Sloane si buttò zoppicando in strada, agitando le braccia. Il taxi si fermò stridendo e lei aprì la portiera prima che l’autista potesse decidere che non valeva la pena caricarla.
L’uomo, un giovane sui vent’anni pallido, sbarbato di fresco, si voltò a guardarla. Lei tirò la gamba sopra il sedile.
«Signora» disse lui, gli occhi spalancati, «è…»
«Devo andare al Centro Cordus.»
«Devo portarla all’ospedale, signora…»
«No» rispose Sloane stringendo i denti. Non voleva girare per un ospedale di Genetrix da sola. «E se mi chiami di nuovo “Signora”, mi butto fuori dalla macchina.»
Sloane fissò i ciondoli appesi allo specchietto retrovisore per quasi tutto il tragitto: la medaglietta di un santo, mezzo cuore, un piccolo fischietto di plastica. La radio era su una stazione cristiana e il ritornello di una canzone – “Gesù, hai fatto un processo al mio cuore” – la fece sentire molto lontana da casa.
Fu solo quando la macchina accostò al marciapiede davanti al Centro che Sloane si ricordò di non avere soldi. Stava battibeccando con il tassista a volume sempre più alto quando Cyrielle corse fuori. Sloane non era mai stata così contenta di vedere un rossetto arancione acceso.
«Oh, mio Dio» disse Cyrielle quando la vide spingere fuori dalla macchina la caviglia gonfia, molto gonfia. Prese una moneta dal sacchetto che portava appeso alla vita e la porse al tassista, poi mise un braccio intorno a Sloane per aiutarla a scendere dall’auto.
Solo in quel momento Sloane si rese conto di avercela fatta. Era scappata.
Quando furono dentro il Caram si permise di rilassarsi. Cyrielle la fece sedere su una panchina accanto all’entrata e Sloane guardò rombi arancioni spargersi per tutto il pavimento mentre il sole filtrava dai piccoli pannelli di vetro sopra di lei. L’aria era tiepida e nell’atrio la gente correva avanti e indietro tra i tonfi pesanti di stivali, il ticchettio di eleganti scarpe a punta e lo stridio di scarpe da ginnastica con morbide suole bianche. Il suo piede destro nudo – si era tolta lo stivale in taxi quando si era resa conto che le stringeva la caviglia ingrossata – stava diventando viola. Non sentiva quasi più il dolore.
Qualcosa attirò la sua attenzione. Sollevò la testa e vide Matt che per metà camminava, per metà correva attraversando l’atrio. Aveva gli occhi rossi; aveva pianto. Quando i loro sguardi si incontrarono, lui si scapicollò, quasi buttando a terra una vecchia signora con piccoli ricci grigi. Sloane si appoggiò al muro per tirarsi in piedi appena in tempo prima che lui le si gettasse addosso.
Le strinse le braccia intorno alla vita e la sollevò da terra. Era bello sentire il suo corpo solido. L’ultima volta che avevano dormito insieme, non l’aveva apprezzato abbastanza. Non solo perché Matt era tutto muscoli magri e ben modellati, ma perché era caldo e familiare, e gentile. Negli ultimi anni non c’erano state vere e proprie vampate tra loro, ma lei aveva bruciato per lui a fiamma bassa e costante. Quel fuoco le mancava, la fiamma pilota che non si spegneva mai.
Istintivamente, lei appoggiò le mani al centro della sua schiena; era umida di sudore. Lui la posò a terra con delicatezza, ma non la lasciò andare. A un tratto lei si accorse che lui tremava.
«Ehi» gli sussurrò nell’orecchio. «Va tutto bene. Sto bene.»
«È stato… tutto quello che riuscivo a pensare…» La sua voce era smorzata dalla camicia di lei. Le aveva seppellito la faccia nella spalla. «Tutto quello che riuscivo a pensare era “non di nuovo”.»
