Quella notte, Sloane si svegliò da un incubo tremante e senza fiato: stava sognando il cadavere di Albie che usciva dal fiume e si trascinava verso di lei. Con voce roca la accusava per quello che aveva fatto, per aver ucciso Nero, per aver distrutto quasi completamente due mondi.
La luce di una candela traballava al centro del tavolo della cucina. Esther sedeva su uno sgabello con davanti una bottiglia d’acqua, e fissava la fiamma.
«Esther» disse Sloane, stringendosi un cuscino al petto. «Penso… penso di aver capito una cosa.»
Esther appoggiò la guancia sulla bottiglia e la guardò. I suoi occhi erano ammorbiditi dal dolore e tesi per la preoccupazione.
«Tua mamma è viva.» Sloane strinse ancora di più il cuscino, il cuore che le batteva forte. «Deve esserlo, perché io le voglio bene e le cose che sono sopravvissute alla collisione sono le cose che io ho amato dei due mondi.» Parlava a fatica. «La mia magia ha trasformato la morte di Nero in questa cosa, questa specie di mostro di Frankenstein di mondo, che si compone di tutte le cose che io volevo e…»
Esther si alzò e andò a sedersi vicino a lei sul divano.
«Alcune cose che voglio» sussurrò Sloane. «Non sono… buone. Nessuno dovrebbe riuscire a comporre un mondo a proprio piacimento…»
«Lo so, Slo.»
Sloane nascose la faccia nel cuscino e cercò di non gridare.
Matt uscì dalla camera di Albie, da dove evidentemente aveva ascoltato, nascosto dall’ombra.
Frugò nell’armadietto della cucina per qualche minuto mentre Sloane cercava di allentare la presa sul cuscino, poi tornò da loro, porgendo una piccola pillola gialla.
Sloane la inghiottì.
Il rifugio era silenzioso. Qualcuno aveva tirato giù gran parte delle assi che coprivano le finestre, per cui la luce del sole vi filtrava dentro attraverso uno strato di polvere. Sloane oltrepassò le coperte arrotolate accanto alla porta – il suo vecchio giaciglio – e la stanza piena di soldati che sedevano insieme sul pavimento a giocare a carte, a riparare sifoni, alcuni intenti a suonare vecchie pentole con le dita ossute.
Andò nel deposito a cercare Mox e lo trovò seduto al piccolo tavolo, di fronte a Ziva. Avevano le mani allacciate, il suo grosso palmo caldo che quasi conteneva completamente quello consunto di lei.
«Sloane!» esclamò Mox, e si staccarono l’uno dall’altra come se fossero stati sorpresi a fare qualcosa di imbarazzante.
«Scusate, torno dopo» disse Sloane. Le sembrava di aver interrotto un momento importante.
«No, rimani» la fermò Ziva. «Gli stavo giusto riferendo una conversazione che abbiamo avuto io e te.»
Con il tempo, ne era sicura, Sloane sarebbe riuscita a sbrogliare ogni filo della matassa ingarbugliata che erano stati gli ultimi giorni, ma era troppo presto. Dopo aver buttato giù la pillola di benzodiazepine, era crollata in un sonno pesante sul divano, poi si era svegliata, aveva preso in prestito dei vestiti puliti e, con l’aiuto di Ines, aveva rubato una macchina per attraversare la città. Ma per il momento questo era tutto quello che era riuscita a fare.
Ciò che aveva colto, però, dalle conversazioni davanti alla bodega nella strada di Ines, era che non c’erano né internet, né la rete cellulare né corrente in nessuna parte della città. Così gli abitanti delle sezioni terrestri avevano cominciato a infilare la testa in quelle di Genetrix, per curiosità e per disperazione. Gli abitanti di Genetrix, infatti, se la stavano cavando meglio con le conseguenze del disastro, perché i loro sifoni funzionavano ancora. Poi la negoziante aveva cominciato a straparlare di stregoneria, per cui Sloane non era riuscita a sapere altro sullo stato del mondo.
