Sloane dondolava i fianchi al ritmo della musica. Le sue mani erano ricoperte di farina. Albie fece saltare il tappo del barattolo dei confettini di zucchero e inclinò indietro la testa per versarseli in bocca.
«Sei disgustoso!» esclamò Sloane, senza smettere di dimenarsi. Ma stava ridendo. Davanti a lei c’era una fila di biscotti a forma di alberi di Natale. Li aveva ricoperti con uno strato di zucchero verde. «Decora i tuoi cavolo di biscotti» disse. «Stiamo inaugurando una nuova tradizione qui.»
Albie aveva le guance piene di confetti e le labbra blu per il colorante alimentare. Poi il colore gli sparì dalla faccia, e si fece cinereo e pallido. Un cadavere con le labbra blu.
Sloane si risvegliò a ondate successive. Alla prima, notò che il sangue le era affluito tutto nelle mani e che le pulsavano i polpastrelli. Alla seconda, si rese conto che il suo stomaco premeva contro qualcosa di duro e di vagamente ricurvo: una spalla. Alla terza, ricordò il panno contro la faccia. E alla quarta, aprì gli occhi.
C’era stoffa davanti al suo viso. L’orlo di una camicia. Sollevò appena un po’ la testa e vide un pavimento scorrere sotto di lei. Marmo, a scacchi bianchi e grigio talpa. Chiunque o qualunque cosa la stesse portando indossava scarponi da lavoro marroni con stringhe viola slacciate.
Con l’orecchio contro la sua schiena, Sloane sentiva il respiro entrare e uscire crepitando. La mano le stringeva la gamba con una presa salda come una morsa. Pensò alla guancia putrefatta, ai denti serrati e alla lingua che si muoveva sinuosa che aveva visto prima di svenire. Aelia le aveva spiegato perché il Resurrezionista aveva preso quel nome su Genetrix: il suo esercito si componeva di morti viventi.
Il suo primo istinto fu agitarsi e scalciare. Prendere il suo rapitore di sorpresa, scappare, correre il più lontano possibile. Ma non si mosse. Non sapeva niente di chi la stava trasportando – provava dolore? quanta forza aveva? – e non sapeva dove si trovava. La fuga avrebbe dovuto attendere.
Invece di scappare, prese nota della direzione della luce (veniva da alcune finestre sulla sua destra) e della sua inclinazione (erano rivolti a est ed era mattino, appena dopo l’alba). Un dolore acuto nel petto le disse che stava andando nel panico. Si era già risvegliata prigioniera un’altra volta. Ed era finita male.
Ascoltò il mormorio delle voci intorno a lei, tutte asciutte e senza corpo, come sospiri strozzati. Era circondata dall’esercito del Resurrezionista. Gli echi e i riflessi delle alte finestre sul pavimento lucido le dicevano che lo spazio era grande. Nell’aria c’era puzza di muffa e di polvere, con una traccia dell’odore di ozono che sempre i Gorghi le lasciavano sui vestiti, i capelli e la pelle. Sapeva per esperienza che quell’odore avrebbe impiegato giorni ad andarsene, anche a strofinare tutto con forza.
E chissà se sarebbe sopravvissuta tanto a lungo.
Aveva ancora i suoi stivali. Era già qualcosa, un’ancora a trattenerla nel presente invece di scivolare nei ricordi. Indossava le pinne durante l’Immersione. L’Oscuro le aveva preso le scarpe. Qui, invece, aveva i suoi stivali.
«È sveglia» disse qualcuno, o qualcosa. La voce veniva dalla sua destra.
«Bene» grugnì il suo rapitore. «Sono stanco.» Le lasciò andare le gambe e lei cadde a terra, sbattendo contro le piastrelle.
Si trovava in un lungo salone con grosse colonne sui lati e un pavimento di marmo bianco. Una fila di lampade di vetro azzurro dalla forma geometrica pendeva al centro. Da una parte, le alte finestre erano chiuse da assi di compensato, a eccezione dei vetri più in alto. Sulla parete opposta, un raggio di sole luccicava su piccole piastrelle dorate.
