Si fermarono al Boccale, che non aveva una vera e propria insegna, solo una luce al neon rosa a forma di bicchiere da birra dei tempi andati dietro la vetrina. Dentro sembrava un pub, con pannelli di legno ovunque, umido ma caldo. Sloane guardò Esther perplessa mentre entravano; all’uomo seduto sullo sgabello accanto alla porta non interessava verificare la loro età. Sloane si passò le mani tra i capelli per scostarli dal viso mentre si guardava intorno in cerca di Mox.
«Sembra un set cinematografico» disse Esther con una mezza risata. Aveva ragione. Le nicchie scure, i muri di pietra, i tavoli con sopra le candele accese: era una scenografia da film fantasy o un locale da parco divertimenti a tema. Con la differenza che qui gli effetti magici erano veri: una fetta di limone galleggiava sopra un gin tonic, spremendosi a ogni sorso della donna che lo stava bevendo; un’oliva luminosa rimbalzava sopra un martini; da un bicchiere di whisky si levavano fiamme che non si spegnevano neanche quando il cliente beveva.
Esther trovò un tavolo in fondo con basse panche di legno su cui si potevano stringere tutti, e Sloane andò al bancone. La barista non era vestita come la gente del Caram, questo era sicuro. Aveva abiti aderenti, tanto per cominciare, e strappati un po’ ovunque, il rovinato studiato ad arte. Aveva un piercing al naso, una barretta orizzontale di metallo che si allungava quando lei allargava le narici.
«Ciao» disse Sloane quando la barista si avvicinò. «Sto cercando Mox.»
«Mox, eh?» disse la donna. «Chi sei tu?»
«Sloane. Mi ha detto che potevo trovarlo qui.»
«Vedo se è in giro.»
«Posso anche…» Ma la donna se n’era già andata. «Ordinare da bere? No? Okay.» Sloane tornò al tavolo, dove Esther e Kyros stavano parlando.
«E quindi mi seguono, il che significa che ogni volta che io pubblico un video o una foto, compare sul loro news feed…»
«News feed?»
«Sì, è come un lungo elenco di tutte le persone che ti seguono messe insieme.»
«E seguire qualcuno significa solo che vuoi vedere video di loro che parlano.»
«Sì.»
«Perché non parlare semplicemente con la gente che hai intorno?»
«Ottima domanda» disse Sloane, accomodandosi su uno sgabello.
«Perché è più difficile» rispose Esther, ridendo. «Devi fare tutta la trafila di rito. Con i social media puoi startene a casa in mutande e avere comunque l’impressione di avere una vita sociale.» Esther aveva un rossetto rosa Barbie e indossava il sifone standard con cui aveva litigato Sloane quel pomeriggio. Non era abbastanza decorativo per Esther; non si abbinava con il turbine di stoffa giallo chiaro intorno al suo viso, che dissolveva in un vestito a losanghe che si stringeva intorno alle caviglie.
«Non sono sicuro che vorrei che gente asociale in mutande guardasse i miei video» commentò Kyros.
Sloane lanciò un’occhiata a Edda. Stava osservando il bancone. Il suo sifone era rudimentale, come quello che indossava Esther sulla mano, ma lo portava all’orecchio, e le dava un aspetto asimmetrico. Quando vide che Sloane lo guardava inarcò un sopracciglio.
«Che c’è? Ho qualcosa sulla faccia?»
«No. È solo che non so bene che cosa fanno quelli da orecchio.»
«Potenziano l’udito. Per i rumori lontani, o quelli troppo flebili per la nostra percezione. C’è chi li usa per interpretare meglio il tono di voce della gente, ma io non sono brava in quello.»
In quel momento Sloane vide Mox abbassarsi per passare sotto la porta dietro il bancone, i capelli scuri e ondulati legati indietro in un basso chignon, gli occhi che trovarono immediatamente i suoi, come per attrazione magnetica.
«Ciao» disse lei quando lui fu abbastanza vicino da sentirla. «Te l’ho detto che sarei riuscita a fare una scappata.»
Mox era così alto che, quando si accovacciò accanto al suo sgabello, aveva gli occhi quasi alla stessa altezza dei suoi. «Benvenuta.»
«Io sono Esther. Questi sono Kyros e Edda.» Esther allungò la mano per presentarsi. «Ho saputo che hai aiutato la mia amica a uscire da un pasticcio.»
«Da un tranello irrealista» confermò Mox.
«Gli Irrealisti» ridacchiò Edda. «Un branco di studenti d’arte pretenziosi.»
«Sanno essere brillanti, però» disse Mox. «Anche il tranello è un processo avanzato, che richiede probabilmente un’adunanza di almeno cinque persone e un alto livello di disarmonia. Difficile da mantenere.»
«Solo perché una cosa è difficile non significa che valga la pena farla» ribatté Edda.
«Se avete intenzione di parlare di questo, avrò bisogno di una birra» intervenne Kyros. «O anche sette.»
«Giusto.» Mox si alzò. «Che cosa volete ordinare?»