“Non di nuovo.” Lei aveva pensato la stessa cosa da quando erano arrivati su Genetrix: “Non di nuovo, non un altro Oscuro, non un altro rapimento, non un’altra fuga”. Ma non aveva pensato a cosa poteva significare per Matt vederla portata via una seconda volta, senza sapere se l’avrebbe mai rivista viva, senza sapere che cosa avrebbe dovuto subire.
Non aveva mai pensato a che cosa aveva passato lui neanche la prima volta. Matt era il loro leader, senza dubbio, e due delle persone del suo gruppo erano state catturate e torturate dal loro nemico. Era escluso che non se ne fosse dato la colpa. Probabilmente se la dava ancora.
Si voltò verso di lui e gli disse, il viso a poca distanza dal suo: «Non è stato uguale». Gli passò una mano sui capelli corti. «Nessuno mi ha fatto male. Okay? Sto bene. Sono solo… molto puzzolente, temo.»
Un gorgoglio accompagnò la risata un po’ isterica di Matt. Lui la lasciò andare e lei gli rivolse un piccolo sorriso. E provò il primo guizzo di speranza da quando gli aveva restituito l’anello: la speranza che un giorno, quando il dolore si fosse attenuato, avrebbero potuto tornare a essere amici.
Esther aspettava qualche passo indietro. Aveva scoperto i tessuti di Genetrix, e li aveva indossati tutti insieme: una sciarpa di cachemire intorno alle spalle, portata abbastanza bassa per mostrare il sifone da gola; una camicetta a scacchi; pantaloni a righe; calze arancioni a spina di pesce. Quando Matt e Sloane si separarono, lei si fece avanti e abbracciò Sloane, con un po’ più di delicatezza rispetto a Matt.
«Kyros?» chiese Sloane quando Esther si staccò. Il nome le uscì con un filo di voce. Quasi non sopportava neanche pronunciarlo.
«Vivo, ma non cosciente. Non sono sicuri che si risveglierà. Ho eseguito un processo. Il respiro. Gli ho fatto ripartire i polmoni» disse Esther, un evidente luccichio nello sguardo che sembrava orgoglio.
Una parte di dolore nel petto di Sloane si placò un pochino. Non era riuscita a pensare a Kyros da quando era stata catturata, ma aveva sempre viva l’immagine di lui che cadeva per mano del Resurrezionista.
«Sei ferita?» chiese Matt, indicando la caviglia gonfia.
«Sono scappata saltando giù da una finestra. Mi sa che mi serve un dottore. O forse un piede nuovo.»
«Cyrielle è andata a cercarne uno. Di dottore, non di piede» disse Matt. Sloane non si era neanche accorta che Cyrielle si era allontanata, ma in effetti non c’era niente di arancione sui bordi del suo campo visivo. «Ha detto che poteva venire qualcuno da te.»
«Bene.»
Esther si mise alla sinistra di Sloane, Matthew alla sua destra. Le strinsero un braccio ciascuno intorno alla vita per sostenerla mentre zoppicava verso gli ascensori; non aveva quasi neanche bisogno di appoggiare i piedi a terra. Esther cantò la nota giusta per chiamare l’ascensore.
Anche questo era un sollievo: che a dispetto di quello che lei aveva nascosto a entrambi e a dispetto di quello che avevano passato, loro erano ancora con lei.
Non tutto era perduto.
Quella notte sognò di camminare barcollando a piedi scalzi in un campo, un braccio stretto intorno alla vita di Albie mentre lui le rantolava nell’orecchio. Il braccio con cui lo sosteneva, bagnato del sangue di lui, continuava a scivolare. Si fermò, cercò di sistemare la presa. Albie gridò tra i denti.
Era buio, ma lei sapeva che era mattina per via della rugiada sull’erba. Le bagnava le caviglie.
Si svegliò con la mascella che pulsava da quanto aveva digrignato i denti, e buttò giù l’ultima pillola di ansiolitico.
Due giorni dopo, si trovava nell’ufficio di Aelia, con le stampelle sotto le braccia.
