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Sloane si svegliò per la frenata brusca. L’auto – che odorava prepotentemente di deodorante da adolescente e fumo di sigaretta – stava sbandando verso un parcheggio accanto a una strada stretta. Al di là di un tratto di erba arruffata c’era un’insegna con la scritta MOTEL, la L che perdeva lucentezza a ogni secondo che passava. Era esattamente il genere di posto che avrebbe scelto Sloane se fosse stata cosciente.

«Ottimo lavoro» disse, la voce provata. Guardò Mox litigare con il cambio automatico per qualche secondo, poi allungò la mano e inserì per lui la posizione di parcheggio.

«In autostrada abbiamo rischiato di morire entrambi» disse Mox. «Ti proibisco di svenire un’altra volta.»

«Chiedo scusa per il disturbo.»

Mox sorrise mentre apriva la portiera. Scese dall’auto con movimenti rigidi, probabilmente dolorante per la sprangata che gli aveva tirato Edda. Sloane lo seguì, si sentiva stanca, ma non era più intontita.

Mox le passò una manciata di monete e lei andò alla reception a chiedere una camera, mentre lui cercava un distributore automatico. Non era prudente fermarsi a lungo con la macchina parcheggiata in bella vista, ma potevano riposare per qualche ora prima di ripartire. Lei aspettò fuori finché Mox si presentò con due bottiglie d’acqua e degli snack, e insieme oltrepassarono tutta la fila di camere fino all’ultima in fondo.

La stanza era scura, grazie alle poche finestre e ai pannelli di legno che ricoprivano pareti, soffitto e pavimento, e che la fecero sentire come fosse dentro una bara. Il letto era grande, e infossato al centro. Con una smorfia, Sloane si avvicinò e strappò via il copriletto a fiori. Lo buttò in un angolo. Mox la guardò con espressione interrogativa. Sotto il copriletto c’erano lenzuola bianche che apparivano inamidate in modo rassicurante.

«Che c’è?» disse lei. «Non lavano mai la trapunta, è disgustoso. E non camminare scalzo. Ah! Il telefono, non toccare il telefono.»

Lui rise. «Io vivo in un deposito e dormo su un mucchio di vecchie coperte, ricordi?»

«Giusto» disse lei. «E a questo proposito. Perché non… te ne vai da Chicago, semplicemente? Perché non lasci proprio il Paese?»

Mox lasciò cadere il cibo su un piccolo tavolo nell’angolo e chiuse le tende. A un suo fischio tutte le luci della stanza si accesero.

«Prima di imparare a riportare in vita l’esercito» disse, aprendo una delle bottiglie d’acqua e bevendo un lungo sorso, «ho cercato di andarmene. Lui mi ha seguito. E tutte le persone con cui avevo interagito, tutti quelli che mi avevano aiutato…» Fece un verso strozzato e smise di parlare.

«Ah.» Sloane attraversò la camera e gli posò una mano leggera tra le scapole. «Sta bene la tua schiena?»

«Non lo so.»

Lei sapeva che la cosa intelligente da fare era ritirarsi. Rifiutarsi di giocare a fare l’infermiera, come aveva fatto, senza successo, la prima volta. Ma non poteva sopportarlo. Le sue mani scesero fino all’orlo della maglietta e la sollevarono delicatamente, scoprendo il tratto di pelle pallida, la spina dorsale, le linee leggere dei muscoli. “Molto solido” pensò di nuovo.

«Dovrei avvertirti…» cominciò a dire lui, ma poi lei le vide, le placche di metallo, nette contro la pelle chiara, che salivano su per la sua schiena. Erano di un colore caldo, tra il rame e l’oro. Era un sifone.

Lei si sentì arrossire, e fu contenta che lui non potesse vederla. Cercò di concentrarsi. Nero le aveva detto qualcosa sui sifoni da schiena. Che la gente non li usava. Non ricordava perché, ma non voleva chiedere a Mox di spiegarglielo…

«Ce l’ha messo lui. Nero» disse Mox, la voce bassa. «Significa che quando gli sono vicino, può controllare la mia magia. E solo lui può toglierlo.»

La sua pelle si stava già scolorendo nel punto in cui la spranga di Edda l’aveva colpito, in alto tra le spalle. Non c’erano ferite. Sloane posò la mano sopra il sifone, una fila di piastre collegate che seguivano la forma e la curvatura delle vertebre. Erano piatte, quasi non sporgevano sopra la schiena, per cui non le si notava sotto i vestiti. Il metallo era scaldato dalla pelle di lui, e ora da quella di lei.

