Sloane si svegliò di soprassalto il mattino dopo, e fece scivolare la mano sotto il cuscino in cerca delle forbici che vi aveva nascosto prima di addormentarsi. Sapeva che non sarebbero servite a niente, né contro stregoni assurdamente potenti né contro cadaveri ambulanti – come Mox le aveva fatto notare quando l’aveva vista prenderle –, ma odiava non avere nessun’arma di difesa.
Ziva era accovacciata accanto al suo letto. Non appena i suoi occhi sporgenti si spostarono sulle forbici, buttò fuori uno sbuffo che avrebbe potuto essere una risata. «Una ragazza banale in un mondo magico» rantolò. «Che cosa ci fai, mi tagli le unghie?»
«Sottovalutare la mia ingegnosità non ha funzionato benissimo per voi l’ultima volta. Ricordi?»
Ziva si appoggiò ai talloni con un altro sbuffo.
«Il console mi ha detto di darti questi» disse, e le mise sotto il naso una pila di vestiti. Sembravano quelli di Mox, il che significava che i pantaloni sarebbero stati abbastanza lunghi, almeno. «E di dirti che c’è del sapone nel suo bagno, se vuoi provare a darti una lavata con una brocca d’acqua. Il vostro treno partirà tra due ore.»
«Il console?»
Ziva piegò la testa. «Pensavi che lo chiamassimo il Resurrezionista?»
«Pensavo che magari lo chiamaste per nome.»
Ziva fece un verso di derisione, non attraverso il naso ma risucchiando la lingua contro i denti. Per alzarsi in piedi dovette spostare una gamba con entrambe le mani e poi scuotere l’altro ginocchio per far raddrizzare anche quello. Sloane si domandò se l’esercito del Resurrezionista si oliava le giunture, come l’Uomo di latta del Mago di Oz.
Andò nella stanza, e nel bagno, di Mox con i vestiti infilati sotto il braccio. La sera prima aveva portato una pila di coperte lontano dallo spazio dove era acquartierato l’esercito, in un angolo vicino alle scale, in modo da poter uscire rapidamente, se necessario. Le ci era voluto molto tempo per addormentarsi; non solo per via dell’ambiente estraneo, o delle parole di Mox che le risuonavano in un angolo della mente, ma anche perché si sentiva in colpa per aver abbandonato Matt ed Esther nel mezzo di una missione, senza spiegazioni. Li aveva delusi in così tanti modi da quando erano arrivati su Genetrix che non li avrebbe biasimati se non le avessero parlato mai più, a quel punto.
Ma il richiamo della verità era stato troppo forte. Se leggere i documenti FOIA l’aveva convinta di qualcosa, quel qualcosa era che aveva partecipato a troppe missioni senza sapere tutto quello che c’era da sapere. Non aveva mai fatto una scelta consapevole nella vita. Bert aveva approfittato degli entusiasmi della sua mente giovane, e Nero e Aelia avevano cercato di fare la stessa cosa.
Ma non sarebbe successo più.
Mox non era in camera sua quando Sloane entrò, e ne fu sollevata. Si spogliò nel bagno, una brocca d’acqua accanto a sé, e si pulì come meglio poté, rabbrividendo per il freddo tutto il tempo. I pantaloni erano decisamente troppo lunghi, per cui si rimise i suoi. Indossò la camicia di lui, ma ne arrotolò le maniche fino ai gomiti. Si stava intrecciando i capelli quando Mox entrò, su una mano il sifone verde ammaccato che indossava quando l’aveva incontrato la prima volta.
Per un secondo rimasero a guardarsi, le dita di Sloane immobili tra i capelli. Poi lei tornò a fissare lo specchio.
«Immagino tu non debba preoccuparti di essere riconosciuto» disse.
«No. Solo pochi sanno che faccia ho. Tra cui lui.»
Era lo stesso modo in cui lei avrebbe potuto parlare dell’Oscuro. Il modo in cui ne parlava con Albie, come se fosse sempre nella stessa stanza con loro, e non ci fosse bisogno di chiamarlo per nome.
«La profezia della fine di Genetrix prevede che ci sia una persona contro un’altra? Un Prescelto e un… distruttore?» chiese.
«E Genetrix come campo di battaglia» rispose Mox, con aria distante. «Uno scontro tra due uomini.»
Lei annuì. «E tu pensi che Nero sia uno dei due. Il vostro Oscuro.»
Sloane pensò a lui, al suo viso di cera deformato dal piacere mentre le diceva di scegliere. Scegliere tra lei stessa e Albie, tra un orrore e un altro.
Sì» disse Mox. «È questo che penso.»