La sera prima, il dottore aveva sistemato la sua attrezzatura nella camera spoglia di Sloane e si era rannicchiato ai piedi del letto con il suo piede in grembo. Aveva un fischietto complicato tra i denti, un oscilloscopio modificato che gli indicava la frequenza dei suoni fino alla terza cifra decimale, e un sifone sull’occhio che sembrava una mezza visiera. Li aveva usati tutti e tre insieme, soffiando nel fischietto per trovare la frequenza nell’oscilloscopio e poi facendo movimenti con le mani per avviare il processo che gli avrebbe permesso di vedere la frattura dell’osso. Nell’annebbiamento dovuto alla mancanza di sonno a Sloane era sembrato un rituale sacro.
Lui aveva riparato l’osso con mani forti e fredde, e pochi convenevoli, e le aveva promesso per il giorno dopo un gesso e un sifone per accelerare la guarigione delle ossa.
Ora sia il sifone sia il gesso erano avvolti intorno alla sua gamba, con la prescrizione di usare le stampelle per due settimane.
Si era strofinata a lungo per pulirsi dalla fuliggine e dallo sporco del Gorgo, ma la sensazione le rimaneva appiccicata addosso, come un sogno lucido.
L’ufficio di Aelia era, per dirlo in una parola, pulito. Pavimenti di legno, pareti bianche, un unico scaffale con libri ordinati per colore. C’erano orchidee bianche in grandi vasi bianchi accanto alla finestra. La porta si chiuse dietro Sloane con un tonfo pesante.
Andando all’ufficio di Aelia era passata dal laboratorio di Nero, dove c’erano le stesse porte: robuste e di legno, con pesanti cardini e maniglie di metallo, chiuse con la magia. Il loro aspetto intimidente la portò a domandarsi che cosa c’era dentro quei due locali da richiedere un livello così rigoroso di sicurezza.
Di tanto in tanto sentiva ancora zaffate fantasma di zolfo, anche se i suoi capelli ora profumavano dello shampoo al rosmarino che Cyrielle aveva distribuito a tutti e tre. Lo percepì quando Nero si avvicinò per prenderle le stampelle e appoggiarle al muro in modo che lei potesse sedersi. Lui si accomodò sulla sedia accanto a lei.
Aelia giunse le mani sopra il tavolo bianco pulito, le placche delicate del suo sifone da polso tintinnarono urtandosi. Aveva le unghie dipinte di un rosa opaco e limate in perfetti semiovali.
Sloane aveva scritto il suo rapporto il giorno prima e l’aveva passato a Nero e Aelia tramite Cyrielle. Ma loro l’avevano convocata ugualmente quella mattina, adducendo la necessità di porle ulteriori domande. Non riusciva a immaginare che altro avrebbe potuto dire su quello che era successo. Era già stato straziante a sufficienza.
«E così» disse, dal momento che nessuno parlava da diversi secondi. «Avevate delle domande per me?»
«Come ti senti, Sloane?» Il sorriso di Aelia doveva essere forzato. Sloane non era una persona a cui la gente sorrideva e Aelia non era una persona che sorrideva.
«Splendidamente. Le vostre domande?»
Aelia guardò Nero, che si schiarì la voce e si sporse verso Sloane, le gambe incrociate alle caviglie. Aveva piccole bacchette magiche disegnate sulle calze. Sloane represse un sorriso.
«Eravamo preoccupati per te perché abbiamo percepito una certa… sintonia nel tono del tuo rapporto» disse Nero.
«Sintonia con il Resurrezionista» chiarì Aelia.
«Cosa?» Sloane aggrottò le sopracciglia. «Mi ha fatto rapire, non c’è alcuna sintonia con lui.»
«Ma nel tuo rapporto, hai detto qualcosa sul fatto che sembrava… turbato.»
«È solo diverso da quello che mi aspettavo, tutto qui.»
«Diverso in che modo, esattamente?» Nero piegò la testa; a Sloane tornò in mente la terapeuta da cui era andata dopo l’Immersione, tutta fronte corrugata e testa inclinata.