Le facevano male i gomiti per l’impatto contro il pavimento. Rotolò su se stessa e si sollevò carponi, respirando attraverso il naso mentre il dolore si placava. Aveva avuto ragione sul fatto che era circondata dall’esercito del Resurrezionista. Ce n’erano ovunque guardasse, che chiacchieravano divisi in capannelli, in piedi o seduti con la schiena contro il muro. Erano in uniforme, pantaloni di un vivido blu marino e camicie con alti colletti, le cappe fissate sulla spalla con bottoni dorati. Se non fosse stato per l’innaturale tonalità verdastra della loro pelle e per le tracce di decomposizione su facce, mani e gole, avrebbe potuto pensare che fossero normali soldati.
Si alzò in piedi. L’uomo – se lo si poteva chiamare così – che l’aveva portata era alto e con le spalle larghe, occhi azzurri lattiginosi e un solo orecchio. Gli stava accanto la donna con la mascella con l’osso scoperto che l’aveva fatta svenire, i capelli scuri e sfilacciati raccolti in una treccia sopra una spalla. A Sloane venne da vomitare.
«Muoviti» disse l’uomo.
Sloane avrebbe voluto obbedire. Davvero. Ma le tremavano le gambe, per cui rimase a fissarli.
La donna sollevò gli occhi al soffitto, la prese per il gomito e la trascinò avanti. Le scarpe di Sloane stridevano mentre camminava lungo un corridoio di piastrelle rotte e intonaco scrostato e su per una scala di metallo. Più saliva e si inoltrava nell’edificio, meno era probabile riuscire a scappare. Cercò di ricostruire la mappa nella mente – “Ovest, stai andando a ovest” – ma riusciva solo a concentrarsi sui suoi stivali.
Stivali uguale presente. Piedi scalzi uguale passato.
La donna si fermò davanti a una porta e la aprì con una chiave attaccata a un anello che portava appeso alla cintura. Dentro c’era un laboratorio mezzo distrutto. Tutti i muri erano dipinti di azzurro, e così anche i cassetti e gli sportelli degli armadietti, che penzolavano in modo precario dal tavolo al centro della stanza. Il pavimento – sopra linoleum, sotto legno – era collassato in alcuni punti ed era coperto da pezzi di intonaco e scaglie di vernice azzurra.
Non era una vera cella. Questo era buono. Questo significava che non era pensata per tenerla dentro. Questo significava che c’era un modo per uscire.
La donna la spinse dentro il laboratorio e chiuse la porta. Sloane ascoltò la chiave girare, poi percorse il perimetro della stanza, per avere un senso delle dimensioni. Era vuota, a parte il tavolo da laboratorio al centro e un rubinetto in fondo. Andò a esaminarlo. Sotto c’era un tubo che doveva unirsi allo scarico di un lavandino, ma il lavandino non c’era più.
Aprì l’acqua. Sentì un sibilo e poco dopo gocce arancioni schizzarono in tutte le direzioni, poi il rubinetto sputò acqua giallastra che probabilmente non era saggio bere. Ma lei era coperta di terra e polvere del Gorgo e desiderava disperatamente puzzare meno di morto. Si tolse il cappotto e lo rivoltò per strappare una delle tasche con i denti. L’avrebbe usata come salvietta.
Si strofinò il dorso delle mani con la stoffa appallottolata finché non furono quasi del colore giusto, poi sciacquò la tasca e la usò per la faccia. Si strofinò le guance finché le pizzicarono, poi passò alla gola e al collo. Gli ultimi furono i capelli, che tinsero l’acqua di nero.
Chiuse il rubinetto e si strizzò i capelli, poi li legò in un nodo alla base della testa perché non la intralciassero. Si chiuse nel cappotto, strofinandosi le braccia per generare un po’ di calore. L’acqua le aveva messo il freddo addosso, o forse aveva solo paura.
Si accovacciò con la schiena contro il tavolo da laboratorio, rivolta verso la porta, sforzandosi di fare respiri profondi.
Era andata nello stesso modo la volta prima. Risvegliarsi in un posto strano e dover aspettare che l’uomo che l’aveva catturata, l’Oscuro, decidesse di fare qualcosa. Addormentarsi per sfinimento. Non sapeva che cosa le era successo prima di essere portata nella stanza, quando era ancora incosciente, e non sapeva bene per quanto tempo lui era stato accanto al letto a guardarla prima di toccarle la faccia per svegliarla. Quel tempo di cui aveva perso traccia l’aveva tormentata più di quanto si sarebbe aspettata, all’idea che il suo corpo non avesse una propria memoria, che lei non potesse interrogarlo per avere risposte.
