Sloane sognò il Gorgo. Matt vi si avvicinava troppo e ne veniva risucchiato, come tirato da un filo invisibile. Il suo corpo andava in pezzi, le braccia che uscivano dalle cavità, il cuore che scoppiava come un palloncino. Esther gridava, le guance sporche di strisce di cenere e schizzi di sangue. E lei rimaneva immobile, con i piedi scalzi e poi, un momento dopo, si trovava intrappolata in un blocco di cemento. C’era anche lui; ne percepiva la presenza dietro di sé, così come a volte percepiva quando qualcuno la stava fissando.
Si voltava e l’Oscuro era là, ed era Nero, la faccia che continuava a mutare, alternandosi tra quella che lei ricordava e quella che aveva visto su Genetrix, come pagine di un libro mosse dalla brezza.
Si svegliò tremando, la mano chiusa a pugno sulla coperta su cui dormivano lei e Mox. Il braccio di Mox si strinse intorno alla sua vita. Si era addormentato tenendolo così, pesante sulle sue costole, le dita che si muovevano a scatti mentre lui sprofondava nel sonno. Lei si voltò per guardarlo. Era sveglio, gli occhi scuri vigili.
«Stai bene?» le disse.
«Sì. Solo un sogno. Tu?»
Le ci volle un attimo per capire di non essersi svegliata per il sogno, ma a causa di un forte rumore. Una scatola di cartone era volata attraverso la stanza e si era schiantata contro una parete, scagliando saponette in tutte le direzioni.
«Stessa cosa» disse lui, e si alzò.
Be’, almeno quello ce l’avevano in comune, si disse Sloane.
Il sole era appena sorto e lei era già così nervosa che le faceva male la testa. Fece tutto quello che doveva fare: si lavò i denti (con lo spazzolino prestatole da Mox), si sciacquò la faccia, si vestì, fece colazione, indossò il sifone, riguardò la mappa che aveva disegnato la sera prima. Conosceva la strada, e conosceva anche quella sensazione di andare verso un possibile tragico destino.
Incontrarono Ziva all’ingresso del rifugio. Era avvolta in una stoffa scura, il sifone le copriva la bocca e nascondeva il buco nella mascella. Quando la donna la vide, si mise una mano in tasca e tirò fuori le forbici che Sloane si era tenuta sotto il cuscino la prima notte che aveva trascorso con l’esercito.
Qualcosa dentro Sloane si spezzò, e rise. Ridacchiò, in realtà, finché parte della tensione si fu allentata.
Intorno agli occhi di Mox si formarono delle rughe, come se stesse sorridendo, ma era difficile dirlo; indossava un sifone sulla parte inferiore del viso, anche se più lucido di quello che lei gli aveva visto addosso come Resurrezionista. Era un’unica piastra di metallo con sopra incise delle piume, come fosse uno stormo di uccelli in volo discendente. Non gli alterava la voce, come faceva l’altro, e Sloane ne fu contenta. La sua voce naturale era calda e piena, e lei non voleva quella del Resurrezionista nell’orecchio durante la missione.
«Ho controllato rapidamente la zona» disse Ziva. «Non c’è traccia da nessuna parte dell’Esercito Baluginante. Dal momento che intendeva attirarti con gli anfibi, Sloane, penso ci abbia lasciato la strada libera fino al Caram.»
«Be’, questo è un piccolo gesto gentile» commentò Mox. «Non avrei mai pensato che sarei stato contento di sapere che Nero ci sta aspettando.»
«Sta aspettando qualcosa che non otterrà. Non vado da sola, e non vado da lui. Hai pensato al diversivo, Mox?» chiese Sloane.
Lui annuì. «Distrarli è facile. Ma un diversivo abbastanza importante da attirare fuori dal Caram la maggior parte delle guardie, be’…» Gli luccicarono gli occhi. «Sarà una sfida.»
Percorsero un isolato fino alla fermata dell’autobus sulla 35a. C’era una donna anziana in attesa, la testa avvolta in un fazzoletto con un motivo floreale, una cesta piena di opuscoli ai suoi piedi. Sloane era abbastanza vicina per leggerne il titolo: Il Signore: il primo operatore di magia di Genetrix. Come la magia può diventare preghiera.
L’autobus arrivò dopo pochi minuti. Sloane lasciò salire per prima l’anziana signora, poi pagò tutti e tre i biglietti in modo che l’autista non guardasse con troppa attenzione Ziva. Su istruzione di Sloane, Mox si era vestito non come il Resurrezionista ma secondo la moda che lei aveva visto condivisa dai più giovani su Genetrix, tutta jeans strappati, pesanti giubbotti di pelle e colori tenui. Niente che potesse richiamare alla memoria l’uomo incappucciato e coperto di sifoni che minacciava la città.
Lei andò verso il fondo dell’autobus e si sedette vicino al finestrino con Mox accanto. Ziva occupò il terzo sedile, e si tirò il cappuccio sopra gli occhi accasciandosi come se fosse addormentata. Il colore della sua pelle non aveva niente di naturale, se la si guardava bene, ma potevano solo sperare che nessuno lo facesse.