«Non è l’Oscuro» spiegò. «Pensavo che potesse essere una versione parallela dell’Oscuro del nostro universo. Ho capito che non è così. Tutto qui.»
«La nostra preoccupazione non è senza fondamento» disse Aelia. «Il Resurrezionista già in passato ha vinto persone alla sua causa. Ha… un particolare fascino.»
«Fascino?» Sloane era esterrefatta. «Dove nel mio rapporto avete letto qualcosa sul suo presunto fascino?»
«Be’, non è che comincia così» disse Nero. «Sospettiamo che possa usare qualche tipo di processo di persuasione…»
«A chi ha fatto questo in passato?» lo interruppe Sloane.
Nero e Aelia si scambiarono un’occhiata.
«Chi era non ha importanza» tagliò corto Aelia.
«È evidente che ha importanza o non mi stareste mettendo in guardia.»
Nero guardò di nuovo Aelia. «Come ho detto, volevamo solo assicurarci che…»
«Be’, anche io volevo parlare con voi, in realtà» disse Sloane. «Perché ho avuto l’impressione che il Resurrezionista avesse già avuto a che fare con qualcuno nella mia posizione. Un altro Prescelto, intendo. Il Prescelto di Genetrix l’ha mai incontrato? Intendo… prima di morire?»
«Non abbiamo sorvegliato le attività del nostro Prescelto quanto avremmo dovuto, forse perché credevamo che sarebbe andato tutto secondo il piano, come indicava la profezia» disse Aelia. «Come puoi ben capire, non ripeteremo quell’errore.»
«Ma noto che non ti stai ancora offrendo volontaria per affrontarlo tu stessa» ribatté Sloane.
«Non è sbagliato conoscere i propri limiti» rispose Aelia, mentre le si colorivano le guance.
«No?» Sloane si strinse nelle spalle. «Non ho mai avuto il lusso di conoscere i miei.»
«Allora sei imprudente quanto il tuo predecessore» rispose di scatto Aelia. «Anche lei credeva che il Resurrezionista fosse semplicemente ferito, che fosse possibile un accordo o qualche tipo di riconciliazione. Si sbagliava, e ha pagato il prezzo più alto per il suo errore. Era questo che volevi sentirti dire?»
Le parole andarono a sbattere contro Sloane, una dopo l’altra. “Lei credeva.”
Ma quando, in mezzo alle macerie del vecchio sito del Gorgo, Aelia aveva detto loro che il Prescelto di Genetrix era morto, aveva usato il maschile. “Era coraggioso e aveva talento con la magia. È morto. È stato sconfitto.”
«E quindi, la persona che il Resurrezionista ha manipolato in passato… era il vostro Prescelto» disse, cercando di mostrarsi disinvolta. «Potevate semplicemente dirlo.»
«Non volevo allarmarti inutilmente, in particolare così presto dopo un evento traumatico.» Aelia si raddrizzò la camicia inamidata.
Sloane si appoggiò allo schienale. Aveva appena sorpreso Aelia a usare due pronomi diversi per la stessa persona. Ma non voleva richiamare l’attenzione su quello. Non ancora.
«Ti sembro allarmata? O ti sembro incazzata perché voi state mettendo alla prova la mia pazienza quando tutto quello che voglio fare è uccidere questo stronzo e tornare a casa?»
Aelia arricciò le labbra.
«A posto» concluse Sloane. «Ora, se mi passate le stampelle, me ne zoppicherei fino alla mia stanza.»
«È…» Esther corrugò la fronte. «Strano.»
Sloane sedeva sull’uscio, rivolta verso l’ascensore per poter controllare se arrivava qualcuno. La gamba destra era distesa sulle larghe assi del pavimento di legno in camera di Esther; le stampelle appoggiate contro l’inspiegabile acquasantiera fissata al muro che Esther usava come portagioie.
«“Strano” non è la parola che avrei scelto io» commentò Sloane. «“Allarmante” o “sospetto”, forse.»
