Nero afferrò il parapetto di metallo con una mano grondante d’acqua. Ad aspettarlo sulla sponda del fiume c’era Aelia, accovacciata, la gonna rossa stretta intorno alle ginocchia. Lui aveva un paio di anfibi nell’altra mano, e glieli porse. Lei li prese, ma li tenne lontani dal corpo, come se la disgustassero.
«Questi, veramente? È questo l’oggetto in cui ha trasfuso se stessa?»
«Non è una sentimentale, e non teneva un diario, a differenza dell’ultimo Prescelto.» Lui si tirò fuori dall’acqua aggrappandosi al parapetto, poi lo scavalcò, le gambe appesantite dalla nuotata tra gli universi. «Mi serviva qualcosa che avesse modificato e che tenesse vicino, per poterla convocare.»
Aveva i vestiti fradici. Aelia appoggiò a terra gli anfibi ed eseguì il processo per asciugarlo, sventolando le dita verso il suo mantello.
«Puoi toglierti quella maschera ora» gli disse, con una smorfia. «Sembri una candela che si sta sciogliendo.»
Lui aprì il primo bottone della camicia e slacciò il gancio che gli teneva il sifone sul petto. Il processo non modificava i suoi lineamenti, ma proiettava un viso diverso per ognuno che lo guardava, anche sulla Terra. Aelia gli aveva già detto che la proiezione non appariva del tutto regolare, il che forse rispondeva ancora di più ai suoi scopi. I terrestri erano vulnerabili perfino ai processi più trasparenti, dal momento che negavano l’esistenza della magia.
Lui si era divertito a leggere le loro teorie più recenti: l’Oscuro era un esperimento del governo andato storto; un invasore alieno che aspirava a dominare il mondo; un miliardario pazzo diventato cattivissimo. Sulla Terra leggevano troppi fumetti, si era convinto.
Raccolse gli anfibi della ragazza, e lui e Aelia si avviarono insieme verso le terrazze alberate sul lungofiume. Non era ancora l’alba e la città era più vuota che mai. Lui sentiva poche macchine sfrecciare su Wacker Drive, la donna senzatetto sull’angolo con LaSalle Street che cantava tra sé, e il rumore delle scarpe di Aelia. L’aveva già rimproverata in passato per i suoi vestiti appariscenti e le scarpe rumorose. Era importante essere discreti in quelle missioni a tarda notte, o qualcuno avrebbe potuto notarli.
«È magia quella che lei riversa nelle scarpe?» gli stava chiedendo. «Temo di non capire.»
«Questo non mi sorprende» rispose lui. Cominciarono a risalire le terrazze, abbassandosi quando passavano sotto i boccioli rosa dei meli selvatici. «È una sorta di magia, se pensiamo alla magia come a un’energia della volontà. Lei ha esercitato la sua volontà sopra queste scarpe, modificandole e riparandole, indossandole e togliendole, proprio come il ragazzo ha esercitato la sua volontà sulla gru di carta.» L’origami era sopravvissuto al viaggio dalla Terra a Genetrix chiuso in un sacchetto di plastica e ora era appollaiato su un davanzale del suo laboratorio. «L’attaccamento emotivo all’oggetto rafforza l’energia che vi è associata, il che darà a me il potere di convocare qui entrambi.»
«E tu non sai chi dei due possiede l’Ago.»
«Credo sia la ragazza, ma preferisco fare le cose per bene.»
«Quando ci tornerai?»
Avevano raggiunto la strada. Nero si fermò e le sorrise. «Non dirmi che sei impaziente di liberarti di nuovo di me.»
Aelia sussultò un po’, gli angoli della bocca si abbassarono. «Voglio semplicemente prepararmi al mio trasferimento, se è imminente.»
«Mancano ancora diversi mesi alla distruzione di questi universi, te lo assicuro. Ti ho procurato un posto in un mondo nuovo; non hai niente da temere finché continui ad aiutarmi.»
Aelia fece un sorriso tirato e attraversò la strada prima di lui, verso il Caram. Passando davanti alla donna che cantava sull’angolo, Nero lasciò cadere una moneta nel bicchiere. Non c’era niente di male, pensò, nel dare conforto momentaneo a una persona, anche se il suo universo era condannato alla distruzione.
Il sorriso di Aelia fu l’ultimo a scomparire, rimanendo sospeso come quello dello Stregatto, mentre affioravano altri ricordi.
«Non mi stai ascoltando» disse lui.