«Ero giovane. Poco più che un bambino» continuò Mox. «Non può essere messo senza consenso. Ma lui mi disse che mi avrebbe aiutato. Come se fossero le rotelle per imparare ad andare in bicicletta, per rendere la mia magia meno travolgente finché non fossi stato pronto…»

«Lo ucciderò» disse lei, la voce calma, e si tirò indietro, lasciando ricadere la maglietta.

Mox si voltò a guardarla. Sloane ora si sentiva il corpo bruciare, come se l’acido le stesse corrodendo il petto. Per Mox, sarebbe stato il momento in cui la sua magia si sarebbe levata e avrebbe raso al suolo la piccola camera del motel anche se non ne aveva l’intenzione. Ma Sloane non si sentiva così da molto tempo, si era abituata a mascherare la rabbia con altre emozioni, perché la rabbia in sé era troppa per poterla gestire. Fece respiri profondi attraverso il naso.

«Io lo odio.»

Mox esitò, solo un momento, prima di toccarle la guancia. Lei trovò stabilità nel contatto delle sue dita fresche, nell’estrema fermezza nel suo sguardo. «Lo so» disse lui. «Lo so.»

Rimasero così per quello che sembrò un tempo molto lungo, le mani di lui su di lei, i visi vicini. All’inizio, Sloane disse a se stessa che sarebbe rimasta immobile finché la rabbia non si fosse placata. Ma poi non riuscì più a muoversi. Il fiato di lui odorava di cioccolato; probabilmente ne aveva mangiato un po’ tornando dal distributore. La sua guancia era ruvida per l’accenno di ricrescita della barba dal mattino. Lei sollevò le mani verso i suoi polsi, senza scostarli, solo per tenerlo là.

«Baciami» disse a bassa voce. «Adesso.»

Lui obbedì, le sue mani gentili si strinsero, affondando nei suoi capelli. Lei lo spinse contro il muro e si premette addosso a lui, i fianchi, lo stomaco, il petto caldi uniti ai suoi. Sentiva un bruciore e un fremito come quelli della magia ma senza la parte distruttiva, solo il calore e l’intenzione. Ma arrivò anche la magia, com’era prevedibile. Mox annegava nella magia, ne era pervaso. L’elettricità prese a danzare sulle sue dita, luminosa sulle palpebre di lei. Lei si fermò a guardare le luci che giocavano sopra le sue nocche e rise.

«Mi dispiace» si scusò lui con un sorriso timido. Sembrava compiaciuto.

«No, non ti dispiace affatto, cretino» disse lei, e lo baciò di nuovo.

Pensò a Matt solo per un istante, quando si accorse che non conosceva più la “coreografia”, non sapeva come funzionava quando baciavi una persona così più alta di te, una persona che non era così attenta nei tuoi confronti, che ti aveva appena visto scatenare una tempesta in una stazione ferroviaria nella quale erano volate a terra persone adulte, una persona che sapeva che avevi l’omicidio nel cuore perché ce l’aveva anche lui. Il braccio di Mox si strinse intorno alla sua schiena, e la sollevò da terra. Lei rise quando lui la lasciò cadere sul materasso. Si scostò per togliersi la camicia e le scarpe senza traccia di imbarazzo.

Sloane si sentiva come se l’aria le premesse addosso da ogni lato, e non sapeva se era magia o quello che si provava a stare con qualcuno dopo aver smesso di fingere.

Lo tirò a sé ed erano tante le cose che lui non era: non era timido nel toccarla, non era delicato mentre le abbassava i pantaloni oltre le caviglie e li lanciava via, non era imbarazzato mentre tracciava un nuovo sentiero risalendo lungo il suo corpo, non era infastidito quando lei rise e gli tirò i capelli come suggerimento. E Dio, i suoi capelli, aggrovigliati intorno alle sue dita; i suoi denti, che le stuzzicavano i polpastrelli mentre lei si toglieva il sifone dalla mano; gli occhi, fissi nei suoi con ferma intensità mentre scoprivano come muoversi insieme.

Sloane voleva tutto, e in quel momento ebbe tutto: fuoco e burrasca e risa; rabbia e calore e comprensione.