«Una conversazione che abbiamo avuto» ripeté.
«Quella in cui mi hai chiesto se fossi contenta di essere tornata in vita» disse Ziva. Mosse la mascella su e giù per alcuni secondi fino a farla schioccare. Sloane guardò la lingua muoversi dietro i denti scoperti e si domandò com’era possibile che, in soli pochi giorni, il suo disgusto per il corpo in putrefazione di Ziva fosse praticamente scomparso.
«Ah» disse.
«Io e Ziva abbiamo deciso che è tempo che lei se ne vada» spiegò Mox. Stava fissando il tavolo.
«Sì?» Sloane non sembrava capace di pronunciare più di una sillaba alla volta.
Ziva annuì. «Nero è morto, il che significa che il console è fuori pericolo e non ha più bisogno di noi. Ho parlato agli altri, e sono tutti d’accordo.»
«Avrò sempre bisogno di te» disse con veemenza Mox. «Di tutti voi.»
«Mox.» Nella voce roca e secca di Ziva c’era una gentilezza che Sloane non le aveva mai sentito. Non l’aveva neanche mai sentita chiamarlo per nome. Era stato sempre “console” o “signore”.
Mox la guardò. Lei gli prese di nuovo la mano nella sua. «Ti mancheremo» disse. «Desidererai averci con te. Ma quella è tutta un’altra cosa.»
Non rispose, il che valeva come ammissione.
«Facciamolo ora, mentre c’è qui Sloane» propose Ziva, alzandosi. «Sarò meno preoccupata per te, in questo modo.»
«Ora?» Mox aveva la voce strozzata.
«Non c’è mai un momento buono. Per lasciar andare, o per riposare.»
Guardò Sloane con un sorriso storto. Sloane lo ricambiò.
Andarono insieme nella sala dove li attendeva il resto dell’esercito. Quando Mox entrò, tutti cominciarono ad alzarsi in piedi, alcuni con più facilità di altri. Quelli che avevano corpi abili aiutavano gli altri ad alzarsi o tenevano in mano i loro arti staccati come un marito potrebbe reggere la borsetta alla moglie.
Sloane avrebbe fatto fatica a immaginare Mox che faceva un discorso, e lui non la sorprese. Passò tra i ranghi dei soldati, salutandoli per nome, parlando loro con voce sommessa, abbracciandoli. Mentre lui procedeva in mezzo al gruppo, Sloane si domandò se sarebbe stato in grado di farlo, se il suo profondo desiderio di avere con sé i suoi amici non avrebbe interferito con la magia.
Si sedette contro lo stipite della porta e guardò. I soldati che avevano già salutato Mox cominciarono a salutarsi tra loro. Due donne vicine a Sloane risero per una vecchia battuta, risate gracchianti, ansimanti, che sembravano rantoli di morte. Un uomo si sedette con la schiena contro il muro e un piede staccato in grembo, la mano teneramente piegata intorno alla caviglia.
Alla fine, Mox andò da Ziva, che stava con la testa così dritta che la treccia le sfiorava appena il centro della schiena ricurva. Il sole pallido e luminoso le cadeva sul viso, schiarendo per un momento la tonalità verdastra della sua pelle. Sloane cercò di immaginare che aspetto avesse avuto in vita, le guance piene e rosa, le spalle ampie, gli occhi luccicanti.
Mox la strinse, quasi sollevandola da terra. La mano scheletrica di Ziva cullava la nuca di Mox mentre lui le parlava piano, troppo piano perché Sloane sentisse, per quanto non ci stesse nemmeno provando. Tutto intorno a loro, i soldati si erano fatti silenziosi, risedendosi a terra in piccoli gruppi, intorno ai loro mazzi di carte, ai tamburi di fortuna e ai mucchietti di vetri colorati, i tesori delle loro scommesse.
Alla fine, Mox sciolse l’abbraccio e posò la fronte su quella di Ziva.