Rimase rannicchiata, a contare i respiri per assicurarsi dello scorrere del tempo, finché le si addormentarono i piedi. Stava giusto per alzarsi per riattivare la circolazione quando una chiave girò nella serratura. Sloane indietreggiò rapidamente, allontanandosi finché non colpì le tavole che sbarravano la finestra. Le faceva male il petto. Continuava a sentire la voce dell’Oscuro che sussurrava il suo nome.
Il Resurrezionista era sulla soglia, dietro le sue larghe spalle si intravedeva appena la donna zombie. Nero aveva detto che il Resurrezionista indossava cinque sifoni. Aveva contato male. Ne aveva uno su ciascun occhio, uno sul naso e la bocca, uno sulla gola; uno per mano; uno sopra un orecchio. Erano tutti semplici, di metallo scuro che sembrava peltro.
Procedeva a grandi passi, non si poteva dire che zoppicasse, ma aveva un’andatura instabile e predatoria. A un suo scatto delle dita, accompagnato da un fischio acuto, la porta sbatté dietro di lui.
Erano soli.
Sloane cominciò a vedere nero ai bordi del campo visivo. Sentì un formicolio al petto, alle mani, la stessa sensazione che aveva provato quando aveva trovato l’Ago nella Sakhalin affondata, o il prototipo nella Cupola. Chiunque e qualunque cosa fosse il Resurrezionista, era pervaso di magia.
«È stata Ziva ad accorgersene.» La voce distorta dal sifone aveva quella qualità metallica che lei aveva notato in strada quando lui aveva fischiato. Parlava come se si trovassero nel mezzo di una conversazione. «Tutti quegli stregoni nei loro bei vestiti che corrono in giro come topi. Era chiaro che stava succedendo qualcosa.» Inclinò la testa di lato. «Ho occhi ovunque mi servano. E le cose che gli occhi hanno detto su di te. Niente sifone. Sempre in compagnia di quel soldato corpulento…»
«Quello che tu hai ucciso, vuoi dire?» La domanda le uscì impetuosa e aggressiva. Lei inspirò bruscamente.
«Nessuna apparente conoscenza del nostro mondo.» Lui continuò come se non fosse stato interrotto. «Sei in iperventilazione?»
«Fottiti» disse Sloane, le dita che scavavano nella vernice e nell’intonaco.
«Nessuna magia, neanche quando non avevi altra scelta» aggiunse lui. «Significa che non sai usarla? Me lo domando.» Inclinò la testa dall’altra parte. «Ma perché avrebbero convocato per uccidermi un soldato da un’altra dimensione che non può usare la magia?»
L’intonaco le mordeva la pelle sotto le unghie. Lui sapeva. Sapeva da dove veniva lei, che cosa avrebbe dovuto fare…
Ma come?
Ricordò lo sguardo di Mox al bar, come lui si era aspettato qualcosa che lei non gli aveva dato. “Ho occhi ovunque mi servano.” Mox era stato gli occhi del Resurrezionista, Mox che l’aveva liberata dal tranello, l’aveva attirata al Boccale, e le aveva fatto domande fino a capire che si trovava nel mondo sbagliato.
Sloane si maledisse. Era stata stupida. Aelia e Nero volevano che lei non uscisse, che stesse dove era protetta, ma lei era stata così sicura di sé, così arrogante, una bambina che giocava a fare l’eroe. E ora sarebbe morta per quello.
«Sarebbe stato semplice finirla, ma poi… gli altri» disse il Resurrezionista. «Quanti ce ne sono?»
«Se li tocchi» disse Sloane, staccandosi di slancio dal muro «Io…»
«Mi colpisci con un palo che diventa polvere?» ribatté lui, la voce che si faceva untuosa. «Non sei leale. Tu e i tuoi amici venite a uccidermi e a me non è consentito reagire?»
«Tu stai distruggendo questo mondo» disse lei. «E anche il mio. Cosa c’è di leale in ciò?»
«Distruggere il mondo? Io?!» Lui rise cupamente. «Immagino dovrei sentirmi lusingato se pensi che posso controllare una distruzione di quel livello mentre sono impegnato in una rissa di strada.»
