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Il tunnel puzzava come alcune banchine sotterranee della metropolitana: di muffa, di garage vecchio, con un accenno di urina stantia. Il percorso che seguirono era contrassegnato da piastrelle grigio scuro, tra cui alcune crepate e altre rotte. Ma qua e là nella parete si aprivano finestre di vetro colorato illuminate da dietro, come se si aprissero sull’esterno. Alcune erano decorate da geometrie di vetro piombato; altre da vortici colorati che si spezzavano in innumerevoli frammenti, cicloni di cerchi monocromi intersecati o scacchiere di piombo e foglie d’oro.

La Pedway confondeva, e solo l’innato senso dell’orientamento di Sloane la aiutò a non perdersi. Con un’occhiata severa, aveva convinto Ziva a prenderla sottobraccio, nascondendo nella manica la mano in putrefazione. Aveva le ossa fragili come rami secchi. Sloane si costrinse a non affrettare il passo quando passarono davanti alla scala che portava su al Municipio. Tutto quello che dovevano fare era proseguire fino a Randolph Street e si sarebbero trovate sotto il Caram.

Non era sicura di come avrebbero fatto ad accorgersi di essere arrivate a destinazione, considerata l’assenza di una segnaletica chiara, ma scoprì che il problema non si poneva. Più avanti, tra due grandi colonne su cui era scritto in un viola intenso CENTRO AVANZATO DI RICERCA E APPRENDIMENTO DELLA MAGIA, c’era un velo luccicante. Sloane lanciò un’occhiata a Ziva, la quale disse: «Ci siamo».

Sloane attraversò il velo, e un forte getto d’aria le spinse indietro i capelli, schiacciandole i vestiti contro il corpo. Il suo sifone si accese come una lanterna, e una luce bianca le danzò sul dorso della mano destra, dove era stato una volta l’Ago. Di fronte a lei c’era un soldato con il simbolo dell’Esercito Baluginante sul petto.

L’aria buttò indietro il cappuccio di Ziva, scoprendo la sua pelle grigiastra e gli occhi sporgenti. Non appena il getto si fermò, Ziva si affrettò a ricoprirsi di nuovo la testa, ma nel farlo le maniche ricaddero rivelando le dita che si sfaldavano e le unghie simili ad artigli. Il soldato lanciò un’occhiata nella loro direzione, si voltò, poi tornò a guardarle. Sloane spinse via Ziva più in fretta possibile, ma senza correre. Non controllò che il soldato non le stesse seguendo.

«Fottuti stronzi del Caram» borbottò. «Che razza di scusa da pervertiti per guardare le tette delle donne è quel processo?»

«Ti mostra ogni genere di cose, ne sono sicura» disse Ziva. «Speriamo solo che il tizio pensi che io abbia la pelle molto rovinata.»

Erano lontane dal padiglione, ora, e camminavano in un corridoio di pietra grigia simile a quelli intorno alla Sala delle Convocazioni, quelli che erano sempre immersi in un buio da tempesta, come se fuori piovesse. Sloane si sentì pizzicare la nuca, quasi che l’Ago le graffiasse la pelle dallo spazio tra i mondi.

Quando arrivarono alla scala finalmente si azzardò a voltarsi. Il soldato non era dietro di loro, ma questo non garantiva che non avesse notato Ziva e che non fosse andato a chiedere rinforzi. Salirono le scale fino all’atrio del Caram. Svoltarono allontanandosi dagli ascensori e imboccarono il corridoio di vetro colorato che separava la parte in cui c’era la Sala delle Convocazioni dal resto della struttura. Una luce verde danzava sopra il loro corpo mentre lo percorrevano, i delicati ventagli erano illuminati dalla luce del giorno.

Appena oltrepassato il corridoio, Sloane tirò Ziva dentro una nicchia con una piccola panchina di pietra. Dovevano aspettare il diversivo di Mox, che aveva promesso sarebbe stato abbastanza forte che si sarebbe sentito fin dentro l’edificio.

Rimasero in silenzio, per quanto possibile considerando il respiro di Ziva che raschiava nei polmoni e le usciva tremando dalla bocca.

«Ti senti te stessa?» chiese Sloane.

Ziva la guardò con un occhio socchiuso. All’altro sembrava mancare del tutto la palpebra. «Non stai pensando di riportare in vita qualche amico, vero?»

