Il rifugio era nello scompiglio. I soldati del Resurrezionista erano allineati a terra, testa contro testa, sul pavimento di legno, e in mezzo tra l’uno e l’altro c’erano mani e piedi smembrati, braccia e gambe. Un soldato era piegato sopra un pezzo di trave che gli sporgeva dalla pancia, e dalla ferita colava un liquido scuro. In fondo alla stanza, Ziva era appollaiata su un tavolo con un grosso ago tra due dita maldestre, e cercava di ricucire la gamba a un uomo sopra il ginocchio. Le cadde l’ago e imprecò.
Anche Mox imprecò, e attraversò di furia un corridoio creato tra i pezzi di corpi per raggiungerla. Sloane si costrinse a distogliere lo sguardo da un osso bianco frastagliato che spuntava dal ginocchio di uno zombie e gli corse dietro.
«Che cosa è successo?» stava chiedendo.
Non si era resa conto di quanto era stato controllato durante il viaggio di ritorno a Chicago finché non lo vide trasformarsi di nuovo nel Resurrezionista, tutto caos e rabbia. Si era fermata dietro di lui e Ziva le lanciò un’occhiata ostile.
«Lei.» Ziva abbandonò il soldato con una gamba sola e si alzò in piedi con un grugnito. «Lei “è successa”. La sua gente è venuta a cercarla. Lui è venuto a cercarla.»
«Nero è stato qui?» chiese Sloane.
«Non è stata la nostra prima preoccupazione, ma sì, è venuto. Si è infilato dentro solo alla fine come un cazzo di insetto dopo che i suoi lacchè ci avevano fatto a pezzi» disse Ziva. «Ha lasciato una cosa per te.»
La sua treccia dondolava avanti e indietro mentre lei si allontanava a grandi passi. Quando si chinò per raccogliere un fagotto nell’angolo, Sloane notò che aveva uno squarcio nella schiena e una macchia scura… di quello strano fluido che avevano in corpo i non morti. Le portò l’involto e lo buttò ai suoi piedi.
Sloane sentì in bocca un sapore acido e pungente. Si accovacciò davanti all’involto. Tutto dentro di lei le gridava di non aprirlo, ma le sue dita stavano già cercando l’orlo della stoffa piegata e lo stavano sollevando.
Nero le aveva portato un paio di anfibi. Neri e ricoperti di fango secco ed erba. Uno aveva i lacci neri e l’altro ce li aveva rossi, le estremità sfilacciate dove le aveva masticate un cane. Erano gli anfibi che aveva Sloane anni prima.
Quelli che le aveva preso l’Oscuro.
Sloane sentì il peso di Albie al suo fianco, il bruciore nella spalla a cui lui si appoggiava. La pelle scivolosa per il sangue, l’odore di sudore.
Aveva percepito i suoi lamenti vicino all’orecchio, ma l’unica cosa che sentiva davvero era il battito cardiaco; anche dopo che ebbero attraversato il tratto di erba bagnata di rugiada e avevano raggiunto la strada.
Qualcosa le aveva punto un piede, e quando aveva abbassato lo sguardo per controllare che cosa avesse calpestato, aveva visto il pezzo di vetro che le si era conficcato nel tallone.
«Dobbiamo andare» aveva detto Albie. Era come se parlasse sott’acqua; Sloane riusciva a malapena a distinguere le parole.
Scarpe uguale presente. Piedi scalzi uguale passato. Ma ora il presente e il passato si stavano sovrapponendo l’uno all’altro. L’Oscuro era vivo.
L’Oscuro era Nero.
«Sloane.» Sentì calore contro la guancia. «Dentro, trattieni, fuori.»
Lei riconobbe lo schema e lo seguì d’istinto. Inspira, aspetta, espira. La dottoressa Thomas gliel’aveva insegnato durante le loro sedute per addestrarla a fermare l’iperventilazione. Contare le ispirazioni, contare le pause, contare le espirazioni. A sequenze di cinque.
Non era con Albie. Albie era morto. La sua testa lo sapeva ma allo stesso tempo non lo sapeva. “Mi sento come se avessi sempre un piede nel passato” aveva detto una volta a Matt, ed era stato allora che lui aveva preso il tacco della scarpa e l’aveva agitato davanti alla sua faccia. “Nel passato eri scalza” le aveva detto. “Nel presente, guarda! Hai le scarpe. Per cui sai che i tuoi piedi sono tutti e due qui.”