«Io voglio quella cosa con l’oliva luminosa» disse Esther.
«Il martini genio» disse Mox. «Ottima scelta.»
Kyros e Edda ordinarono entrambi birre che evidentemente già conoscevano. Mox guardò Sloane.
«Io… vengo là» disse lei. «Voglio vedere che cosa avete.»
«Ma come no…» commentò Esther, e Sloane le lanciò un’occhiataccia. Era contenta di allontanarsi dal tavolo e dallo sguardo indagatore di Esther. Mox si infilò dietro il bancone e Sloane si appoggiò sull’altro lato, a esaminare le bottiglie allineate dietro di lui.
Sollevò un sopracciglio quando Mox prese un foglio di carta e se lo avvicinò. Vi erano scritti gli ingredienti per il martini genio.
«Pessima memoria» si giustificò. «Mi sono dimenticato come si processa l’oliva.»
«Questo sembra un eufemismo» disse lei.
Lui rise e prese il barattolo delle olive. Sloane lo guardò con interesse prenderne una con il cucchiaio e lasciarla cadere sul fondo dello shaker. Lo chiuse usando la mano con il sifone, e lei lo sentì mormorare piano, a un tono molto più basso di quanto si fosse aspettata. Lo shaker fece un saltello, poi cominciò a scuotersi, mentre Mox lo teneva fermo solo con la mano con il sifone. Mormorò di nuovo, questa volta a un tono più alto, e quando sollevò le dita dal coperchio dello shaker, l’oliva era illuminata di azzurro. Ma balzò in alto, come per scappare fuori, per cui lui richiuse il coperchio.
«Immagino che vi capiti di sfasciare un sacco di cose quando decidete di inventare una nuova ricetta» disse Sloane. «Servite niente che non saltella, galleggia, o brucia senza sosta?»
«Potrei farti un Antiquato Old Fashioned» suggerì Mox.
«Sembra una buona idea.»
«Ancora niente sifone?» Lui indicò con il mento le mani nude di Sloane. Versò del ghiaccio nello shaker, stando attento a tenerlo coperto fino all’ultimo istante in modo che bloccasse l’oliva sul fondo. Vi versò sopra del gin e del vermouth, e a quel punto l’oliva si era liberata dalla sua prigione di ghiaccio. Lui rimise il coperchio e aspettò che fosse l’oliva a shakerare il tutto.
«Per quanto ne sai tu, potrei averne uno sul petto in questo momento» disse lei. «Come fai a convincere quell’oliva a stare ferma il tempo necessario perché uno possa bere?»
«Se fossi così ricca e potente da avere un sifone da petto, ti taglieresti i vestiti pur di metterlo in mostra» osservò lui ridendo. «E questo processo è un riducente. Ci vuole solo un po’ di tempo.»
Lei cercò di non guardarlo con l’espressione persa, ma non era sicura di esserci riuscita. «Forse non sono una che ostenta i propri sifoni.»
«Non è questione di carattere, è istinto di sopravvivenza. Mostriamo le nostre risorse migliori per attirare i partner e dissuadere i predatori. Come il pavone. Vuoi dire che sei al di sopra di milioni di anni di evoluzione?»
«Io sono il culmine» disse Sloane, in tono solenne. «Congratulazioni per avermi incontrata.»
«Molto onorato.» Lui prese lo strainer e versò il cocktail dentro un bicchiere da martini, poi aggiunse l’oliva. Danzava sul fondo del bicchiere, senza minacciare più di trasformarsi in un proiettile pericoloso.
«Il mio sifone è ancora in riparazione» si giustificò lei. «È solo un giorno.»
«Abbastanza per far impazzire la maggior parte della gente.» Lui buttò via il ghiaccio e sciacquò lo shaker, poi cominciò a preparare l’Antiquato Old Fashioned con un pestello da cocktail e una zolletta di zucchero in un bicchiere pulito.
«Penso sia bello non contare sulla magia per ogni cosa.»
«Sei nel posto sbagliato, allora. Forse dovresti andare in una città-presidio.»
Sloane non sapeva che cosa fosse. «Ci sei mai stato?»
«Ci sono nato. Arlington, Texas.»
«Niente accento?»
«Ho avuto problemi con la magia abbastanza presto nella vita. Mi sono trasferito qui da bambino per imparare a non distruggere le cose.»
Si fermò con il bicchiere in una mano e il misurino del whisky nell’altra, gli occhi scuri fissi su di lei. Sloane ebbe l’impressione che stesse aspettando qualcosa, e che più lei lo faceva aspettare, più quell’attesa diventava un passo falso. Ma le mancava tutto il lessico di quel posto: le parole non dette su cosa fosse una città-presidio, cosa significava aver distrutto cose con la magia da piccolo e anche che cosa suggeriva il fatto che lei potesse passare una giornata senza sifone. «I tuoi genitori sono qui?» Sapeva che era una domanda sbagliata, ma non le veniva in mente nient’altro.
«Nancy e Phil, vivere nel centro nevralgico della magia? Non sia mai detto!» Lui lasciò cadere una ciliegia nel bicchiere, sopra il whisky, il ghiaccio e lo zucchero. «No, non ci sono mai neanche venuti.»
