Non c’era molto altro da dire, così Sibyl invitò Sloane e Mox a fermarsi per cena, probabilmente per riempire il silenzio. Sloane accettò, non sapendo che altro fare. Per cui si ritrovarono tutti intrappolati insieme nella piccola casa, orbitando l’uno intorno all’altro, zitti. Sibyl trovò il modo di tenersi occupata ai fornelli, infilando fette di limone dentro un pollo da farcire, e Sloane si inginocchiò sul tappeto beige vicino al registratore a sfogliare riviste. C’erano fotografie di paesi di cui non aveva mai sentito parlare, con nomi, forme e destini alterati dalla separazione tra gli universi. Vide sifoni dall’aspetto rudimentale sulle mani di abitanti delle campagne della Romania e della lontana Siberia: tuttora una stranezza, diceva l’articolo che accompagnava le foto, ma non del tutto ignota alle giovani generazioni.
«Mox ha detto che non crede che i Gorghi siano controllati da qualcuno» affermò, alzando lo sguardo dalla fotografia di un trattore in una piccola fattoria dell’Argentina. Un’isola separava la cucina dal salotto. Sibyl era in piedi dietro di essa, a tagliare qualcosa. Cipolle, a giudicare dall’odore.
Mox era scomparso qualche minuto prima, accettando l’offerta di Sibyl di una doccia e un cambio di vestiti. Il marito di lei ne aveva lasciati parecchi quando era morto, ed erano ancora nell’armadio della sua camera. Sloane sentiva lo scroscio dell’acqua in fondo al corridoio.
«È importante non confondere il rapporto di causa con quello di correlazione» disse Sibyl, studiando il macinapepe che aveva tra le mani. Anche se era vedova, indossava ancora la fede nuziale. «Tuttavia, sappiamo che si verifica un Gorgo ogni volta che si presenta uno di voi per ucciderlo, per cui sembrerebbe che ci sia una relazione.»
«Cosa… davvero?» Sloane posò la rivista e si alzò. «Quindi tu pensi che possano essere provocati da… dalla presenza di un esterno?»
«Tutto quello che so è che qui non dovrebbero avvenire. Forse i Gorghi sono una sorta di reazione allergica del mondo a voi.» Di fronte al sopracciglio sollevato di Sloane, si spazientì. «Be’, non lo so, ragazza, non sono una scienziata.»
Sloane si appoggiò all’isola. «Che cosa facevi tu di mestiere? Sparare profezie probabilmente non è molto remunerativo, giusto?»
«Non lo è per niente in una città-presidio. Ma la magia a me fa l’effetto della carta vetrata sulla pelle, per cui non avevo molta scelta, ti pare?» Si strinse nelle spalle. «Ero insegnante. Ora in pensione, ovviamente.»
«L’effetto della carta vetrata» ripeté Sloane. «Questo è… strano.»
«Che effetto fa a te?» chiese Sibyl.
«Come infilare la testa in una morsa» rispose Sloane. «E a volte mi fa intorpidire le mani. Non ne vado pazza neanche io, in effetti.»
«Mmm.» Sibyl si mise i guanti da forno e sollevò la pesante teglia con dentro il pollo. Sloane si fece avanti per aprire lo sportello.
«Lui l’adora» disse Sibyl, indicando con la testa il bagno in corridoio dove Mox si stava facendo la doccia. «Per lui è come… fasci di luce o qualcosa del genere. Suona la magia come fossero corde di una chitarra. Plin… e la tua gravità sparisce. Plin… e la tua casa va a fuoco. Meraviglioso.»
Fasci di luce. Sembrava il processo che Aelia aveva eseguito su di lei prima che si tuffasse nel fiume. Forse Aelia l’aveva imparato da Nero, che l’aveva imparato da Mox.
«Hai mai conosciuto Nero?»
«Sì.» Gli occhi di Sibyl si indurirono. «Indossa maschere su maschere, quell’uomo. Non lo si intravede neanche, quello che c’è sotto.» Azionò un timer a forma di uovo, sul quale era stampata la frase PER UN’OVOTTIMA COLAZIONE!