Sloane ripensò alla sua sagoma scura contro il confuso tumulto del Gorgo. La distruzione non si era fermata neanche un istante mentre lui attaccava Kyros e inseguiva lei.
«Questo mondo, e il tuo mondo, si distruggono da soli. Tutti i mondi lo fanno.» Era sfuggente, irrequieto perfino, con il peso dei sifoni che lo ancorava a terra. «Non hanno bisogno di me.»
«È così che ti giustifichi?»
«Come vieni ricompensata?» chiese lui. «In monete di bronzo, nickel, argento? Un potere da riportare a casa? Cosa?»
«Ricompensata?»
«Oh, sei una vera eroina, allora.» Sembrava quasi divertito. «Scandalizzata dalla semplice menzione di uno scambio…»
«Non ho scelto io di venire qui! E se potessi tornare a casa, me ne sarei già andata.»
Lui non sembrò sentirla. Voltò la testa di scatto, come ascoltando qualcosa in lontananza. Poi si girò e uscì di furia. La porta si chiuse sbattendo alle sue spalle.
Sloane rimase immobile per un po’ dopo che se ne fu andato. La sua paura si era parzialmente placata. Lei conosceva l’Oscuro. Conosceva la sensazione graffiante che le dava trovarsi vicino a lui, la torsione allo stomaco quando la sua attenzione si puntava su di lei. Non era così?
“Basta” pensò e si voltò verso la finestra chiusa da assi alle sue spalle. Era la migliore possibilità che aveva di fuggire. Il legno si rompeva. Le assi bruciavano. Le finestre si aprivano su davanzali e strade e sulla fredda aria notturna.
Cominciò a tirare fuori cassetti e ad aprire armadietti. Erano di compensato sottile e il tempo li aveva resi fragili. Buoni come combustibile, forse, ma questo non la aiutava, a meno di voler mandare a fuoco la stanza. Ma tirò fuori ugualmente i cassetti dai loro binari e li impilò sopra il tavolo. Erano possibili risorse.
La forza bruta era la prima cosa da tentare. Prese uno dei cassetti più grandi e lo scagliò con forza contro le assi della finestra.
Il cassetto si frantumò, e le rimasero in mano solo la maniglia e metà pannello frontale. Li gettò via.
C’erano delle fessure tra le assi della finestra, abbastanza larghe da poterci infilare le dita. Afferrò dunque un’asse e puntò il piede contro la parete per fare leva. Spinse con i piedi mentre tirava il legno con entrambe le mani, impegnandosi con tutte le forze per romperlo, o almeno allentarlo. Ma… niente. Le mani le facevano male e soffocò un grido di frustrazione.
Non sarebbe morta là. Non in quella stanza putrida in una dimensione parallela.
Ciò di cui aveva bisogno, pensò, era una pressione maggiore di quella che era in grado di esercitare con il corpo. E la poteva ottenere o aumentando la forza, cosa che non avrebbe saputo come fare in quel momento, o riducendo la superficie.
Rimase a guardare le assi per alcuni secondi, ringraziando chiunque avesse fissato le leggi dell’universo e dato a lei la capacità di ricordarle. Poi si avvicinò al tubo che spuntava dal muro. La ghiera che assicurava il prolungamento del tubo al sifone idraulico a U era vecchia, facile da allentare anche a mano. Si aggrappò alla flangia e tirò forte. Tutto il pezzo – valvola, flangia, sifone idraulico – si separò dalla prolunga e dal rosone fissato al muro. Il tubo era solido, pesante. Lo appoggiò sul tavolo.
Si tolse il cappotto e si sbottonò la camicia, ignorando il freddo. Dopo essersela sfilata, si rimise il cappotto e se lo abbottonò fino alla gola. Torse la camicia per farne una corda e ne infilò un’estremità nello spazio tra le assi.
Era un lavoro irritante, come cercare di infilare un ago con mani malferme. Anche spingendo le dita nelle fessure sui due lati dell’asse, non riusciva a manovrare la sua corda di fortuna per farla arrivare dall’altra parte. Ci provò più volte, ma non riusciva mai a prenderne l’altra estremità. Sentì il sudore formarsi sulla nuca. Più tempo impiegava in quell’operazione, più aumentavano le probabilità di essere interrotta.