Si trovavano nel suo laboratorio, sfere luminose galleggiavano tutto intorno a loro. Nero era chino su un quaderno e vi stava appuntando alcuni pensieri che gli erano balenati alla mente, prima di dimenticarli. Nel Caram era andata via la corrente, per cui le sfere fornivano l’unica luce disponibile, proiettando un chiarore innaturale sul viso del nuovo pretore.
«La collisione è inevitabile» disse lentamente, come se stesse parlando a una persona stupida. Non aveva mai pensato che Aelia lo fosse, ma fino a quel momento aveva dimostrato una notevole incapacità di comprensione durante quella conversazione. «Per ora sto tenendo i due mondi separati – impiegando a questo scopo una parte sostanziale del mio potere, aggiungerei –, ma quando io sarò morto, procederanno sulla traiettoria che stanno percorrendo da quando l’Incidente della Tenebris li ha messi in comunicazione: cioè, verso la reciproca distruzione.»
Fuori dalle finestre un lampo illuminò il cielo, seguito a ruota da un tuono simile a un rullo di tamburo.
«L’incidente della Tenebris?» ripeté lei. Una sfera le si avvicinò all’orecchio, sul quale indossava un sifone placcato d’oro che terminava a punta, un omaggio alla ridicola moda femminile di Genetrix di vestirsi come principesse degli elfi. Il suo vestito era lungo e morbido, con maniche rigonfie. «Non mi hai mai detto che era stato quello a creare la connessione.»
«Che cos’altro poteva provocare una cosa del genere?» rispose lui infastidito. «Il nucleo magico di questo pianeta è andato in pezzi e ha scagliato frammenti della magia di Genetrix in un altro universo e, a causa dell’instabilità del tempo nei viaggi inter-universali, nel passato. Questi frammenti sulla Terra sono diventati oggetti magici leggendari, ma ci sono così tante leggende false che è stato difficile distinguere quelle vere. Ecco perché devo continuare ad andare avanti e indietro tra gli universi. Sto pensando di escogitare qualcosa di più drastico per arrivare alla verità più rapidamente. Sono stanco di trattenere l’inevitabile.»
«E non c’è niente che tu possa fare, con tutto il potere che hai, per scindere questa connessione e salvare entrambi i mondi?»
«Anche se volessi – e non lo voglio – sono immortale, non onnipotente. E presto, circostanze permettendo, non sarò più neanche quello.»
«Non ti capirò mai.» Aelia andò alla finestra, che sbatteva contro il telaio, scossa dal vento. La pioggia picchiettava sopra il vetro, oscurando la vista sulla città. «Molti ucciderebbero per poter vivere per sempre; sacrificherebbero il loro amore, i loro figli, ogni centesimo. E tu passi il tempo a cercare la persona che sia in grado di mettere fine alla tua vita.»
«Quelli che hanno sete di immortalità non la comprendono.» Andò al carrello bar accanto alla porta e si versò del whisky dentro un bicchiere pulito. I primi duecento anni sono inebrianti, sì.» Il cristallo molato del bicchiere catturò la luce di una sfera e la mandò a disperdersi sul pavimento. «Ma poi tutto diventa sempre più privo di significato. La vita, la nazione, l’intero universo; i trionfi, i conflitti, il patetico aggrapparsi al potere. È tutto uguale per me, ovunque vada, qualunque cosa faccia.» Bevve un sorso, il sapore gli pizzicò la gola. «Sono stanco.»
Aelia lo guardò. Non aveva più paura di lui come l’aveva avuta quando le aveva rivelato che cos’era e le aveva chiesto di ucciderlo. Nero aveva capito che lei era stata la persona giusta a cui dirlo perché aveva effettivamente cercato di farlo; aveva tentato una mezza dozzina di processi per togliergli il fiato, fermargli il cuore e perfino tagliargli la testa. Lui gliel’aveva consentito, anche se non era niente che non avesse tentato lui stesso. Si era anche legato dei pesi alle caviglie e si era gettato nell’oceano; si era inoculato il veleno del serpente più mortale della Terra, il taipan dell’interno; e, in un universo, si era gettato dentro un vulcano attivo. Tutti i tentativi – suoi e di Aelia – erano falliti, in quanto la sua magia lo proteggeva e lo salvaguardava.
Eppure, lei a volte tradiva la paura. Come ora, le sopracciglia unite, l’espressione spiritata. «E questo ragazzino, credi che ci riuscirà?» disse.
«Sono stato in decine di universi con decine di Prescelti, di guerrieri e di maghi rinomati. Nessuno aveva il potere puro di questo bambino. Non avrà l’abilità o la precisione, ma non lo pretendo. È solo uno strumento smussato.»