«No. Be’… è piuttosto difficile non considerare la possibilità una volta che sai che esiste.»

«Dopo averla presa in considerazione, allora, puoi scartare l’idea.»

«Quindi non sei contenta di essere tornata. Di essere di nuovo viva.»

Ziva la fissò. Era incredibile, pensò Sloane, che una persona così rigida e inumana potesse apparire tanto guardinga.

«Ho sete di giustizia» rispose Ziva, «e l’essere tornata mi aiuta a soddisfarla. Non ricordo molto… del tempo in mezzo. Ma non ho l’impressione di essere stata… tranquilla. Come ci si può aspettare da uno spirito… che è stato assassinato.»

«Ma…»

«Ma.» Ziva sospirò. «Ma più tempo passo qua, più distintamente sento che… il mio tempo è finito, e ogni istante in più di cui lo prolungo è una violazione di… qualcosa.» Sollevò le spalle in un gesto esagerato. «Inoltre, guardami. Sono un orrore.» Si toccò la mascella dove il sifone copriva il buco che mostrava i denti fino alle radici. Era la prima volta che a Sloane veniva in mente che forse la repulsione che aveva provato lei quando aveva visto Ziva per la prima volta era la stessa che provava la donna quando si guardava allo specchio. Nessuno voleva risvegliarsi come un morto vivente.

«Ne hai mai parlato con Mox?»

Ziva scosse la testa. «Lui ha bisogno di me. Non posso andarmene finché le cose stanno così.»

Sloane annuì, ma non poté non pensare che la gente non smetteva di sua volontà di aver bisogno degli amici.

Un suono forte e profondo le strappò un guaito. Dalle pareti si staccò polvere di intonaco che cadde intorno a loro come neve. Sloane sentì grida lontane e passi oltre il muro.

Uno degli occhi di Ziva roteò per fermarsi su Sloane. Era il momento.

Percorsero la strada che Sloane ricordava, quella che aveva memorizzato mentre seguiva Cyrielle fino alla Sala delle Convocazioni la prima volta, quando aveva sfondato il lucernario con il sifone e poi era svenuta. Girò intorno a pilastri e passò sotto archi nella luce grigiastra di una tempesta in arrivo. Infine raggiunsero le pesanti porte della Sala delle Convocazioni con la targa d’oro che ne portava il nome e l’anno di costruzione, 1985.

Accanto alle porte c’era un uomo di guardia. Con un fischio acuto attraverso il sifone Ziva lo mandò contro il muro; lui sbatté la testa contro la pietra e si accasciò. Lei si chinò sul corpo, gli infilò le dita tra le labbra e gli tolse il fischietto dal dente. «Tu prendi il sifone» disse a Sloane.

Sloane si sentiva intontita. Si accovacciò accanto alla guardia – che era viva ma evidentemente svenuta – e le sganciò il sifone dal polso, ringraziando che il meccanismo fosse semplice. Glielo sfilò dalle dita e lo lanciò dentro la Sala delle Convocazioni, dove Ziva la aspettava. Sloane la seguì dentro e Ziva chiuse la porta.

«Posso settare un processo temporaneo per sbarrare la porta» le disse. «Ma decade dopo alcuni minuti. Se avremo bisogno di più tempo, dovrò reimpostarlo, per cui aiutami a ricordarmene.»

Sloane annuì. Camminò verso il sifone nel pavimento, che era coperto da una placca d’oro larga un paio di metri. Il formicolio che aveva sentito sulla nuca sotto il Caram era diventato una pressione netta ai lati della testa, come se qualcuno stesse cercando di schiacciarle il cranio. Non era più possibile fraintenderlo: l’Ago la chiamava. La domanda era se lei voleva rispondere.

Ziva era in ginocchio accanto al sifone fortis. Aveva cercato di sollevare la larga copertura di metallo con un fischio, ma quella non si era mossa. Ora vi aveva infilato le dita sotto e stava spingendo con tutte le sue forze. «Resiste alla magia» disse. «Mi sa che dobbiamo spostarlo a forza.»

Sloane si inginocchiò a sua volta e si appoggiò contro il bordo. Anche a spingerlo insieme, non si muoveva nemmeno un po’, e lo spigolo le tagliava le mani.