Era la mano ruvida di Mox quella contro la sua guancia. Ed era la sua voce profonda e limpida a dirle come respirare. Ma lei si sedette a terra, bruscamente, e stese le gambe davanti a sé per fissare gli stivali di pelle scamosciata nuovi, gli stessi che indossava al funerale di Albie. Il sale aveva macchiato di grigio le punte in una linea irregolare.
Piedi scalzi uguale passato. Scarpe uguale presente.
Mox staccò la mano quando vide che il panico era passato, ma rimase accovacciato davanti a lei, i capelli spettinati raccolti indietro in un nodo, e le orecchie che sporgevano come quelle di un bambino.
«Deduco che sono i tuoi anfibi?»
Sloane annuì. «Me li aveva portati via l’Oscuro» rispose lei, con voce strozzata. Sentendosi soffocare. «Non ho mai capito perché mi aveva preso le scarpe.»
«Il vostro Oscuro?» chiese lui, anche se c’era solo una risposta possibile a quella domanda, solo un Oscuro di cui lei poteva parlare.
Lei annuì.
«E le aveva Nero» osservò Mox.
«Ma come… come può Nero essere l’Oscuro?» disse Sloane. «Hanno un aspetto così diverso…»
«Ci sono vari modi per ottenere quell’effetto con la magia» disse Ziva.
«Quindi… l’Oscuro è sopravvissuto. È Nero.» “Lo saprei” aveva pensato. “Lo saprei se avessi davanti l’Oscuro.” Ma era stata davanti a Nero decine di volte. Quando si era trascinata fuori dal fiume. Quando aveva cercato risposte in biblioteca. Quando aveva provato a imparare a usare il sifone. Era stata nel suo laboratorio, circondata dalla sua voce. Aveva…
«Oh mio Dio.» Si prese la testa tra le mani e cominciò a dondolare avanti e indietro.
L’origami. La gru di carta di quaderno che aveva trovato nell’ufficio di Nero con gli scarabocchi colorati. Non era solo simile a quelle di Albie, era di Albie. L’Oscuro se l’era tenuta, come una sorta di macabro trofeo o per qualche sorta di magia, non lo sapeva.
Non sapeva un dannato niente.
Lui era accanto al suo letto quando si era svegliata. Nel vederlo si era bloccata a metà, non più sdraiata ma non ancora seduta.
«Ciao, Sloane.» A dispetto delle parole amichevoli, la sua voce era fredda e quasi robotica. «Sei riuscita a dormire un po’?»
Erano stati disattenti, lei e Albie, la notte in cui si erano avvicinati di soppiatto all’enclave dei sostenitori dell’Oscuro, da soli, vicino a una strada di campagna. Erano nello Iowa e l’aria aveva un odore dolce, come di erba ingiallita cotta dal sole. Per Sloane il posto aveva un che di familiare, con il ghiaino sul bordo della strada, le piante della prateria che le graffiavano le caviglie, il cielo immenso e spolverato di stelle. E forse era il motivo per cui aveva un po’ abbassato la guardia. O forse non avrebbe potuto fare niente comunque. Ma avevano catturato lei, avevano catturato Albie, li avevano circondati, avevano fatto perdere loro conoscenza. Quando si era svegliata, aveva un tale mal di testa che quasi non riusciva ad aprire gli occhi.
La domanda dell’Oscuro era sembrata ridicola. Quello non era sonno. Era stato di incoscienza.
Lui non aveva aspettato la risposta. «Spero di sì, perché hai una decisione importante da prendere oggi.» Lei si era costretta ad alzarsi in piedi e aveva memorizzato le uscite. Dietro di lei, una finestra. Abbastanza semplice da rompere con una lampada o una gamba del letto. E dietro l’Oscuro, una porta, semplice legno con la serratura a pulsante. Una forcina avrebbe…
«Non te ne andresti senza il tuo amico, vero?» aveva detto l’Oscuro. Sapeva leggere nel pensiero di tutti o solo nel suo? Entrambe le opzioni la terrorizzavano.