Finalmente riuscì a prendere la corda da entrambi i lati dell’asse. Poi dovette ripetere il procedimento. Aveva bisogno di usare due assi, l’una contro l’altra, come fossero le sbarre di una vecchia prigione. La seconda volta fu più facile manovrare la corda; fece uscire il lembo di camicia dall’altro lato della seconda tavola, poi legò insieme le due estremità della corda in un nodo stretto. Prese il tubo, lo fece passare al centro del nodo e cominciò a girarlo.
All’inizio non notò nessun cambiamento. Ma più il tubo ruotava, più la stoffa si stringeva intorno alle assi, finché divenne perfino difficile continuare a girare. Si dovette arrampicare, appoggiandosi al davanzale interno per spingere giù il tubo con tutta la forza che aveva. Le tremavano le mani. Ma le assi cominciavano a scricchiolare.
Un altro giro, e le sue mani cominciarono a scorticarsi. Le assi gemettero.
Un altro giro, e si spaccarono.
Ridendo, Sloane sciolse il nodo della camicia per liberare il tubo, che poi usò per premere sui punti deboli delle assi, le quali si piegavano più facilmente ora che avevano ceduto. Dopo poco aveva creato un varco abbastanza largo da passarci con tutto il corpo, anche se non comodamente. Avrebbe dovuto strisciare fuori.
Infilare la testa fu abbastanza semplice, anche se si graffiò contro il legno spezzato. Era ancora giorno, ma il sole stava calando. L’edificio si componeva di diversi livelli, come una torta nuziale, e lei si trovava al di sopra del livello più basso, il cui tetto era coperto di ghiaia. Non sapeva bene come sarebbe scesa da lì, ma almeno poteva lasciarsi cadere sulla ghiaia senza rompersi la testa.
Si infilò a fatica tra le assi, mordendosi il labbro per non gridare quando il legno le si conficcò nelle spalle. Risucchiò in dentro lo stomaco, si divincolò per uscire completamente, e cadde rotolando sul tetto di ghiaia, dolorante.
Sapeva che non era il momento di esultare. Si alzò, si spazzolò i brecciolini dai vestiti e percorse zoppicando il bordo del tetto, in cerca dell’uscita d’emergenza. La libertà era così vicina, solo sette piani più sotto, ma era fuori portata a meno di volersi spezzare la schiena. La Sears Tower era in piena vista, un gigante scuro contro le nuvole, e poco lontano c’era la Warner Tower, con le grigie ondulature del suo lato ovest. Lei guardava verso il lago, e il palazzo su cui si trovava dava su quella che nel suo mondo sarebbe stata Congress Parkway. Era passata in macchina sotto quel palazzo, ma non sapeva come si chiamava.
Terminò il giro del tetto senza aver trovato alcuna scala antincendio. Se voleva scappare, doveva passare dall’interno.
In fondo al tetto c’era una paratia con una porta. Presumibilmente si apriva su una scala non dissimile da quella che aveva scoperto nel Caram. Con un po’ di fortuna, sarebbe riuscita a scendere fino al primo piano dell’edificio, dopodiché avrebbe potuto tentare una corsa disperata.
Aprì la porta – la serratura era rotta – e si ritrovò dentro una scala buia che puzzava di marcio. Raggiunse a tastoni il corrimano e lo tenne stretto mentre scendeva. Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva mangiato o bevuto. Aveva la bocca così asciutta che cominciava a girarle la testa. Ma continuò a scendere, tenendo vivo il pensiero di un bicchiere d’acqua come fosse una carota appesa a uno spago davanti a sé.
Era riuscita a percorrere quattro rampe quando si accese una luce. Saltò indietro appiattendosi al muro, in attesa che gli occhi si abituassero. Sentì dei passi. Gente che parlava. Erano vicini e si stavano avvicinando, come se stessero salendo le scale. Lei percorse con prudenza gli ultimi gradini fino alla porta e cercò di aprirla senza fare rumore; ma era troppo pesante, doveva tirare con più forza.
Fece il conto alla rovescia nella sua testa, poi le diede uno strattone. I cardini cigolarono e lei schizzò nel corridoio che le si aprì davanti, dove il linoleum era mezzo collassato, come quello del laboratorio che era stato la sua cella.
