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Da qualche parte l’allarme di un’auto stava urlando. Ma era smorzato; Sloane si sentiva come se avesse le orecchie piene di denso cotone. Sollevò la mano a toccarsene uno, il canale uditivo era appiccicoso, ma libero.

Si coglievano altri allarmi ora. Un intero coro, e tutti che guaivano a intervalli differenti; sistemi di sicurezza che urlavano di intrusi, sirene che si muovevano in ogni direzione. Sloane sbatté gli occhi e sollevò lo sguardo sulle nuvole. Le sembrò strano trovare un cielo limpido, anche se non sapeva bene che altro si fosse aspettata di vedere.

Si tastò la testa e il collo per controllare di non avere ferite e, non trovandone, si alzò a sedere. Le fischiava l’orecchio, e tutto davanti a lei si inclinava e ruotava. Il che faceva sembrare ogni cosa ancora più irreale.

Da una parte c’era il fiume e accanto il monumento alla sconfitta dell’Oscuro, un modesto blocco di bronzo con un piccolo varco per entrare. E dall’altra c’era la parete di acciaio ondulato della Warner Tower di Genetrix, che svettava sopra tutti gli altri palazzi. Di fronte a lei, dall’altro lato della strada, c’era metà del numero 300 della North Wabash, una semplice struttura nera di acciaio e vetro. La parete est non c’era più, e le sue viscere erano esposte, come se qualcuno avesse tagliato una fetta da un pezzo di formaggio. Sloane vide un mezzo divano, tagliato di netto al centro, scivolare indietro e precipitare per venti piani sul marciapiede.

La mente di Sloane si era svuotata. Il corpo le faceva male fino alla punta delle dita. Provò a muovere le gambe; tremavano ma funzionavano. “Gli altri” le sussurrò una voce nella testa. “Cerca gli altri.”

Strisciò carponi sopra il cemento per un tratto, poi si alzò in piedi e barcollando si diresse verso il fiume. Si sentiva come se fosse ubriaca. Vide affiorare una testa scura e cominciò a correre verso il ponte, dove c’era una rampa di gradini che portava all’acqua. Davanti a lei, un taxi squadrato di Genetrix si scontrò con una Bmw fiammante. Entrambi i guidatori scesero e cominciarono a inveire l’uno contro l’altro, uno dei due con un sifone su una mano che sembrava un guanto di metallo.

Scese i gradini di furia e si buttò in ginocchio sul bordo del fiume, dove aveva visto affiorare la testa. Mox tossì, scostandosi i capelli dal viso, e Sloane gli gettò le braccia al collo, sporgendosi verso il fiume, i fianchi schiacciati contro il cemento.

«Ti sanguina un orecchio» disse lui.

«Timpano perforato» rispose lei.

Mox premette la bocca sopra quella di lei, senza cerimonie. Sloane sentì sapore di acqua di fiume e di polvere del sito del monumento e di sangue. Lui era vivo.

Sentì qualcun altro tossire e si staccò da Mox. Pochi metri più in là c’era Esther, appoggiata con i gomiti alla sponda, che sputava acqua. Andò da lei e la tirò fuori dal fiume per le braccia.

«Essy» disse. Esther tossì nella spalla di Sloane, aggrappandosi alla sua camicia. «Dov’è Matt?»

«Non… non lo so.»

Sloane allungò lo sguardo e vide Ziva trascinare qualcosa fuori dal fiume. L’acqua le usciva dal buco nella mascella mentre sollevava Matt. Lui tossì e rotolò su un fianco.

Debolmente, Esther chiese: «L’Oscuro, è…».

«Morto?» disse Sloane. Aveva macchie del suo sangue sulla manica. «Sì. È morto.»

Attraversarono il ponte tutti insieme. Sloane in testa, Ziva e Mox che la seguivano a passo rapido. Matthew si appoggiava a Esther, provato dal dolore alla mano schiacciata.

Oltrepassarono persone raggruppate vicino al parapetto, con l’aria confusa, tra cui un adolescente con i jeans strappati, scarpe da ginnastica della Converse, e niente sifone. Più avanti, Sloane vide la Diciassettesima Chiesa del Cristo, una tozza capsula di pietra che si ergeva nel punto in cui la Wacker si divideva in due. L’edificio che Sloane ricordava vagamente alle sue spalle, però, era sparito, sostituito da una struttura irrealista che in alto si apriva come una banana, con uffici che spuntavano in tutte le direzioni e creando un arco sopra la strada.

Svoltarono a destra sulla Wacker, ignorando le grida che ora arrivavano da ogni parte, e gli allarmi che le sovrastavano.

«Dobbiamo trovare Ines» disse Esther da dietro. «E mia mamma.»