«Tu, ragazza» disse lei, avvicinandosi a Sloane, «hai la più ostinata di tutte le magie. Il fato ti ha afferrato con forza e non ti lascerà andare. Per cui voglio che ti ricordi una cosa.» Chiuse le dita intorno al braccio di Sloane con una forza insolita in una donna così minuta. «Il confine tra un Prescelto e il suo opposto è sottile come un capello, per cui non sentirti troppo a tuo agio da nessuna delle due parti.»
L’odore delle cipolle era abbastanza pungente da far pizzicare gli occhi. Sloane liberò il braccio con uno strattone. «Io voglio solo andare a casa.»
«Questa è la più grossa bugia che abbia mai sentito» disse Sibyl, gli occhi che brillavano. «Tu vuoi tutto. Sei un pozzo senza fondo. Mi sento esausta solo a pensare a te.»
«Sai, non sei un incanto neanche tu» rispose Sloane infastidita.
Mox chiamò dal bagno, la sua voce rotonda viaggiò facilmente attraverso la casa. «Sloane. Puoi darmi una mano?» Sloane si ricordò della ferita al fianco e uscì dalla cucina. Il corridoio era dello stesso rosa lattiginoso del divano, ed era tappezzato di fotografie; di Sibyl e del marito e dei figli, dedusse Sloane dalla posa dei soggetti, rigida e formale. Era difficile credere che quella donna, con quella casa e quella famiglia prepotentemente ordinarie, avesse potuto annunciare così tante profezie, compresa una sulla fine del mondo. Non c’era da meravigliarsi se trovava la magia repellente. Era l’opposto della vita che si era costruita, con tutta la sua rigidità.
Mox era in bagno con addosso un paio di jeans consumati e una maglietta grigia, il che la sorprese, dal momento che non aveva ancora visto nessuno di questi due capi di abbigliamento da quando era arrivata su Genetrix. Era appoggiato alla cassettiera di Sibyl, le mani strette intorno al bordo e la testa bassa. I capelli, da bagnati, erano lisci e gli arrivavano quasi alle spalle. Era scalzo.
Era molto solido di corporatura, pensò lei. Magro in vita, probabilmente a causa della difficile esistenza che aveva condotto negli ultimi dieci anni, nutrendosi di zuppa in scatola, ma le sue braccia lunghe erano abbastanza robuste da riempire le maniche della maglietta, e le spalle erano ampie, come se il suo corpo fosse nato per sviluppare più muscoli di quanti ne avesse. Forse in un altro universo.
E stava perdendo il controllo; la pressione dell’aria intorno a lui era così diversa da quella in corridoio che a Sloane si tapparono le orecchie quando gli si avvicinò.
«Scusa» disse lui con una voce sottile e tesa senza guardarla. «Ma sei riuscita a calmarmi… sul treno.»
«Oh.» Sloane cercò di pensare a cosa aveva fatto sul treno. Gli aveva toccato le mani. Il pensiero di toccarlo ora la intimidiva molto di più. Sul treno aveva agito d’istinto, ma qui… avrebbe dovuto averne l’intenzione.
L’aria che le premeva contro il viso le ricordò quando da bambina saliva in bicicletta fino in cima a Oak Street solo per lanciarsi giù per la discesa. Era come se potesse riempirsene i pugni.
“Codarda” si disse, e posò una mano sulla spalla di Mox, alla base del collo. I capelli bagnati le solleticarono le nocche. Gli si avvicinò. «Che cosa c’è?» chiese. Lui non rispose. Era in iperventilazione, a giudicare da come gli si sollevava il petto sotto la maglietta. Lei spostò la mano dietro la sua nuca e la strinse leggermente. La pelle era calda sotto le dita. Era da tanto tempo che lei non toccava qualcuno che non fosse Matt in quel modo, vulnerabile e sfacciato.
«Parlare di lui… tutti i ricordi» disse Mox, a denti stretti, a giudicare dalla voce, visto che era ancora nascosto dietro la cortina di capelli. «È…»
«Troppo?» terminò per lui Sloane. «Facciamo… sediamoci per un momento.»