Aelia annuì. «Ma il suo desiderio di farlo deve essere coltivato» disse in tono distante. «E il desiderio non può essere imposto.»
Nero svuotò il bicchiere. «Esattamente il motivo per cui ho bisogno del tuo aiuto.»
Rimase solo la luce di una sfera.
La porta del laboratorio sussultò quando lui la spalancò con il sifone e poi se la sbatté dietro le spalle. Tremava. Imprecò e scrollò le mani. Uno avrebbe pensato che centinaia di anni di vita l’avrebbero spogliato di certe debolezze, e invece ancora resistevano.
Riempì l’aria di fischi, uno per chiudere la porta a chiave, uno per creare una barriera del suono intorno al laboratorio, uno per convocare il suo quaderno sul tavolo, davanti a sé, e l’ultimo per preparare la penna che avrebbe scritto sotto la sua dettatura. Si lasciò cadere su una sedia, accanto a una pila di libri, e con il fazzoletto si asciugò la fronte dal sudore. Sentì sapore di sale sul labbro superiore.
La penna stava dritta, in fremente attesa della sua voce.
«È fatta» disse lui. «L’Esercito Baluginante è sconfitto.»
La penna cominciò a muoversi. Lui si passò le mani sulle gambe per asciugarle.
«Ora lui vuole uccidermi» aggiunse, con un certo sollievo.
Sloane percepì la fame dell’Oscuro e, più di tutto, la stanchezza. La sentì insieme a lui.
Pensò a Micah e al suo sorriso asciutto. Strano, aveva sempre pensato, che un bambino così eccezionale venisse da genitori tanto ordinari. Nancy, che ogni settimana ospitava il circolo di cucito, vincitrice della gara di cucina alla fiera del paese l’anno prima. Phil, direttore della banca locale, che cominciava a perdere i capelli e ad appesantirsi. Avevano guardato nervosamente il suo sifone quando Nero aveva stretto loro la mano, e non avevano opposto resistenza quando aveva portato via loro figlio.
Micah non aveva bisogno del sifone per operare magie. Non aveva quasi neanche bisogno di intenzione. I suoi desideri semplicemente si manifestavano, quando provocati. Aveva mandato a fuoco la sua prima camera da letto al Caram. Aveva rotto tutti i piatti nella sala mensa in una sola volta. Aveva fatto nascere fiori sul pavimento di pietra della Sala delle Convocazioni.
Ora sedeva sopra il sifone fortis in quella stessa sala, apparendo piccolo nonostante le gambe precocemente lunghe. Erano le orecchie che sporgevano dai capelli, forse, a farlo sembrare così giovane.
C’era un registratore davanti a lui, e la voce di Sibyl, roca e asciutta, che ripeteva per la terza volta quella mattina: “Sarà la fine di Genetrix, il disfacimento dei mondi”.
«Che cosa ne pensi?» gli chiese Nero.
«“Marchiato dalla magia”» disse Micah. Si toccò l’angolo dell’occhio sinistro. «È da lì che viene questa macchia? Dalla magia?»
«Credo di sì.» Anche se odiava sedersi per terra, Nero si sedette di fronte a Micah, accanto al sifone fortis. Il freddo della pietra penetrò attraverso i vestiti. «La mia teoria è che l’incidente della Tenebris abbia fatto volare via alcuni piccoli pezzi di magia, e uno di loro è finito nel tuo occhio.»
Suddetto occhio si socchiuse, guardandolo. «L’incidente della Tenebris è di secoli fa. Io ho solo undici anni.»
«Sai che cos’è un varco spazio-temporale?»
Micah scosse la testa.
«Allora, spieghiamolo in questo modo. Un varco spazio-temporale è una specie di tunnel. A una estremità del tunnel, le cose possono muoversi molto lentamente; all’altra estremità, si muovono molto rapidamente. Per cui se tu attraversi il tunnel, puoi raggiungere un punto lontano nel futuro, e ci puoi arrivare molto in fretta. Capisci?» Era così che era vissuto lui per centinaia di anni, anche se la sua Terra si trovava nello stesso secolo di Genetrix quando era nato. I tempi non collaboravano tra un mondo e l’altro.
«Quindi, la magia è esplosa ed è entrata in un tunnel» disse Micah, «ed è finita nel mio occhio.»
«Non ne sono sicuro. È un’ipotesi.»
«E questo è il motivo per cui io ho dentro così tanta magia» continuò Micah. «E il motivo per cui i miei genitori avevano così paura di me.»