Sloane finì la treccia e la fermò con l’elastico che portava al polso. Era così stretta che le tirava il cuoio capelluto quando muoveva la testa.
«Prendi.» Mox andò al piccolo tavolo dove la sera prima lei aveva trangugiato una lattina di zuppa fredda e prese l’altro suo sifone da polso. Non era più bello di quello che indossava, ma era più flessibile, fatto di piccole piastre nere come scaglie di un pesce. Lui emise un trillo e tutte le piastre si irrigidirono, come percorse da una scarica elettrica. Glielo porse.
«Lo so che non sai usarlo, ma in una città come questa attiri l’attenzione se non ce l’hai.»
Sloane sospirò e infilò la mano sinistra nel guanto vuoto formato dalle piastre. Non appena le sue dita vi furono entrate, le piastre si strinsero intorno alla mano, coprendola come fosse una cotta di maglia. Mox le voltò il palmo per stringerle la fascia al polso. Per mani così grandi, c’era una certa eleganza nelle sue dita.
«Bene» disse Sloane. «Andiamo a fare una chiacchierata con la profetessa.»
Si avviarono a piedi verso la stazione ferroviaria, seguendo il fiume. La serenità di Mox la confondeva; camminava con le mani nelle tasche della giacca, la testa piegata indietro per assorbire la luce del giorno. Sloane, invece, si sentiva eccessivamente vigile. Trasaliva a ogni passo o grido, pur distante.
Lontano dal Loop gli edifici erano ancora più simili a quelli che conosceva lei. Erano di mattoni rossi, come andava a Chicago, case a due o tre piani separate da strisce di erba e alberi spogli. Ogni tanto passavano davanti a qualcosa che per lei era di un altro mondo: una casa costituita solo da una sfera che girava lentamente in mezzo a due strutture simili ad aghi; una scultura che vista da un’angolazione sembrava stesse collassando su se stessa, mentre vista da un’altra pareva che si stesse ricomponendo; la facciata di un negozio che combinava viticci in stile Liberty e linearità vittoriana sotto un tetto a mansarda, una mescolanza visiva che le strappò una smorfia.
Quando raggiunsero la 31a Strada, Mox chiamò un taxi con un lampo di luce del palmo e un colpo del fischietto fissato dietro un suo dente. Sloane aveva visto altra gente indossare i fischietti in quel modo; l’argento luccicava quando sorridevano e ticchettava quando si arrabbiavano. Era più comodo che infilarsi un fischietto in bocca ogni volta che volevi fare qualcosa, immaginò.
Rimasero in silenzio nel taxi, ascoltando entrambi la voce della radio dal cruscotto.
“Le azioni della Siphona Technica sono salite a quotazioni record questa settimana, dopo aver toccato il fondo l’anno scorso quando sono trapelate rivelazioni su illeciti…” Il tassista cambiò stazione, fermandosi su una che trasmetteva una musica strumentale che sembrava la registrazione dei versi delle balene sott’acqua.
«E così, non lavori veramente al Boccale, deduco?» disse lei.
«In realtà sì» rispose lui allegramente. «Nei fine settimana, e ogni tanto per un turno infrasettimanale.»
«Come si concilia con…» Sloane fece una pausa. «Il tuo altro lavoro?»
«L’altro lavoro mi impegna solo in certi periodi. E non paga molto bene.»
Il tassista armeggiò di nuovo con la radio, e tornarono le notizie.
“Scontro tra il Resurrezionista e l’Esercito Baluginante a Bridgeport, ieri sera. Una vittima, l’agente di polizia Paul Tegen, che lascia la moglie e il figlio di due anni.” Il tassista cambiò di nuovo stazione. Mox sembrava indifferente, come se sentire parlare del Resurrezionista non avesse nessun effetto su di lui.
Attraversarono il fiume e percorsero Canal Street, oltre un edificio di un rosa vivace con un rigonfiamento su un lato che Sloane scoprì essere un alimentari che si chiamava Sim Sala Bim e che aveva un carrello della spesa volante come logo.
Il taxi si fermò davanti alla Union Station, un edificio squadrato marrone chiaro con una fila di colonne doriche lungo la facciata. Lei si ricordava del grande atrio all’interno, con il lucernario a griglia che saliva su verso il cielo in una volta a botte. Vi era stata solo in un’occasione, da bambina, con Cameron e sua madre.
Seguì Mox dentro. Era difficile tenere il passo con lui, un’esperienza nuova per una persona alta come lei, ma le falcate di Mox erano lunghe e determinate. Una volta dentro, però, lui sembrò perdersi nel caos, e agitarsi quando sentiva le persone chiamarsi o quando qualcuno gli si avvicinava troppo. Sloane ripensò al barattolo di fagiolini che sbatteva contro il muro la sera prima. Trascinò Mox verso la fila alla biglietteria. «Hai soldi, vero?» disse. «Dalli a me e resta qui. Vado io.»