«I telefoni. Probabilmente non funzioneranno» ipotizzò Sloane.

C’erano pali della luce nelle strade. I fili interrotti da edifici, e da lampioni a gas.

«Allora andrò in California in macchina» decise Esther.

«Prima troviamo Ines» disse Sloane. «Potete andarci insieme.» Non aggiunse “se è viva” perché si rifiutava di riconoscere la possibilità che non lo fosse. «E tornando, magari potete andare in Messico. E io…» Non terminò la frase per dire che avrebbe cercato sua madre, perché a un tratto si sentì sicura che non c’era nessuna possibilità che sua madre fosse sopravvissuta. Anche se non avrebbe saputo dire perché ne era così convinta.

Quando vide il Caram – proprio il Caram, non il Thompson Center – quasi cadde in ginocchio per il sollievo. Avrebbero avuto bisogno della conoscenza magica collettiva che offriva se volevano sopravvivere a qualunque cosa fosse accaduta.

Le fischiarono le orecchie quando oltrepassarono le porte del Centro Cordus e attraversarono l’atrio. Era pieno di gente di Genetrix che gridava confusa da una parte all’altra della sala cercando di sovrastare il baccano. Un allarme stava suonando ed era difficile pensare con tutto quel frastuono. Qua e là c’erano soldati dell’Esercito Baluginante che gridavano a tutti di calmarsi.

Esther e Sloane osservarono la scena in silenzio. Sloane inghiottì l’isterismo che le stava montando dentro. «Che cosa è successo?» chiese, la voce rotta. «Questa è la Terra o Genetrix?»

Esther si guardò intorno nel caos dell’atrio del Caram. «Un po’ di entrambe, credo.»

Il primo segno che Ines poteva essere viva era che il suo appartamento era ancora in piedi.

Non era scontato. Esther, Matt e Sloane avevano percorso il sentiero davanti al lago per arrivarci, dopo che Mox e Ziva si erano separati per andare a cercare l’esercito del Resurrezionista, e avevano svoltato su Wilson Avenue per passare da Uptown. Lì, la pace del lungolago aveva ceduto il passo al caos. C’erano edifici spaccati in due, con metà salotto visibile dalla strada o il lavandino di un bagno in bilico sul bordo di una delle due metà di un piano, sul punto di precipitare. Avevano oltrepassato il pavimento di una cucina infossato che pendeva verso un vicolo, e da cui cadevano piastrelle quando si alzava il vento. Contro il fianco di una casa a tre piani era appoggiata una scala, e un uomo stava scavalcando la finestra del proprio appartamento al secondo piano mentre la figlia piccola da terra gridava istruzioni. «L’orsacchiotto senza un orecchio!» gridava. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «L’hai trovato?»

Poco dopo, Sloane aveva visto un altro palazzo distrutto, ma con un braccio e una gamba che penzolavano da una delle assi spezzate del pavimento di un appartamento al terzo piano. Aveva distolto lo sguardo.

Di fronte alla casa di Ines e Albie, dove prima c’era un pub scuro, ora c’era un parco di Genetrix con una statua colorata al centro di un laghetto. Luci magiche danzavano appena sotto la superficie dell’acqua, indisturbate dalla collisione dei mondi.

«Che c’è?» chiese Esther.

Sloane si era fermata a guardare il parco. «Quel pub del cazzo dove Ines si era beccata l’intossicazione alimentare è sparito» disse Sloane.

«Odiavi quel posto» disse Matt, e non tanto come per ricordarglielo, quanto come fosse una rivelazione.

«Già.» Sloane era pensierosa.

Esther prese Sloane per il gomito. «Venite, ragazzi.»

Il citofono era rotto, per cui aprirono a forza la porta della palazzina, la cui serratura non era mai stata molto sicura, e salirono le scale verso l’appartamento. Ora che erano là, Sloane non sopportava l’idea che Ines potesse non esserci. Esther dovette trascinarla per gli ultimi gradini, poi picchiò sulla porta. «Ines! Ines, sono Essy, apri!»

Sloane si preparò al silenzio. Ma sentirono subito dei passi e la voce bassa di Ines mentre trafficava con la serratura. «Oh mio Dio, oh mio Dio» ripeteva in continuazione, sbatacchiando la porta nell’ansia di aprire. La porta infine si spalancò e si trovarono davanti Ines a piedi nudi, con un paio di pantaloni del pigiama, gli occhi rossi e i capelli arruffati. Odorava di erba, di sudore e di caffè.

«Dove cazzo eravate finiti?» domandò.

Caddero l’uno sull’altro come un castello di carte, riuscendo a malapena a tenersi reciprocamente in piedi.