«Ah.» Lei cercò disperatamente un nuovo argomento. «Be’. Io vengo da un paesino al centro del nulla.»
«E ora sei nella grande città.» Lui aveva ancora quello sguardo negli occhi, come di attesa. Lei sapeva che la cosa intelligente sarebbe stata porre fine alla conversazione, tornare al tavolo e non rivederlo più. Ma rimase seduta sullo sgabello. «A fare cosa, esattamente?»
«Te l’ho già detto» rispose lei. «Caos.»
Lui non rise. La luce azzurra dell’oliva si rifletteva nei suoi occhi, che nel bar semibuio sembravano quasi neri. Lei vedeva rimbalzare nelle sue iridi l’oliva che si agitava nel bicchiere. Alla fine, lui fece un sorrisetto. «Ne sono sicuro» disse. «Ecco il tuo drink.»
Lei prese l’Antiquato Old Fashion dal bancone e ne bevve un sorso, poi seguì Mox di nuovo al tavolo, dove servì il cocktail e le due birre come se non fosse successo nulla. Ma qualcosa era successo; solo che Sloane non sapeva cosa.
Edda e Kyros cantavano. Stavano andando tutti e quattro a piedi dal bar all’hotel più vicino, da dove era più facile chiamare un taxi. Era buio, ed Esther aveva notato che almeno metà dei lampioni che avevano oltrepassato erano antiquati, a gas. Sloane aveva l’impressione che la diffusione della magia avesse portato con sé una profonda attrazione verso il passato, ma non capiva bene cosa avessero a che fare l’una con l’altro. Forse era come la sensazione da set cinematografico che trasmetteva il Boccale: tutte le storie magiche erano ambientate in epoche e mondi fantastici così arcaici che gli atti magici erano associati a dei, angeli e demoni dei tempi antichi; e quindi loro guardavano indietro invece che avanti per comprendere la magia.
Esther la prese a braccetto. «E così, questo Mox.»
«So che cosa stai pensando. E sei fuori strada.»
«Quello che voglio dire è che se vuoi farti un’avventura consolatoria con quel gran tocco di mantide religiosa, non è necessario che me lo nascondi. Tutto qui.»
«Buono a sapersi.»
«Però lo nasconderei a Matt.»
«Ovviamente.»
Esther piegò la testa di lato e guardò Sloane come se stesse cercando di ricordare il titolo di una canzone. «Ti vedo meglio qui.»
«Meglio?» Sloane rise. «Dillo a Evan Kowalczyk.»
«Non ho detto “normale”, solo… meglio. Più stabile.»
«È che questo so farlo» rispose Sloane. «So combattere il cattivo, schivare gli scagnozzi del governo. Stesso copione, altro film.»
Esther annuì. Quasi le si strozzarono le parole in gola mentre rispondeva: «Io proprio non voglio rifarlo».
Edda e Kyros avevano terminato la loro canzone, una che avevano imparato entrambi durante l’addestramento nell’esercito, a quanto pareva. Si erano fermati sotto la tettoia illuminata dell’hotel, e parlavano con un uomo in uniforme con un fischietto in bocca.
«E se morissi qui?» La voce di Esther era roca. «E se mia mamma a casa muore senza mai sapere…»
Sloane non riuscì a sentire il resto. Aveva conosciuto la madre di Esther quando erano entrambe adolescenti ed Esther aveva ancora un viso rotondo come un piatto. Era una donna cordiale ma in qualche modo distante, come se vivesse in due mondi contemporaneamente, ciascuno dei quali sottraeva la sua attenzione all’altro. E poi, anni dopo, a seguito della diagnosi, fisicamente si era ridotta alla metà di quello che era prima, la testa avvolta in un fazzoletto, ma era comunque sempre sorridente.
Nessuno dei loro genitori era un genitore da sogno. Tutti avevano dato via il proprio figlio. Ma tra tutti, la madre di Esther era forse quella che più vi si avvicinava, quella che si lamentava se Esther perdeva peso, quella che le costringeva sempre a prendere il tè con i biscotti, anche quando si trovava a casa d’altri.
Sloane prese la mano di Esther e gliela strinse forte, sperando che la pressione la calmasse. Non era brava a consolare la gente, quello era sempre stato il compito di Albie. «Tua mamma sa tutto quello che deve sapere. Sa che sua figlia ha salvato il mondo. E che le vuole bene.»
La testa di Esther dondolò su e giù. «Okay.» Deglutì. «Sì.»
Un taxi accostò al marciapiede. Vi si infilarono tutti, e calò il silenzio mentre tornavano al Caram. Sloane guardava fuori dal finestrino, ma non vedeva niente di quello che le scorreva davanti. Stava pensando a come tutto quello che stava succedendo, compreso l’essere stati attirati in una dimensione parallela, faceva parte del “dopo Albie”. Come fosse una nuova era. Sloane d.A.
C’erano cose che spezzavano la vita a metà.