Quando lei crollò, lui fu pronto a prenderla. Una tensione di cui Sloane non era stata consapevole abbandonò tutto a un tratto la sala, come un cambiamento di pressione nell’aria. I corpi dei soldati si fecero fragili e secchi, immobili. Mox posò delicatamente Ziva sul pavimento, i capelli che gli ricadevano sulla faccia.
Sloane si alzò e gli andò vicino. Rimase qualche minuto in silenzio, a guardare le spalle di lui scuotersi. Ma quando lui infine si placò, lei gli porse la mano e lo guidò fuori dal rifugio.
E quando l’edificio prese fuoco, lei rimase accanto al fiume a guardarlo bruciare insieme a lui.
Ines sedeva al posto di guida di una vecchia Jeep Wrangler, imprecando contro il piantone dello sterzo. Mox era seduto accanto a lei, con una cassetta degli attrezzi in grembo, e offriva suggerimenti che sembravano solo farla imprecare ancora di più. Sloane osservava tutto dal marciapiede, da dove stava facendo la guardia; si stavano verificando un sacco di saccheggi ed episodi di violenza, e lei aveva in mano una chiave idraulica, pronta a difendere, se necessario, i suoi amici momentaneamente distratti.
La Jeep era parcheggiata in strada davanti all’appartamento di Ines, il che significava che erano fortunati a esserci arrivati per primi. Gran parte delle auto in buone condizioni erano già state rubate, ed erano rimasti solo catorci rugginosi e motorini.
«Ciao.» Matt uscì dall’edificio con alcune bottigliette d’acqua in una mano. L’altra mano, quella che era stata schiacciata dal sifone, era avvolta in una benda spessa. Cyrielle aveva trovato un dottore di Genetrix per lui quel mattino.
Lui porse le bottigliette d’acqua a Sloane e lei ne prese una. «Grazie.»
«Sono appena tornato da casa nostra» disse lui. «O piuttosto, dal parco pubblico di Genetrix che è ora al posto della nostra casa.»
C’era un tono di velata accusa nella sua voce. Sloane rimase in silenzio. Lui appariva esausto, gli occhi gonfi e le spalle incurvate.
«Se la tua teoria è vera» continuò lui piano, «allora il nostro appartamento è sparito perché tu volevi che sparisse.»
«Non è come pensi tu. Era… un posto in cui avevo paura di tornare. Perché sapevo che sarebbe stato difficile. Tutto qui.»
Matt annuì, ma la sua mascella sembrava ancora tesa.
«Puoi prendere questa se sei impaziente di andartene» disse Sloane, indicando la Jeep. Stavano tutti partendo per un viaggio: Ines ed Esther sarebbero andate in California per controllare come stava la madre di Esther e poi in Messico a trovare la famiglia di Ines; Matt sarebbe andato a New York a cercare i suoi genitori; e Mox e Sloane erano diretti nell’Illinois centrale per vedere se la mamma di Sloane c’era ancora o se l’intera città era stata cancellata dalla faccia della Terra. Sloane era terrorizzata di scoprirlo anche se, dentro di sé, già sapeva che non c’era più.
I mondi si erano combinati in base a ogni suo singolo capriccio, ogni sua preferenza, ogni sua meschina paura. Lei si sentiva nuda in un modo che non aveva creduto possibile. Ma era infinitamente grata che Matt fosse ancora là, che anche se i suoi desideri si stavano rivelando più torbidi e più gretti di quello che si era aspettata, lei ancora voleva che lui facesse parte del suo mondo.
«No, preferisco trovare qualcosa che non beva così tanta benzina» rispose Matt. «È lunga fino a New York.»
«Sei sicuro di volerci andare da solo?»
Matt annuì. «Credo che mi farà bene un po’ di tempo per pensare.»
La rottura tra loro sembrava più reale ora che erano tornati sulla Terra – più o meno Terra – e che Matt aveva conosciuto Mox, e stavano prendendo piuttosto letteralmente direzioni diverse. Ma ora era peggio rispetto a prima. Qualunque idea sbagliata Matt avesse cullato sul morbido ripieno di Sloane era ormai stata cancellata. Gli bastava guardare tutte le cose che lei aveva distrutto per vedere la verità.
