un bar di Printer’s Row. Il Boccale.»
«Il Boccale, eh? Vedo se riesco a fare una scappata.»
Lei sorrise. Lui sorrise. E lei si avviò verso le scale.
Ma in fondo alla prima rampa, non riuscì a trattenersi dal guardarsi indietro. Lui era ancora là dove l’aveva lasciato, e fissava intensamente la cupola Tiffany, il viso reso ancora più pallido dalla luce.