Ma era la sua faccia che la terrorizzava di più. Sembrava quella di una statua di cera, poteva assomigliare a qualcuno che aveva visto passare per strada o a una di quelle foto che i negozianti mettevano nelle cornici per esporle; non aveva una propria identità. La pelle era liscia, troppo liscia, e i capelli erano di una tonalità di castano indefinito, che poteva quasi essere biondo. Sembrava un viso modellato per essere dimenticato, ma modellato da qualcuno che non sapeva che cosa voleva dire avere un aspetto umano.
«Vorrei sapere dove sono nascosti i vostri oggetti magici» aveva detto. «In cambio, ti farò un dono importante. Ti farò vedere chi sei, Sloane. È un tesoro molto raro, vedere se stessi.»
Aveva mantenuto la promessa, si diceva lei, questo gli andava riconosciuto.
«Ha tenuto segreta la sua identità a lungo» gracchiò Ziva. «Perché ora vuole che tu sappia chi è?»
Sloane fissava gli anfibi, il laccio rosso ancora annodato alle estremità perché non si sfilacciasse ulteriormente. Si sentiva impietrita, anche se Mox l’aveva portata nel deposito e le aveva fatto bere dell’acqua. Gli anfibi erano allineati accanto alla porta, come se quel deposito fosse la casa di sua nonna. «Non… non lo so» rispose con aria confusa.
«C’è qualcosa di diverso adesso» disse Mox. Aveva spostato l’altra sedia e si era seduto davanti a lei, stringendole tra le gambe il ginocchio destro. «Tu te ne sei andata.»
Lei si ritrovò a fissarlo, notando come sotto di lui la sedia sembrava piccola, una sedia per bambini, come su quella sedia le sue ginocchia fossero più alte dei fianchi, e come le sue grandi mani penzolassero abbandonate in mezzo alle gambe. “Gran tocco di mantide religiosa” l’aveva definito Esther. «Ha i miei amici» disse. «Sa che tornerò indietro per cercare di aiutarli ora che ho scoperto che lui è pericoloso.»
«No.» Mox scosse la testa. «Non puoi farlo.»
«Perché gli importa di dove sei?» domandò Ziva. «Non puoi fare magie. Non sai niente che lui non sappia già. Che cos’hai di così speciale?»
Erano dati di fatto così ovvi che Sloane non riuscì neanche a offendersi. Scosse la testa. Non lo sapeva. Non aveva mai saputo perché l’Oscuro mostrava un interesse particolare per lei; aveva solo saputo come usarlo a proprio vantaggio.
Si alzò in piedi, barcollando un po’. Vedeva sempre tutto un po’ appannato dopo gli attacchi di panico; si sentiva instabile come una barca alla deriva. Ma controllò che il sifone fosse allacciato e si avviò verso la porta.
Le mani di Mox si chiusero intorno alle sue braccia. Le parlò appena sopra l’orecchio. «Quando un maniaco ti manda sostanzialmente a chiamare, l’ultima cosa che fai è obbedirgli.»
«I miei amici» disse Sloane. «I miei…»
«Lo so» la interruppe Mox quasi bruscamente. Le strinse le braccia con forza, una mano fredda per il metallo che la rivestiva, l’altra calda e callosa. «Ci andremo. Ma non senza un piano.»
Ziva si avvicinò a loro a passo pesante e si piantò davanti a Sloane in modo che non potesse uscire dal rifugio se avesse deciso di farlo. Incrociò le braccia sul petto e Sloane vide che aveva la piastra di un’armatura avvitata sull’avambraccio, come un guanto d’arme ancorato all’osso.
«Non permetto a nessuno di voi due di marciare come idioti verso un uomo che, a quanto mi risulta, entrambi avete cercato di uccidere in più di un’occasione senza riuscirci» disse. «Per cui cerca di riprenderti, Prescelta.»
«Ziva» disse Mox, in tono di rimprovero.
Ma Sloane si limitò ad annuire. C’era qualcosa di corroborante nei modi di Ziva, come uno schiaffo in faccia che la fece ritornare in sé. Si passò le mani nei capelli e annuì di nuovo.
«Okay» disse, liberandosi con uno strattone dalla presa di Mox. «Prepariamo un piano allora.»