Conservò una lucidità appena sufficiente per accorgersi di quando tutti gli oggetti nella stanza – il blocchetto di carta, la bottiglia d’acqua, il sacchetto dei pretzel, il sudicio telecomando, il vecchio televisore, il sapone impolverato nella confezione color lavanda – balzarono in aria per poi ricadere con violenza. Non sapeva neanche se era stato lui o se era stata lei.

Quando Sloane si svegliò, fuori era buio, e Mox dormiva sulla pancia con le mani allacciate sotto la fronte. Aveva i capelli arruffati, e un ricciolo che gli cadeva sulle tempie la fece sorridere.

Il sifone da schiena attirò la sua attenzione, e lei si chinò sopra le sue spalle per guardarlo meglio. La struttura era essenzialmente la stessa di ogni altro sifone, con una placca più grossa in alto – quella, pensò, che conteneva le meccaniche – e una fila di piastre che scendeva fino a metà schiena. Era sicura che avessero una funzione: un contatto più ampio con la pelle poteva costituire una fonte d’energia, di energia termica, forse? O garantiva maggiore stabilità al dispositivo?

Non riusciva a capire come si mantenesse in posizione. Non era avvitato alle vertebre di Mox, ma era così saldo che sembrava lo fosse. Se era la magia a tenerlo lì, allora la magia doveva anche essere in grado di rimuoverlo ma, come avevano detto sia Mox sia Nero, era necessaria la magia specifica della persona che ve l’aveva installato. Questo implicava che ogni persona aveva una sua firma o impronta digitale magica unica, che ogni persona si relazionava con la magia in modo diverso, a prescindere dalle abilità innate o acquisite.

Ma lei non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che era solo una macchina. Togliendole l’alimentazione, interrompendo l’energia che le serviva per funzionare, in teoria avrebbe dovuto essere possibile disabilitarla. Era plausibile che nessuno su Genetrix avesse studiato un modo per farlo, perché erano così concentrati sulla magia che si erano dimenticati delle attività pratiche, come Nero con la porta del suo laboratorio chiusa magicamente.

«Mi stai fissando.» Mox aveva gli occhi aperti, anche se non si era mosso. La guardò attraverso il velo di capelli sulla fronte.

«Stavo solo… pensando» disse lei. «A come toglierti quest’affare.»

«Al problema centrale della mia vita, insomma. Questo o come uccidere una persona che ti può controllare.»

Lei gli piantò una gamba sopra la schiena e lo tirò a sé, finché la faccia di lui non fu accanto alla sua.

«Stavo solo pensando… è una macchina. E si può cambiare l’uso di una macchina alterandone il funzionamento.»

«Cosa vuoi dire?» chiese lui toccandole la fronte con la sua.

«Voglio dire che in questo momento quest’affare incanala magia. Lo si può trasformare in un sifone come quelli delle città-presidio? Gli si può far incanalare… l’antimagia?»

«In quel caso non sarei più in grado di fare niente.»

«Sì, lo so, ma non sto pensando al sifone da schiena, in realtà.» Lei gli scostò il ricciolo dalla fronte. «Sto pensando a quel sifone gigante in mezzo al pavimento della Sala delle Convocazioni. Se potessimo usarlo per disabilitare tutta la magia, potremmo uccidere Nero a mani nude.»

Mox la guardò sbattendo gli occhi, poi premette le labbra sulle sue, schiacciandola contro il materasso. Lei rise, e lui si spostò a baciarle la gola.

«Sei… un genio!»

«Mi stai dicendo… oh.» Era bravo. «Che davvero non ti è mai venuto in mente che… okay, non importa.»

Lui rotolò sopra di lei. Era pesante, ma a lei piacque l’abbraccio avvolgente del suo peso e il modo in cui la parte superiore dei suoi piedi premeva contro quella inferiore dei propri.

«Conosco i sifoni» disse lui. «Mi aggiusto i miei, aggiusto quelli di Ziva. Quelli di tutti. E si rompono, sai, rendendoti impotente a fare qualunque cosa.»

Lei gli sistemò i capelli dietro le orecchie e sorrise. «E allora rompiamone uno apposta» rispose.

Era notte quando tornarono in città, uno dei momenti preferiti di Sloane per guidare attraverso le praterie dell’Illinois. C’erano solo l’autostrada e il baluginio delle luci all’orizzonte: le piste degli aeroporti regionali, fattorie di città così piccole che non comparivano quasi mai nelle mappe geografiche, l’arco illuminato di un McDonald’s accanto a una stazione di rifornimento. Alcune città avevano integrato la magia nella loro vita quotidiana, spiegò Mox, ma in genere i residenti dei centri vicini alle città-presidio erano lenti a adottarla, con l’eccezione delle generazioni più giovani.