Esercitò un po’ di pressione verso il basso con gentilezza; Mox si calò sulle ginocchia e lei scese insieme a lui. Sloane si sedette appoggiandosi all’armadietto, un cassetto le scavava nella schiena. Lui si inginocchiò, le braccia che tremavano, rifiutandosi ancora di guardarla.
«Io e il mio amico… quello che è morto» disse lei, e sentì risvegliarsi dentro quel vecchio terrore familiare. «Siamo stati catturati dall’Oscuro della Terra. Solo per un giorno.» Affondò le scarpe nel tappetino. Sibyl aveva sollevato un sopracciglio quando lei era entrata in casa senza togliersele, ma non aveva detto niente. «Ma l’Oscuro mi ha dato una scelta.»
Ebbe una sensazione come di coltelli conficcati in gola quando deglutì.
«Mi ha detto che uno di noi due – o io o Albie – avrebbe sofferto, e io avrei deciso chi.» Tu o lui? Non chiuse gli occhi. Se l’avesse fatto, avrebbe rivisto la faccia tranquilla dell’Oscuro mentre aspettava la sua risposta dalla soglia, appoggiato allo stipite. «Non volevo. Ma lui ha detto che se non lo avessi fatto, sarebbe successo a entrambi, e perché avremmo dovuto sopportare tutti e due una cosa del genere?»
Mox si era raddrizzato impercettibilmente per guardarla attraverso la tenda di capelli. Si stavano arricciando, asciugandosi.
«Così, alla fine» disse Sloane, spingendo fuori le parole che non aveva, neanche una volta, pronunciato ad alta voce, «ho scelto lui. Ho risparmiato me stessa.»
L’orrore era vicino alla superficie ora. Se avesse voluto, avrebbe potuto liberarlo, tremare con esso, renderlo reale gridando. Aveva paura di guardare Mox, paura di vedere la repulsione che sicuramente stava provando. Lui aveva ucciso, ma solo per salvare se stesso; non aveva fatto una cosa del genere, non aveva gettato nel fuoco un amico caro per salvarsi dalle fiamme. Nessuno che Sloane conoscesse l’aveva fatto.
Ma si costrinse a guardarlo comunque, perché lo meritava, meritava di sapere quanto era disgustosa, ad aver tradito Albie, ad averlo rovinato e averlo messo sulla strada che l’avrebbe portato alla morte…
Ma Mox la stava solo guardando.
La pressione nell’aria era calata; a Sloane non sembrava più di masticare ogni respiro. «La conosco» disse, parlando a fatica, «la rabbia che ti prende quando pensi a quella persona. La rabbia che ti cambia.»
Mox si scostò i capelli dietro le orecchie con le mani. Il viso appariva più sottile così, e pallido. Era stanco, e non c’era da meravigliarsi; da anni tirava avanti nascondendosi in edifici e magazzini abbandonati con un esercito che andava in pezzi ogni volta che si muoveva, e ogni tanto anche quando non si muoveva, portando sulle spalle il peso di quello che era successo ai suoi soldati. Lui era stanco quanto lo era lei.
«C’è un esperimento del pensiero, di filosofia morale, chiamato il dilemma del carrello ferroviario» le disse. «L’hai mai sentito?» Lei scosse la testa. «Sostanzialmente afferma che c’è un carrello su un binario» proseguì. «Se il carrello procede nella sua direzione, ucciderà cinque persone, ma se azioni la leva dello scambio, ne ucciderà solo una. E tu devi dire se saresti disposto ad azionarla, se sopporteresti di essere direttamente responsabile di una morte anche se è per risparmiare altre vite.» Corrugò la fronte. «L’ho sempre odiato, odiato, e dicevo sempre al mio insegnante che quello che avrei fatto io sarebbe stato prendere la persona che mi costringeva a compiere la scelta e gettare lei sotto il carrello, perché era quella che lo meritava davvero.» Sorrise appena e gli si formò una piega nella guancia. «Non esattamente lo scopo dell’esercizio» Mise una mano su quella che lei aveva appoggiato sopra il ginocchio. Il gesto la fece sentire piccola, ma in un bel modo; un modo in cui lei non riusciva mai a sentirsi, alta com’era. «Ma una persona che ti chiede di fare quel genere di scelta, tra te e un tuo amico, tra il dolore e il senso di colpa… vaffanculo a quella persona.»