«Non credo di capire perché sarebbe così allarmante» intervenne Matt. Si era slacciato i polsini della camicia e si stava arrotolando le maniche. Ormai non se lo toglieva mai, il sifone, e neanche Esther. Quel mattino a colazione Sloane li aveva sorpresi a trasformare il caffè in ghiaccio. «La gente sbaglia a parlare in continuazione. Probabilmente non significa niente.»
«Hai mai casualmente parlato di me al maschile?» chiese Sloane.
«Be’, no. Ma forse si trattava di un trans e Aelia si è solo confusa, o forse non lo conosceva bene, o…»
Esther lo interruppe. «Perché non gliel’hai chiesto quando è successo, e basta?»
«Ho pensato che se poteva dire una bugia, ne poteva dire anche due. Mi è sembrato più prudente tenerlo per me, per il momento.»
«Io ancora penso…» cominciò Matt.
Esther lo interruppe di nuovo. «Non fare la stupida. Aelia stava evidentemente parlando di due persone diverse. Nero e Aelia ci hanno mentito. Ma non sappiamo perché. Può essere per una buona ragione tanto quanto per una cattiva.»
«Non posso crederci.» Sloane picchiò una mano sul pavimento. «Questi ci hanno rapito da un’altra dimensione. Ci tengono in ostaggio finché non combattiamo il loro nemico. E voi fate fatica a credere che ci mentirebbero per una cattiva ragione? Perché… perché dicono “grazie” e “per favore”?»
«Sempre melodrammatica.» Esther sollevò gli occhi al cielo. «Tutto quello che sto cercando di fare è non perdere la testa, non sto spingendo perché gli venga assegnato il premio Nobel.»
Matt stava giocherellando con il cordino che gli stringeva il sifone intorno alla mano, girandoselo e rigirandoselo intorno al dito. «Anche ammesso che Aelia mentisse e lo facesse per qualche motivo subdolo, che cosa dovremmo fare? Lei è comunque l’unica che ci può permettere di tornare a casa.»
Non aveva torto, pensò Sloane. Non importava che cosa Aelia stava nascondendo, non importava che cosa stava succedendo davvero su Genetrix e sulla Terra; non avrebbero fatto comunque tutto quello che dovevano per tornare a casa? Il solo pensiero di passare il resto della sua vita là, circondata da taffetà e dal tintinnio delle piastre dei sifoni le toglieva il respiro. Non era il suo pianeta quello, non era la sua vita.
Anche se sulla Terra non l’attendeva nient’altro che tristezza – andarsene dall’appartamento che aveva condiviso con Matt, piangere la morte di Albie, destreggiarsi tra gli sguardi indagatori dei media – almeno quella vita le apparteneva. Ma non poteva dimenticare lo strano sollievo che aveva provato nel cogliere il passo falso di Aelia, poter dare finalmente un nome alla sensazione che aveva provato fin da quando si era tirata fuori dal fiume Chicago: le stavano mentendo. E Sloane odiava le bugie a meno che non fosse lei a dirle. «Troverò le prove» disse. «E la affronterò. Allora non potrà più mentirmi.»
«Posso parlare con Cyrielle» suggerì Matt. «Come per caso, non proprio interrogandola.»
Sloane riconobbe la proposta come l’offerta di pace che effettivamente era e gli fece un piccolo sorriso.
«Niente come una conversazione casuale sui Prescelti morti, a cena» disse Esther.
«Cyrielle, eh?» Sloane intendeva scherzare, ma le uscì un tono piatto, quasi accusatorio.
«C’è altro che vuoi sapere?» rispose lui tranquillo.
Sloane sentì crescere dentro di sé quella sensazione terribile – nella gola, nel petto, nello stomaco – che le diceva che rischiava di scoppiare in lacrime. Appoggiò le mani allo stipite della porta dietro di lei e si tirò in piedi. «No» disse, quando si sentì più stabile. «Vado, sono stanca.»
Era evidentemente una bugia. Ma Matt, nella sua infinita gentilezza, gliela lasciò dire.