Enormi pezzi di intonaco si erano staccati dai muri e si erano frantumati su tutto il pavimento, e metà dei pannelli del controsoffitto penzolavano in modo precario o mancavano del tutto. Oltrepassò porte che davano su vecchi uffici con moquette bordeaux e luci al neon. Uno aveva ancora appesi alla parete grafici che tracciavano l’andamento dei congedi per malattia in pennarello blu.
Guardò fuori da una finestra per capire in che direzione stava andando. Individuò la Sears Tower, più vicina ora rispetto a quando era sul tetto, il che significava che si stava muovendo in direzione nord, avvicinandosi al punto da cui era entrata. Avvicinandosi all’esercito del Resurrezionista.
Sentì un rumore alle sue spalle e si infilò in un ufficio per nascondersi. Ma non era un ufficio vero e proprio; non più, almeno. C’erano ancora le pareti divisorie a disegnare cubicoli e angoli, ma il pavimento era stato ripulito dai detriti. In un angolo c’era un materasso con un lenzuolo con un motivo a fiori sbiadito e un cuscino coordinato. Impilati accanto al cuscino c’erano alcuni libri, tra cui ne riconobbe solo uno: La manifestazione dei desideri impossibili.
Sopra una delle postazioni di lavoro più vicine alla porta c’erano pile ordinate di viti, fili di ferro, placche di metallo. In una scatola sotto la scrivania c’erano vecchi sifoni in vari stadi di riparazione; a uno mancavano tutte le placche per il palmo, a un altro mancavano le dita. In un barattolo c’erano cacciaviti di varie dimensioni, con i manici verso l’alto, pronti all’uso.
In quella stanza viveva qualcuno.
Sloane non sapeva molto degli zombie – o qualunque fosse il termine appropriato per i soldati del Resurrezionista, dal momento che sembravano troppo intelligenti per essere zombie veri e propri – ma dubitava che avessero bisogno di dormire. Per cui, se quella era la camera di qualcuno, doveva essere la camera del Resurrezionista. Non avrebbe potuto scegliere un posto peggiore per nascondersi.
Sentì di nuovo le voci. Scivolò dentro un’altra stanza che era stata chiaramente una sala riunioni, a giudicare dal lungo tavolo traballante e dall’abbondanza di finestre. Queste non erano completamente chiuse da assi, e lasciavano entrare un po’ di luce, permettendole di guardarsi intorno. Anzi…
Era abbastanza sicura di essere in grado di aprirne una.
Provò a smuovere un’anta dalla maniglia, per verificare se si staccava dal telaio. Vide che si spostava avanti e indietro. Si guardò alle spalle e si fermò ad ascoltare le voci. Erano più alte ora. Riconobbe alcune parole:
«Ricucilo, ma…».
«Cazzo» sussurrò e spinse il vetro verso l’alto con tutta la forza che aveva. L’anta andò a sbattere contro il telaio, e lei sporse fuori la testa. Era a un secondo piano. Abbastanza alto da rompersi come minimo una gamba, se saltava.
Si guardò di nuovo indietro. Non vedeva niente, ma le voci si erano zittite. Trattenne il fiato e attese. Sentì un gemito, la pressione di un piede su un pavimento vecchio. Lo stridio del linoleum.
«Okay» sussurrò tra sé. «Okay, okay, okay.»
Infilò le gambe nella finestra e si sedette sul davanzale.
Poi, preparandosi al dolore, saltò.
Non guardò la caviglia destra. Non voleva sapere.
Gli occhi le si riempirono di lacrime. Mordendosi il pugno prese a zoppicare più veloce che poteva, appoggiandosi al muro del vicolo per sostenersi. Dopo poche centinaia di metri il muro sarebbe finito, e lei avrebbe dovuto poggiare tutto il peso sul piede destro.
Si fermò per asciugarsi gli occhi. Era come se qualcuno le infilasse ripetutamente un coltello nella gamba. Tutti i suoi pensieri pulsavano a tempo con il dolore. Si staccò dall’angolo e cacciò un grido.
“Un altro passo” disse a se stessa, ansimando, anche se era ad almeno cento passi dal fiume, dove c’era una ringhiera a cui appoggiarsi. Si guardò indietro, gli occhi appannati dalle lacrime, sperando di scorgere delle macchine. La strada era vuota. Fece un altro passo. Un altro ancora.
Percorse tutta la strada fino al fiume, e finalmente vide dei fari.