La sua mano si strinse su quella di lei. Per un momento rimasero a guardarsi, e Sloane si sentì come se l’orrore si fosse allontanato, come se si fosse depositato di nuovo in una parte più profonda di lei.
Mangiarono il pollo di Sibyl in silenzio, tutti palesemente sollevati quando Sloane inghiottì il suo ultimo morso. Mox e Sloane si diedero da fare in cucina, riponendo le patate nei contenitori per il frigorifero, lavando piatti e pentole. Sibyl li lasciò fare e andò fuori sui gradini del retro a fumare una sigaretta. “Il mio capriccio serale” l’aveva definito; non che Mox o Sloane avessero detto niente. Poi avviò il motore della vecchia Toyota e li accompagnò alla stazione, indossando occhiali spessi con la montatura di tartaruga verde.
Mentre oltrepassavano le file di bassi edifici di mattoni e gli spiazzi vuoti di cui si componeva il paesaggio tra la casa di Sibyl e la stazione, Sloane si meravigliò di come tutto apparisse spoglio, senza l’architettura influenzata dalla magia che caratterizzava Chicago, alla quale, pur nel breve tempo che aveva passato su Genetrix, si era ormai abituata. Gli edifici più interessanti di St. Louis erano le chiese, che sembravano ancora più semplici in assenza degli architetti irrealisti o passatisti. Erano piatti edifici bianchi con angoli netti che ricordavano le strutture minimaliste della Terra, ma con finestre di mattoni di vetro disposti a forma di croce.
Sibyl rivolse a Mox un’occhiata severa quando accostarono al marciapiede accanto alla stazione, e gli disse: «Tieni gli occhi aperti».
Lui si allungò per darle un bacio sulla guancia, anche se lei appariva severa e irritabile tanto quanto lo era stata dal momento in cui erano arrivati. «Grazie.»
Sloane scese senza salutare. Era distratta da una vibrazione che percepiva sulla pelle, come di un gatto che fa le fusa. Dovevano essere più vicini al limite del raggio d’azione del sifone che riduceva la magia. Quando Mox chiuse la portiera e la Toyota si allontanò, lei lo guardò e gli chiese: «Come hai fatto a incontrarla? Io non sono mai riuscita a incontrare il profeta della Terra».
«Ho curiosato parecchio dentro il Caram.» Lui inclinò indietro la testa per guardare il cielo. Era nuvoloso, il sole era coperto da una pallida foschia. «Non riuscivano mai a tenermi a lungo fuori da una stanza. C’è qualcosa di strano… lo senti?» Agitò le dita. «Vedo tutto luminoso e scintillante. È tornata la magia.»
«Perché dovrebbero aver spento il riduttore?»
«Riesco a pensare a un solo motivo. Perché sanno che posso usare la magia che il riduttore sia in funzione o meno, e vogliono poterla usare anche loro.»
«Andiamo a prendere i nostri sifoni prima che ci trovino, allora.»
Mox fece strada fino alla fila di armadietti dove avevano riposto i sifoni. Quando inserirono la combinazione e aprirono lo sportello, tirarono un sospiro di sollievo. I sifoni erano lì, uno accanto all’altro. Lui indossò sulla mano quello verde e fletté le dita, poi prese l’accessorio da dente dal suo piccolo borsello e lo rimise sopra il canino. Sloane si infilò il suo controvoglia; odiava il freddo sulla mano, il peso, e il modo in cui le pizzicava.
Lui la guardò litigare con la fibbia per qualche secondo, poi le prese il polso, infilò un dito sotto la fascia per controllare che fosse abbastanza stretta, e chiuse il gancio con uno scatto della mano. Sloane sentì il calore nel punto in cui il dito di lui aveva premuto sulla sua pelle. Sapeva che cosa significava quel calore e dove poteva portare, se gliel’avesse permesso, ma le sembrava un altro tradimento.