Quando tornò, lo trovò ancora immobile al centro della sala, che la guardava. Gli passò un biglietto e insieme andarono al binario. Mox sembrava confondere facilmente i segni e lasciarsi distrarre da tutto quello che avevano intorno. Lei dovette indirizzarlo più di una volta prima di arrivare a una panchina dove potersi sedere ad aspettare; data l’aria fredda non c’era nessun altro all’esterno. Lei aveva il mantello che aveva indossato lui il giorno prima, con il bordo bruciacchiato dal fuoco magico, lui indossava una giacca non diversa da una che Sloane avrebbe potuto portare a casa.
«Non viaggi molto» gli disse quando si furono seduti. Le sue parole presero forma nell’aria, come fumo.
«Io faccio magie» rispose lui, mordendosi l’unghia del pollice. «Non sono mai stato bravo nelle altre robe.»
«Robe tipo… le basi dell’esistenza?»
Con sua sorpresa, lui annuì. «Rompevo sempre tutti i piatti di mia mamma. Ne avevo in mano uno e a un tratto… non so. Mi distraevo e… si spaccava. Anche le lampadine. A volte perfino forchette e cucchiai.»
«Quello che mi hai raccontato dei tuoi genitori e di Arlington. Era vero?»
Lui annuì. «Mi hanno messo su un aereo per Chicago quando avevo… nove? Dieci anni? Li ho visti solo un paio di volte da allora.» Si tolse il pollice dalla bocca. «Adesso pensano che sia morto. Meglio così.»
«Non sembrano il massimo.»
«Forse non lo erano.» Gli usciva il sangue dalle cuticole. Si era strappato una pellicina con troppa forza. «O forse solo… non erano preparati ad avere un figlio che straripava di magia. È ancora…» Si agitò sulla panchina. «Troppa. È troppa. Mi rende… nervoso. Instabile.»
Lei gli mise una mano sul braccio. Non le venne in mente nient’altro da fare. «Anche io non sono molto brava a gestire la magia» disse, e sollevò la mano con il sifone, la luce del sole si rifletteva sulle scaglie. «Non è che non abbia mai fatto niente con questo, sai. È solo imprevedibile. E…» Si strinse nelle spalle. «Immagino che non mi piaccia.»
«Non ti piace?» Lui la guardò stupido. «Ma…»
Il treno arrivò, in uno stridere di freni. Era grosso e aveva un aspetto strano, con luci sporgenti sul davanti che lampeggiarono finché non fu completamente fermo. Mox e Sloane si alzarono e camminarono lungo la banchina fino all’ultimo vagone, per evitare la folla che si era ammassata accanto ai primi.
Sloane salì gli stretti gradini ed entrò in un tripudio di colori. Il motivo della moquette era una pacchiana combinazione di giallo, azzurro e rosa, tutto triangoli e cerchi e linee ondulate. Il treno era diviso in scompartimenti, ciascuno con due lunghe panche poste una di fronte all’altra. Lei ne scelse uno e si sedette accanto al finestrino. Mox entrò e chiuse la porta dello scompartimento, fischiò, poi diede uno strattone alla porta per verificare. La porta non si mosse. Sorrise.
«E a te non piace la magia» le disse.
«Se l’unica cosa che facesse la magia fosse facilitare i miei impulsi asociali, l’adorerei» rispose lei. «Sfortunatamente ha anche la tendenza a ridurre a brandelli la gente, per cui…»
Mox chinò la testa in segno di assenso. Si sedette di fronte a lei e appoggiò il lungo braccio sullo schienale del sedile.
Poche persone provarono ad aprire la porta dello scompartimento, ma nessuno riuscì a entrare per cui, quando il treno si staccò da Union Station, Mox e Sloane erano ancora soli. Lui guardava fuori dal finestrino, lei si ritrovò a guardare lui. La sua faccia era una combinazione di elementi opposti: naso severo e sopracciglia importanti sopra una bocca vulnerabile, orecchie che sporgevano, come nei bambini, dai capelli arruffati, tra cui lei notò alcuni fili grigi che non aveva notato prima, nonostante l’evidente giovane età.
«Mi sento dissezionato» disse lui senza distogliere lo sguardo dal finestrino.
«Sei difficile da comprendere.»
Lui sollevò le sopracciglia. «Lo sei anche tu.»
«No, io no.» Sloane scosse la testa. «È solo che non sei mai stato nel mio mondo.»