«Forse» disse Nero. «E forse esiste un modo per aiutarti a tenerla sotto controllo finché non sarai pronto a gestirla. Ti piacerebbe?»
Micah annuì.
“Povero bambino” si permise di pensare Nero. Pieno di magia, e non c’era una persona al mondo in grado di comprenderla, nemmeno Nero stesso.
«Sto parlando» gli disse, «di un tipo particolare di sifone, che va sulla spina dorsale.»
“La spina dorsale” pensarono.
Claudia toccò le vertebre che si intravedevano sotto la camicia quando si chinava.
La fiamma era bassa. Lui si era dimenticato di aggiungere legna e ora l’aria era così fredda che poteva vedere il proprio fiato. Era difficile per lui distogliersi da quei preparativi. Aveva aspettato a lungo quella notte, la notte in cui tutto sarebbe stato finalmente pronto. Gli oggetti di potere disposti in un ampio cerchio nel cortile, collegati da una linea di sale. Ci aveva messo cinque anni a raccoglierli, seguendo leggende che l’avevano portato a punti morti, voci sussurrate che l’avevano condotto a tesori.
Il vero tesoro, però, era la causa del dolore nel suo petto. Solo una radiografia l’aveva rivelato. Il dottore aveva sospettato che avesse un buco nel cuore, e in un certo senso era questo che vi aveva trovato. Ma il buco era riempito da qualcosa. Un frammento di esplosivo, aveva dichiarato il medico; ma Nero non era mai stato vicino a nessun esplosivo. Non c’erano rischi immediati per la sua salute, per cui Nero era andato avanti, con il fiato corto e facile a stancarsi, e il frammento al suo posto.
Si raddrizzò e si risistemò le bretelle sulle spalle. Sua sorella, Claudia, era dietro di lui, con una camicetta elegante con un fiocco al centro, appena sopra l’incavo tra le clavicole. Si era pettinata con la riga di lato e arricciata le punte dei capelli.
«Sei carina» le disse lui.
«Vero?» Lei si allontanò di un passo e dondolò i fianchi per mettere in mostra la sua lunga gonna. «Ho pensato di vestirmi bene per il tuo primo giorno di vita eterna.»
Lui l’aveva guardata accigliato. «Ti sei vestita per il treno e nient’altro» disse.
Lei sorrise timidamente.
«Sei sicura di volerne stare fuori?» disse lui.
«Vivrò un’eternità in paradiso» rispose lei piano. «Anche se sono triste perché mio fratello non mi raggiungerà. Tu sarai ancora qui sulla Terra.»
«Io non credo nel paradiso.»
Lei annuì. «Sì, me l’hai già detto.»
Si sporse verso di lui e gli baciò la guancia. Odorava di profumo floreale. Quando si scostò, lei aveva ancora quel sorriso timido.
Il fuoco scoppiettava nel camino quando si spezzò l’ultimo tizzone.
La sensazione era fuoco.
Quando un ciocco di betulla bruciava, la corteccia simile a carta si staccava dal legno e si trasformava in cenere. Alla sua pelle stava accadendo la stessa cosa, pensò. Ogni strato del suo corpo – pelle, nervi, ossa – si staccava e si riduceva in cenere.
Era solo l’inizio. Più tardi, in un altro universo, quando ebbe trovato le parole per dirlo, lo descrisse come un tuffarsi a capofitto nel sole. Più caldo della lava, più caldo di qualunque calore conoscesse, e sentirsi contorcere per allontanarsene, strappare via la mano dalla stufa, scacciare con la mano il piccolo carbone acceso caduto sui vestiti, e non potersi muovere. Era diventato una nuvola di polvere, una vaga combinazione di particelle, e non poteva gridare.
Ci volle tutta un’eternità. Aveva usato il frammento che aveva nel cuore per scavare in profondità nella terra senza sollevare un dito per formare una connessione con la magia più pura. Non l’aveva semplicemente assaggiata; aveva bevuto come da una cannuccia, aspirandone quanta più poteva sopportarne, e poi ancora di più. Una volta formata, la connessione non poteva più essere spezzata, anche se lui lo desiderava disperatamente.
Non finché la pozza non si fosse prosciugata.
Quando si svegliò, secondi dopo, anni dopo, era solo, e tutto quello che era stato vivo, ogni filo d’erba in ogni campo, ogni fiore su ogni albero, ogni insetto che camminava sulla terra e ogni serpente che strisciava e ogni uccello che volava, ogni singolo essere umano che in passato vi aveva posato il piede, erano spariti.
Avevano distrutto il loro mondo e dovevano trovarne un altro.