L’autobus percorse barcollando la 35a verso Comiskey Park, o come chiamavano il posto in cui sulla Terra giocavano i White Sox. Subito dietro lo stadio avrebbero preso il treno della linea rossa che andava verso il Loop, dove potevano accedere ai tunnel sotterranei della Pedway. Ammesso che la Chicago di Genetrix ce l’avesse una Pedway. Sloane si stava affidando ai suoi ricordi di storia della città per guidarli.
La 35a era una strada larga e piatta con edifici bassi su entrambi i lati, la maggior parte fatti con i mattoni rossi tipici di Chicago. Sembrava così simile a come sarebbe stata sulla Terra che a tratti a Sloane sembrava di essere a casa. Poi vedeva un’insegna squallida in una vetrina che pubblicizzava riparazioni di sifoni a buon mercato, oppure oscilloscopi in sconto, o ancora notava una libreria che si vantava di vendere tutti i dieci volumi di Processi pratici di base per l’utente di sifoni e si ricordava dove si trovava e che la sua missione non era compiuta. Non era mai stata compiuta. Doveva ancora uccidere l’Oscuro.
Più avanti, in lontananza, vide una costruzione alta che doveva essere lo stadio. Ci era stata due volte negli ultimi dieci anni, una in incognito, con un berretto dei White Sox per nascondere il viso, e un’altra per assistere con Matt al derby dalla tribuna del proprietario dei Sox. Aveva passato la maggior parte della partita con un telefono davanti alla faccia, a cercare di sorridere per i selfie degli altri spettatori.
Quando l’autobus si avvicinò allo stadio, però, Sloane si accigliò. Sulla Terra il vecchio Comiskey Park era stato demolito all’inizio degli anni Novanta, per essere sostituito da una struttura più grande con pareti esterne grigie e gradinate superiori ancora più alte. Su Genetrix, invece, la facciata era ancora bianca e larga, con in cima la scritta azzurra COMISKEY PARK. Era l’originale. Ne era sicura.
«Non ci posso credere che è ancora in piedi» disse piano a Mox.
«Stavano per ricostruirlo, ma alcuni architetti irrealisti si sono offerti di usare le loro tecniche per sostenerlo ed espanderlo… all’indietro, o al contrario, qualcosa del genere… E quindi l’hanno tenuto così.»
Sloane sorrise. Avrebbe dovuto rivedere le sue opinioni sugli Irrealisti. «Anche se a nessuno importa del baseball qui?»
«Oh, non è più per il baseball. È uno stadio di atletica.»
«E figuriamoci. Questa ossessione per la Roma e la Grecia antiche vi ha un po’ preso la mano.»
Oltrepassarono lo stadio, dietro c’era l’interstatale e il passaggio sopraelevato per l’entrata della stazione della linea rossa. Scesero dalle porte posteriori dell’autobus, e si trovarono giusto accanto alla pensilina della fermata. Sloane andò a una macchinetta per acquistare i biglietti per tutti e tre, lasciando Ziva accovacciata sul bordo del marciapiede, rivolta verso il traffico, mentre Mox guardava l’interstatale.
Dietro la macchinetta c’era una bacheca pubblica, una tavola di sughero su cui erano appuntati dei biglietti. Per lo più richieste di partner per processi complessi; qualunque gruppo più grande di tre era chiamato “adunanza”. Evidentemente era così che la gente faceva girare i messaggi senza internet. Cyrielle era rimasta confusa all’idea che qualcuno potesse preferire sedersi a guardare un video invece che fare qualcosa. «Perché stare in internet quando puoi dar fuoco agli oggetti solo con il pensiero?» aveva commentato Matt con un’alzata di spalle.
Sloane sperava che stesse bene.
In preda a un nuovo attacco di nervosismo, chiamò con un gesto Ziva e Mox e diede loro i biglietti. Attraversarono insieme i tornelli e percorsero la rampa verso la banchina della metropolitana. Là c’erano più persone rispetto all’autobus; più persone che avrebbero potuto notare Ziva e Mox, ma anche più persone che li ignoravano, confondendoli con i pendolari diretti al lavoro.
In fondo alla banchina un gruppo di donne indossava ampie tuniche di un tessuto quasi trasparente con tutti i colori dell’arcobaleno che luccicavano quando si muovevano. Una aveva i capelli raccolti in un fazzoletto altrettanto colorato. Sembravano caricature di cartomanti, i braccialetti che tintinnavano, gli occhi grandi mentre scrutavano nel futuro. Dopo aver incontrato Sibyl – la paranoica Sibyl con il suo odio per la magia – Sloane trovava ridicolo il loro aspetto. E comunque, chi voleva conoscere il futuro?
Ma c’erano altri riferimenti agli operatori di magia del passato tra la gente sulla banchina. Un adolescente con un cappello a cilindro da mago e guanti bianchi, ma per il resto vestito in maniera normale, stava accanto a una ragazza con una corona di fiori in testa, come una ninfa. Vicino a loro, una donna indossava un amuleto grosso e complicato; la sua amica aveva un collare alto che le incorniciava la faccia, come fosse uscita da Biancaneve.