Chiuse lo sportello dell’armadietto e si voltò verso l’atrio della stazione. A Chicago la maggior parte della gente che vedeva indossava abiti stravaganti, caratteristica che, aveva imparato, era un segno distintivo dell’élite magica. Ma a St. Louis, una città-presidio, non c’erano stoffe morbide studiate per mettere in mostra i sifoni da gola o da polso, nessuna elaborata acconciatura alta accompagnata da rotondi orecchini d’oro a valorizzare i sifoni da orecchio, nessuna imitazione moderna degli abiti da maghi. Al contrario, la moda sembrava aver preso un’altra strada, per reazione: una donna con un collo alto fino al mento gli passò accanto, piccoli bottoni disegnavano una linea dalla gola all’ombelico; un uomo in una camicia di un rosa e arancione sorprendentemente vivaci aveva i polsi e la parte superiore delle braccia coperti, ma in mezzo un tratto di tessuto a rete mostrava la pelle nuda, e priva di tecnologia magica; una bambina dall’aria imbronciata indossava una veste grigia che sembrava una tonaca. La bambina vide il polso di Sloane e le lanciò un’occhiataccia. Sloane rispose con un’altra occhiataccia.
Poi il suo occhio colse un movimento rapido, qualcuno che si nascondeva dietro una colonna. Allungò il braccio dietro di sé e diede un colpo sullo stomaco a Mox un po’ troppo forte.
«Ahia» disse lui. «Che…»
Sloane sollevò la mano con il sifone e la puntò verso un soldato Baluginante, che si avvicinava sotto la tenda parasole che incorniciava la sala.
Mox si irrigidì e si voltò nell’altra direzione, in modo da trovarsi quasi schiena contro schiena con lei.
«Sloane.»
Riconobbe la voce, apparteneva a Edda, che era con lei e gli altri durante il Gorgo. Edda uscì da dietro il divano rosso di finto velluto alla sinistra di Sloane, la mano sollevata che luccicava nera. Una scintilla danzava sul suo palmo, il sifone pronto a lanciare il suo processo.
«Ehi, ciao» disse Sloane, mentre il suo sguardo da Edda si spostava su un altro soldato, una donna piccola ed energica con una corona di ricci neri. Indossava un sifone da occhio, una mezza maschera lucida e cromata che copriva l’occhio e lo zigomo. «Stai un po’ rovinando il piacere della mia gita a St. Louis, Edda.»
«Sloane, ha usato qualche processo su di te» disse Edda con convinzione. «Qualche forma di manipolazione della mente.»
Tutti i civili intorno a lei si erano già rifugiati dietro tavoli e sedie, si stringevano gli uni agli altri negli angoli, o erano scappati fuori. La bambina con la tonaca da monaco era accucciata ai piedi di Edda, tremante.
«No» disse Sloane. «Ritenta. Altre teorie?»
«Non ne ho altre.»
«Te ne dico una io: ti hanno mentito.» Sloane stava solo prendendo tempo, mentre spostava lo sguardo per la sala in cerca delle uscite di emergenza. C’era una solida parete di armadietti alla sua destra, ma, dietro di quella, ricordava la luce rossa che ne segnalava una. Se riusciva a chiedere a Mox di far saltare via gli armadietti, potevano scappare.
«È impossibile.» Edda stava scuotendo la testa. Sloane si spostò leggermente indietro fino a sentire la pressione della spalla di Mox contro la sua.
«Insomma, non è mai impossibile che ti abbiano mentito.» Diede un colpetto a Mox con il gomito sul lato rivolto verso gli armadietti. Poi toccò piano con le nocche lo sportello dell’armadietto più vicino.
«Luogotenente, lei è…» La soldatessa di fronte a Sloane cominciò a dire qualcosa, ma Mox sbatté una mano contro la parete di armadietti ed emise un suono fortissimo e quasi troppo acuto per sopportarlo. Con uno scricchiolio assordante gli armadietti si accartocciarono come una pallina di stagnola. Sloane cominciò ad arrampicarcisi non appena riuscì ad appoggiarvi il piede. Afferrò Mox per la maglietta per non perderlo. Gli armadietti collassarono mentre lei ci montava sopra. Perse l’equilibrio e cadde in ginocchio sul pavimento.