Ripensò a quando era entrata nella Cupola, al modo in cui l’Ago aveva sollevato la porta attraverso il tetto e l’aveva tenuta sospesa.

«Merda» disse Ziva, sbattendo la mano sul coperchio. «Merda!»

«Tu vivevi dentro questo edificio, giusto?» domandò Sloane, sentendosi stranamente distaccata. L’Ago era un altro battito cardiaco nel suo petto, una presenza alle sue spalle. La sentiva perfino in quel momento, nonostante si trovasse a un universo di distanza. E l’Ago era l’oggetto a cui si rivolgeva sempre nei momenti di disperazione.

«Che importanza ha?» Ziva si accovacciò sui talloni.

«Potrei avere una soluzione. Ma avrei bisogno di arrivare al fiume senza passare dalla stessa parte da cui siamo entrate. Dove va quella porta?» Indicò una porta arrugginita in fondo, così piccola in confronto alle dimensioni della sala che sembrava a misura di bambino.

Il fiume era solo un isolato più a nord del Caram. Se correva, poteva andarvi ed essere di ritorno in dieci minuti.

«È una porta secondaria» rispose Ziva. «Non ti so dire che cosa c’è là fuori, ma potresti trovare la strada fino a un’uscita d’emergenza.»

«Puoi tenere chiuse le porte? Solo per pochi minuti.»

Ziva la guardò di nuovo con un occhio socchiuso, poi annuì.

Sloane corse alla porticina arrugginita. Dava su un corridoio vuoto, come quello che avevano percorso per arrivare alla sala, ma più trascurato, con polvere e detriti che si ammucchiavano negli angoli, le pietre grigie spaccate in alcuni punti o a cui mancavano interi pezzi. Sembrava un corridoio di servizio, con i tubi a vista sul soffitto.

Sloane svoltò a destra, a caso, e cercò la luce di un segnale di uscita d’emergenza. Due donne si separarono quando lei le oltrepassò, intromettendosi nel loro momento rubato. Lei bofonchiò una frase di scuse, già ansimava.

In fondo al corridoio successivo, trovò un’indicazione che la diresse verso una scala. Aprì di slancio una porta, poi girò intorno alla scala per controllare se ce ne fosse un’altra. C’era, ma non sapeva dove conduceva. La scala odorava di spazzatura, e si sentiva l’eco di passi provenire da sopra.

Decise di giocarsi quella possibilità. Si ritrovò in un vicolo occupato da una serie di cassonetti pieni fino all’orlo di sacchi neri dell’immondizia e scatole di cartone appiattite. Il vicolo la portò in una strada che non riconosceva, ma nello spazio tra gli edifici intravide il fiume; iniziò a correre in quella direzione, finendo quasi sotto un taxi sulle strisce pedonali. L’autista suonò il clacson e le gridò qualcosa sporgendosi dal finestrino, ma lei aveva già ripreso a correre.

Attraversata la Wacker, quando fu vicina alla sponda del fiume, rallentò e salì in cima al parapetto che impediva ai pedoni di cadere in acqua, un piano più sotto. Non aveva tempo di cercare le scale che scendevano al lungofiume. Si sentiva il corpo ardere, formicolare, farle male dal bisogno di ricongiungersi con l’oggetto che in passato aveva odiato al punto di sfregiarsi per liberarsene.

Gettò una gamba sopra il parapetto e poi l’altra, vi si appoggiò con la schiena… e poi saltò.

L’acqua fredda le tolse il fiato, riaffiorò tossendo, i vestiti pesanti e i capelli appiccicati alla faccia. Quando fu di nuovo in grado di respirare, si immerse, nuotando a rana.

Questa volta non c’era nessuna luce magica a guidarla verso la membrana tra i mondi, più sottile a Chicago che in altri posti. Doveva esserci qualcosa di speciale in quella città, di sicuro; lo capiva anche dal modo in cui l’aveva attratta fin da quando era piccola, bella, strana e piena di sole. Nell’oscurità assoluta che la circondava, si trovò priva di direzione e si orientò seguendo la forza di gravità, come fosse un filo nelle sue mani che la tirava verso il fondo del fiume.