«Che la magia possa provocare la fine del mondo non sembra venire in mente alla maggior parte delle persone» aggiunse, tamburellando con le dita sul finestrino.

Sloane sorrise. «Alla maggior parte delle persone manca l’ambizione.»

Mox rise e abbassò la musica. Avevano trovato nel vano portaoggetti un cd che Sloane conosceva: Pet Sounds dei Beach Boys. Mox aveva letto i nomi di altri album più recenti, e Sloane non ne conosceva neanche uno. Di sicuro non il gruppo Insondabile Nero Cosmico, che aveva prodotto il primo album realizzato interamente con la magia. Cantando le note esattamente come diceva una delle canzoni, le disse Mox, potevi far danzare luci multicolori sopra il cruscotto.

«Credo di aver capito il tuo problema con i sifoni.» Di tanto in tanto le lanciava addosso respiri magici per farla ridere. Lei aveva già minacciato più di una volta di portargli via il fischietto da dente; non che avrebbe fatto molta differenza.

«Sì?»

«Sì. Probabilmente ti hanno parlato dell’intenzione, giusto?»

Per tutta risposta, Sloane sollevò gli occhi al cielo.

«Esatto. Be’, l’intenzione è importante, ma l’essenza dell’atto magico è…»

«Il desiderio» lo anticipò Sloane con un sorrisetto compiaciuto. «L’ho letto, quel libro.»

Mox la guardò stupito. «Hai letto La manifestazione dei desideri impossibili? Ce l’avete anche nella vostra dimensione?»

«No, era nella mia camera quando sono arrivata qui. E saltando dalla finestra della tua stanza mi sono rotta una caviglia. Per cui ho avuto un bel po’ di tempo libero.»

«Mi dispiace per quello.»

«Mi dispiace di aver cercato di ucciderti. Nel senso, d’accordo che hai ridotto la mia arma in una polvere molto sottile, ma… comunque…»

«Ho ammirato il tentativo, in effetti. Non tutti ne avrebbero avuto il fegato.»

«Comunque» riprese lei. «Desiderio, dicevi?»

«Esatto. Hai pensato che forse mentre cercavi di creare il respiro magico, in realtà non era quello che volevi? Che l’unica cosa che volevi veramente era un uragano devastante che rompesse tutte le finestre?»

Sloane aprì la bocca per obiettare; ovvio che quello che voleva fare era quello che avrebbe dovuto fare con il respiro magico. Aveva passato giorni sentendosi così frustrata da voler prendere il sifone a martellate. Ma poi, non si era trovata a chiedersi che cosa le importava degli sbuffi d’aria e di chiamare l’ascensore senza premere alcun pulsante, o di spalancare le porte quando erano tutte cose semplici da fare anche senza magia? Non aveva rotto quel lucernario nella Sala delle Convocazioni attingendo a quel qualcosa che le rodeva dentro, ripetendole di prendere di più, di più, di più finché poteva?

«Forse hai ragione.»

«Non puoi costringere una persona a volere qualcosa» continuò lui. «E sapere che cosa si vuole – non solo vagamente, bensì cosa si vuole di preciso – è una parte enorme della magia. Non si sceglie l’atto per poi forzare il desiderio. Prima conosci il desiderio, la sua esatta tonalità, poi scegli l’atto di conseguenza.»

«Così, è per questo motivo che hai imparato quella… mossa del far collassare i polmoni?» disse lei con studiata disinvoltura. Si riferiva, naturalmente, al processo che lui usava per uccidere la gente. Quello che aveva quasi ucciso Kyros.

«Sì» rispose lui con voce un po’ tirata. «Quel metodo particolare, far collassare i polmoni, è stato… un buon alleato per me.» Scosse la testa, non per dissentire, ma come per cercare di scacciare il ricordo. «È… terribile. Lo so, io…»

Lei allungò la mano sopra il cambio e gliela posò sulla gamba. Lui aveva cominciato a far ballare il ginocchio, ma a quel contatto si fermò.

«Anche io ho un alleato» disse piano.

E gli raccontò dell’Immersione.

Raggiunsero la città che la luna era alta nel cielo. Mox mandò l’auto nel fiume come aveva fatto con quella della polizia pochi giorni prima. Il parabrezza era ancora visibile sopra l’acqua quando si incamminarono verso il rifugio.