«Tutti devono fare gli strambi oggi» disse Ziva, la voce resa granulosa dal sifone. «Non mi vedrete mai avvolgermi il corpo in bende o roba simile.»
«Eppure saresti convincente come Frankenstein» disse Sloane. «Devi solo infilarti qualche bullone nel cranio.»
Ziva la guardò stringendo gli occhi.
«Ho visto uno con un cappello a punta l’altro giorno» raccontò Mox, scuotendo la testa, «che gettava rune sul marciapiede. Un tizio è inciampato sopra una runa e ha rischiato di spaccarsi la faccia.»
La luce del treno attirò l’attenzione di Sloane. Si stava avvicinando. Sloane spinse gli altri lontano dalle donne con le tuniche velate, verso una carrozza centrale.
Il treno non era di quelli lucidi argentati a cui era abituata; era più vecchio, con il pavimento marrone e il tetto arancione. I lati erano piatti, gli angoli squadrati, come una scatola da scarpe. Dentro, i sedili erano lussuosi, disposti in file una di fronte all’altra. C’era anche una piccola nicchia in fondo, separata dal resto della carrozza da una barriera, dove i sedili erano girati verso l’interno. Sloane sgomitò per arrivare prima che vi prendesse posto un uomo con un paio di bretelle rosse. La barriera sarebbe stata utile per nascondere Mox e Ziva.
Ziva occupò un sedile, Mox quello di fronte. Sloane rimase in piedi in modo da bloccare il corridoio e guardò fuori dal finestrino mentre il treno si rimetteva in movimento.
Alla fermata di Cermak/Chinatown salì una donna con un camice da ospedale verde menta, la borsa infilata sotto il braccio, insieme a un uomo con scarpe da ginnastica logore. Più avanti, i binari curvavano verso il lago, quindi scendevano, e il treno si tuffò a gran velocità dentro un tunnel. Sloane sentiva in tutto il vagone i bassi fischi rapidi dei passeggeri che eseguivano piccoli processi, come accendere la luce da lettura o innalzare barriere intorno a sé, probabilmente per proteggersi dai rumori. Sembrava di sentire come dei piccioni tubare.
Quando arrivarono a Jackson, Sloane lanciò a Mox uno sguardo d’intesa: dovevano scendere alla stazione successiva. Il treno stridette quando frenò per fermarsi, e Mox e Ziva la seguirono fuori dal vagone, oltrepassando l’infermiera verde menta e il tizio con le scarpe logore, che faceva schioccare le dita e fischiava nel tentativo di eseguire un processo che evidentemente non stava funzionando.
Salirono la scala per raggiungere la strada e si immisero nel ritmo del traffico pedonale: le attese ai semafori, lo strofinare di spalle e gomiti. Ziva teneva la testa bassa, aggrappata con due dita alla manica di Mox per non perderlo. Sloane, i capelli sciolti intorno al viso, lo controllava con la coda dell’occhio.
Si fermarono per una breve pausa accanto alla chiesa di St. Peter, un basso edificio di pietra incastrato tra due giganti di vetro. Sulla facciata era scolpito un crocifisso enorme, davanti a un’imponente vetrata in stile gotico e sopra i portali di legno. La familiarità di quella costruzione le diede sicurezza. Ovviamente, sulla Terra non vi aveva mai visto davanti un giocoliere che eseguiva giochi di destrezza con palle d’acqua volanti, un sifone su ciascun polso; ma doveva accontentarsi.
Mancava un isolato al Daley Center, l’edificio marrone che aveva riconosciuto la prima volta in cui si era avventurata per le strade della città, con Kyros al suo fianco. Sulla Terra, l’ingresso della Pedway si trovava nel cortile di fronte, per cui, se la rete di tunnel esisteva anche su Genetrix, doveva esserci un’entrata nello stesso punto. Ne riconobbe da lontano la grata decorativa, dipinta di azzurro. Segnalava i gradini che scendevano sotto terra. Ed era anche il posto in cui avrebbero lasciato Mox, a un isolato di distanza dal Caram.
Si fermarono accanto alla grata, Sloane sentì una strana pressione al petto quando alzò lo sguardo su di lui.
Mox sollevò una mano e slacciò i ganci del sifone che gli copriva la faccia. Si passò una mano sul labbro superiore per asciugare il sudore che vi si era raccolto. Poi si chinò su di lei e la baciò.
Anche con il fiato viziato e la pelle umida per la costrizione del sifone, con il viavai di gente intorno e il nervosismo che l’aveva destabilizzata, Sloane si trovò a sollevarsi sulle punte dei piedi verso di lui e ad affondare la mano libera nei suoi capelli.
«Non fare stupidaggini» gli disse piano staccandosi. «Dobbiamo uscire tutti vivi da qui.»
Lui le sorrise e si risistemò il sifone sul viso. Lei si voltò verso Ziva e con la testa le indicò l’entrata della Pedway. Ziva le prese la manica tra due dita, appena sopra il gomito, e la seguì giù per i gradini.