All’inizio scalciò con movimenti energici e misurati, poi sempre più freneticamente, spingendosi con le mani per scendere più in fretta. Le bruciavano i polmoni, ma era una sensazione non diversa da quella che avvertiva nel petto e nella testa. Le venne in mente che quelle che provava quando si spingeva in profondità sott’acqua – il fuoco dentro, la pressione alla testa, il formicolio in ogni arto – erano le stesse sensazioni che aveva sempre associato alla magia, e forse era quello il motivo. Forse tutta la sua vita era stata un muoversi non in avanti ma intorno a quel momento, come un oggetto catturato in un vortice.

Aveva bisogno di aria. Si ricordò del sifone sulla mano e cominciò a mormorare, scegliendo una frequenza che si avvicinasse al ricordo di quando Aelia aveva intrappolato l’aria dentro il fazzoletto la prima volta che lei si era tuffata, e poi salendo di tono per regolarla. Non c’erano dubbi sul suo desiderio: voleva respirare. Si immaginò una bolla intorno alla testa, come gli astronauti dei cartoni animati. L’acqua intorno al viso si spostò come una corrente oceanica, poi le si allontanò dalla bocca e dal naso. Quando buttò fuori il respiro successivo, lo sentì uscire, come se si trovasse a terra.

“Il mio primo respiro magico” pensò, e rise un po’.

Sopra di lei c’erano le macerie del grattacielo che ricoprivano il fondo del fiume della Chicago sulla Terra, con la P incastrata tra pezzi di cemento e acciaio; sotto di lei, il groviglio di piante che cresceva sul letto del fiume della Chicago di Genetrix. Si trovava nello spazio intermedio tra i due mondi.

Aveva lasciato cadere i due pezzi dell’Ago nel fiume prima del funerale di Albie. Allora sapeva che sarebbe stata sempre in grado di ritrovarli se ne avesse avuto bisogno, perché le parlavano anche quando lei ne ignorava la voce. Allungò la mano con il sifone e canticchiò, senza pensare all’altezza, alla frequenza, alla linea che sarebbe apparsa sull’oscilloscopio. Pensò solo a come l’Ago l’aveva aiutata quando ne aveva avuto bisogno per irrompere nella Cupola e distruggere il prototipo magico, o quando ne aveva avuto bisogno per combattere l’Oscuro.

Ne aveva bisogno di nuovo.

Si trovava sospesa nel canale tra la Terra e Genetrix, senza alcuna forza di gravità a tirarla in una direzione o nell’altra. Non si era mai sentita così vicina a essere priva di peso. Pensò alla voce di Albie che le sussurrava nell’orecchio per chiamarla su Genetrix, e sussurrò nella bolla d’aria che aveva creato intorno alla sua testa. «Vieni… Vieni!»

Qualcosa davanti a lei luccicò, a dispetto del buio assoluto. Due sottili frammenti presero forma; di aspetto metallico, ma di un metallo che gli scienziati della ARIS non erano stati in grado di identificare. Ogni sua cellula esultò di sollievo. Allungò la mano per prenderli.

Il primo contatto con i pezzi dell’Ago la turbarono, e il suo corpo si irrigidì. Per un istante temette che l’avessero punta di nuovo, che si fossero riconficcati nella sua mano, ma poi li vide luccicare nel palmo.

Lei li aveva chiamati, e loro erano arrivati. L’espressione “manifestazione dei desideri impossibili” non le era mai apparsa più sensata. Era magia.

Prese una metà dell’Ago tra le dita della mano sinistra e l’altra in quelle della destra, e le tenne separate mentre scalciava per tornare verso la superficie.

La bolla d’aria intorno alla sua faccia collassò senza preavviso, e lei cominciò a spingersi su con più forza. Le facevano male le gambe quando alla fine vide sopra di sé la luce della città, solo una scintilla all’inizio, un fiammifero acceso nel buio, poi un chiarore splendente. E poi… aria, e la sponda del fiume. Vi si gettò sopra e crollò sul cemento, boccheggiando.

«Slo.» Era la voce di Esther a chiamarla. Lei sollevò la testa. Esther era con Matt, avevano le mani sollevate e i sifoni puntati su Ziva, che stava loro di fronte.

Sloane tossì.

Erano vivi. Stavano bene.

Matt tenne il sifone su Ziva, mentre Esther si voltò per dirigere il suo contro Sloane.

«Posso spiegare, ovviamente» disse Sloane quando riprese a respirare.

«Ti conviene cominciare subito» rispose Esther.