Un grido di vittoria uscì dalla Jeep mentre il motore prendeva vita ruggendo. Ines sporse la testa dal finestrino. «E c’è anche una tanica piena di benzina!»
«Okay» disse Sloane. «Immagino che ci rivedremo tra un mese.» Erano tutti d’accordo di incontrarsi allora da Ines per fare il punto della situazione.
Sloane avrebbe voluto dire tante cose a Matt. Che le dispiaceva di non aver salvato il loro appartamento. Che non era stato facile come era sembrato allontanarsi da lui. Che avrebbe voluto essere migliore. Ma il loro dramma di coppia sembrava insignificante a paragone del caos che li circondava, dei destini incerti delle loro famiglie. Così rimase in silenzio. Passò una bottiglia d’acqua a Ines e la salutò con un abbraccio mentre Mox caricava le borse nel portabagagli.
Poi si fermò davanti a Matt, non sapendo bene come lasciarlo andare.
Lui si avvicinò per primo, avvolgendo un braccio intorno a lei e stringendola forte. Lei aveva appena cominciato a ricambiare il gesto quando lui la lasciò andare.
«Cerca di star bene.»
«Anche tu.»
«Dovrai imparare a guidare» disse Sloane mentre Mox si incurvava nel sedile del passeggero. Lei aveva provato a cercare un’auto in cui lui potesse stare più comodo, ma si era dimostrato impossibile. Almeno la Jeep poteva affrontare le strade malmesse che portavano a sud.
Mox aveva trovato il suo sifone da polso nel laboratorio intatto di Nero nel Caram, e l’aveva indossato. Si era offerto di trovarne uno per lei, ma Sloane sapeva di non averne bisogno. Aveva l’Ago.
Sul sedile posteriore c’erano due borse, una piena di vestiti, l’altra piena di cibo e altre cose necessarie. Sloane in generale non approvava il furto, ma non le rimaneva più niente di quello che aveva prima, e non poteva accedere al suo conto in banca; non che i soldi fossero molto utili in quel momento, con due valute statunitensi ufficiali in circolazione. I soldi erano solo un mucchio di fogli verdi se non c’era un governo o un qualche tipo di ordine.
Sloane partì percorrendo Lake Shore Drive, che era per lo più intatta, visto che era stata molto simile in entrambi gli universi. C’erano sporgenze e spaccature dove i diversi strati d’asfalto si erano incontrati, ma aveva sentito dire che era percorribile.
Non era stata Sloane a volere quel viaggio ma, come aveva detto Mox la sera prima, «forse è semplicemente giusto che tu sappia». Un giorno avrebbe potuto scoprire che lo stesso valeva per lui e la sua famiglia.
Mox frugava in una borsa in cerca di qualcosa. Mentre era chinato, Sloane guardò le sporgenze delle sue vertebre. Il sifone da schiena si era staccato quando Nero era morto, le aveva detto. E si trovava sul letto del fiume Chicago.
Alla fine tirò fuori dalla borsa un cd: Pet Sounds.
Sloane sorrise.
Mentre partiva la prima canzone, Mox disse: «Credo di sapere perché l’hai fatto, in realtà».
«Fatto cosa?»
«Uccidere Nero.»
«Ah.» Sloane gli lanciò un’occhiata. «Perché l’ho fatto, in realtà?»
«Perché lui voleva costringere me a farlo. Tu hai deciso che se uno dei due avrebbe dovuto portarne il peso, saresti stata tu. Così alla fine… non è stata vendetta, o ineluttabilità, o qualche altro scopo oscuro. È stata una forma di… piccola misericordia.»
«C’era decisamente la vendetta» disse lei.
«Sì, ovvio.» Mox appoggiò indietro la testa e chiuse gli occhi. «Ma c’era anche gentilezza.»
Allungò la mano oltre il cambio a prendere quella di lei.
Costeggiarono il lago Michigan, l’acqua scintillava nel sole.