«Qualcosa mi dice che non avrei fortuna lì.»
«Stai avendo fortuna qua?»
Lui rise. «No, direi di no.»
Il treno uscì sfrecciando dalla città, seguendo il percorso del fiume verso sudovest e lasciandosi indietro il lago Michigan. Era la stessa strada che Sloane aveva percorso una volta per tornare nella casa dove aveva trascorso l’infanzia. Sua madre le aveva detto di portare via le sue cose dal garage perché le serviva spazio. A cosa le serviva, non l’aveva detto. Per cui Sloane aveva impacchettato la sua roba e anche quella di Cameron e aveva caricato le scatole in un furgone a noleggio. Conosceva le grandi distese vuote che li attendevano, i campi di granturco sgualciti dal freddo dell’autunno, i silos che si ergevano solitari sopra l’orizzonte. Era abbastanza sicura che il Midwest rurale di Genetrix non sarebbe stato diverso dal suo.
«I tuoi soldati staranno bene in tua assenza?» chiese.
«Non è la prima volta che li lascio soli. Il processo che li tiene in vita durerà alcuni giorni anche se non ci sono io ad alimentarlo, per cui non cadranno a pezzi.» Fece una pausa. «Be’, qualcuno forse sì, letteralmente, ma a quello si rimedia facilmente.»
Sloane rabbrividì. «Eri molto… tenero con quella donna a cui hai ricucito il braccio.»
«Tera?» Lui si strinse nelle spalle. «Be’, è una faccenda delicata ricucire il braccio a una persona.»
«È solo che non mi aspettavo che avessi un rapporto personale con loro.»
«Ah.» Mox era stato calmo fino a quel momento, appoggiato alla spalliera del sedile, le caviglie incrociate, ma ora si spostò in avanti e cominciò a tamburellare con le dita delle mani giunte. «Sono miei amici.»
Doveva stare attenta. Non sapeva bene che cosa scatenava la magia di Mox, e si trovavano su un treno in movimento. «Già da… prima?» chiese.
«Da prima che morissero, sì» disse lui.
«Come hai fatto a riportarli in vita?» Non era sicura di voler sentire davvero la risposta. Sapendo che sarebbe diventato difficile non provarci lei stessa con Albie o Cameron o Bert. Difficile non fare di loro una barriera tra lei e il mondo.
«Lo volevo più profondamente di quanto abbia mai voluto qualunque altra cosa» rispose lui.
«Ed è stato sufficiente?»
«Questa è solo la parte che posso spiegare.» Le sue mani si strinsero a pugno. Lei allungò le proprie e ve le posò sopra. Lui trasalì al suo tocco e la fissò, gli occhi scuri spalancati.
«Non è necessario parlarne» disse lei, tornando ad appoggiarsi allo schienale.
Ma le mani di Mox si stavano rilassando, il suo corpo si distendeva. Lui era mille cose contemporaneamente, pensò lei. Un linguaggio che non conosceva.
«Hai detto che eri a un funerale quando sei stata portata qui» le disse. «Il funerale di chi?»
Era da tanto che non pensava ad Albie. Certo, le si insinuava nella testa quando non era vigile. Nei momenti in cui abbassava le difese, prima di addormentarsi o quando si svegliava pensando a quello che avrebbe potuto dirgli, solo per rendersi conto che non gli avrebbe detto mai più niente. Ma aveva cercato di non rivolgere la mente a lui.
«Albie» rispose, il suo nome aveva un sapore dolce. Poi aggiunse: «Era il mio migliore amico».
Mox annuì come se sapesse, e forse ne sapeva qualcosa. «È stato il vostro Oscuro a ucciderlo?»
«No, cioè, forse indirettamente. Lui… si è ucciso.» Non l’aveva mai detto ad alta voce prima – non così, per lo meno. Non in modo così semplice, così diretto. «Abbiamo sconfitto l’Oscuro dieci anni fa, ma Albie non si è mai ripreso del tutto. E immagino neanche io.» Fece una risata forzata. «Come ci si riprende da una cosa del genere? Con tutta la merda che abbiamo visto. Con tutta la merda che abbiamo fatto.» Il nodo di cicatrici sul dorso della sua mano ne era un costante promemoria. «Essere qui in un certo senso è stato più facile. Rifare la stessa cosa. So come fare questo, come essere questo. Ma non sono mai riuscita a capire bene come essere una persona normale.»
Mox sorrise un po’. «Conosco la sensazione.»
Tornò il silenzio tra loro, ma era un silenzio privo di tensione. Guardavano entrambi fuori dal finestrino, gli edifici che scorrevano loro davanti, sempre più radi.