La soldatessa con la maschera intonò una nota pura, chiara, e Edda vi si unì con un suono consonante. La combinazione di voci creò un peso che si posò oppressivo sulle spalle di Sloane, lei non riuscì a resistervi e cadde in avanti sui gomiti. Gridando tra i denti cercò di strisciare, ma il peso andava crescendo, schiacciandola, togliendole l’aria dai polmoni…
Mox allargò la mano a terra e dalla sua bocca uscì un fischio gutturale, profondo come il ruggito di un leone. Il terreno tremò, all’inizio solo sotto di lui; poco dopo la vibrazione si propagò come un’increspatura, muovendo il pavimento sotto il corpo di Sloane, poi sotto quel che rimaneva degli armadietti, per poi esplodere in una scossa violenta, che la lanciò in aria per risbatterla di nuovo a terra. Mox allungò la mano verso di lei, agganciando il braccio libero intorno al suo mentre cambiava suono, spostandolo verso frequenze sempre più alte…
Si sentì uno schianto, e Mox gridò, la sua concentrazione spezzata dall’impatto di una spranga di ferro sulla sua schiena. La spranga sembrava essere scaturita dalla mano di Edda. Mox collassò sul pavimento. La soldatessa mascherata era a solo pochi passi da Sloane, la quale sapeva che se quella donna le avesse messo le mani addosso, sarebbe stata la fine per entrambi, sarebbero finiti prigionieri di Nero.
Per cui fece l’unica cosa che le venne in mente di fare: sollevò la mano e fischiò a quella che sperava fosse l’esatta frequenza di 170 Hz, per eseguire il soffio magico. Si concentrò su quello che le aveva detto Sibyl poche ore prima, che lei voleva tutto, che era un pozzo senza fondo, una creatura bramosa che puzzava di magia. Il fuoco le divampò dentro, bruciando in ogni arto. Lei continuò a fischiare. L’aria le passò sopra violenta, ruggendo assordante, accompagnata dal rumore di stoffa che si strappava, di vetri che si rompevano, e grida.
Vide Edda finire gambe all’aria. La soldatessa mascherata fu scagliata contro una colonna. La parete di armadietti, ora ridotta a un mucchio di metallo contorto, scricchiolava sui supporti che la ancoravano a terra, pronta a volare via.
Il braccio di Mox, solido come fosse d’acciaio, si chiuse intorno alla sua vita. La trascinò verso l’uscita di emergenza e spinse la porta con la spalla. Solo quando vide la luce arancione del tramonto Sloane si permise di smettere di fischiare, la gola dolorante nonostante lo sforzo fosse durato poco. Si appoggiò a lui, sentendosi sul punto di crollare, ma ancora no, ancora no.
Mox si lanciò in mezzo al traffico, un’auto sbandò e un’altra si fermò stridendo mentre il guidatore inchiodava. Mox lasciò andare Sloane e aprì di forza la portiera dell’auto.
«Scendi» disse a denti stretti, tenendo alto il sifone.
Alla guida c’era un ragazzo poco più che adolescente con i brufoli sul mento che lo fissava con gli occhi sbarrati. Sloane stava già salendo dal lato del passeggero, abbandonandosi con gratitudine sul sedile.
«Adesso!» ruggì Mox, e un fuoco danzò sui suoi polpastrelli, gli si arricciò intorno al polso e strisciò su verso il gomito. Il ragazzino si sganciò trafelato la cintura di sicurezza, afferrò lo zaino e schizzò fuori dall’auto. Mox entrò e schiacciò l’acceleratore. La macchina scattò avanti e lui sterzò bruscamente, andando quasi contro il marciapiede.
«Sai guidare?» chiese Sloane.
«No» rispose lui lapidario.
«Acceleratore a destra, freno a sinistra» spiegò Sloane. «Rallenta! Non sanno ancora che abbiamo preso questa macchina. Lo stai solo rendendo evidente.» Si sentiva frastornata. Diede una manata al cruscotto per riprendersi. «Merda» disse. «Raggiungi un’autostrada prima che puoi, poi trova un posto in cui fermarci. Un posto del cazzo, un motel o…» Sbatté gli occhi; tutto si muoveva, come se l’aria fosse diventata melassa. «Sto per svenire.»
«Sloane!» fu l’ultima cosa che sentì prima di collassare sul sedile.