2

Kline

BottaDiRose (07:03) : Allora è il pisello di qualcun altro? È ANCHE PEGGIO. Livello di minaccia: ALLE STELLE.

«Buongiorno, signor Brooks».

«Buongiorno, Frank» risposi, alzando la testa dalla scena del crimine sul mio cellulare quanto bastava per incrociare i suoi onesti occhi color ambra, prima di scivolare nel comodo sedile in pelle della mia berlina.

Thatch, brutto stronzo. Giuro, in qualche modo lui prendeva qualcosa che era già maledettamente irritante di per sé e riusciva a portarla a un nuovo livello ancora più irritante. Se non fosse stato altrettanto bravo con i soldi, probabilmente mi sarei già liberato di lui. Mandandolo in fondo all’oceano, con un blocco di cemento attaccato alle caviglie.

Lei aveva ragione, naturalmente. Mandare la foto del pene di qualcun altro era notevolmente peggio di mandare quella del proprio.

E di quello in particolare.

Tre squilli risuonarono nel mio orecchio prima che, con la sua voce impastata di sonno, riuscisse a tirare fuori dalle labbra una sillaba ancora ubriaca. «’nto?».

«Un uccello, Thatch? Fai sul serio?» chiesi immediatamente, stringendomi il naso tra due dita per tenere a bada il mal di testa.

Tutto l’alcol che ancora aveva in corpo non gli impedì di rispondere con una risata. La gola gli si schiariva sempre più a ogni risatina e, quando rispose, parlava con voce chiara. «Sei tu che usi la mia foto per il tuo profilo, amico. Mi sembra giusto allora poter scatenare l’uccello gargoyle».

Uccello gargoyle. Cazzo, quanto aveva ragione. Una protuberanza tipo ala, una gobba e un colorito discutibile, tutte e tre si prestavano alla sua descrizione. Avevo lasciato il mio cellulare al bar senza tenerlo d’occhio come un falco per due fottuti minuti e lo stronzo era riuscito in qualche modo a mandare una delle peggiori foto osé del mondo a qualche povera, e ormai cieca, donna in quel lasso di tempo.

«Il profilo era solo una vendetta per l’ultima bravata che mi hai combinato».

«E qual era?» chiese, fin troppo divertito.

«Chi lo sa» ammisi, fissando i grattacieli che sfilavano davanti ai miei occhi e scuotendo la testa. «Non riesco a starti dietro».

«Allora unisciti a me, K. Goditi un po’ la vita, cazzo».

Un raggio di sole nascente brillò su un pannello di cristallo perfettamente liscio in cima a un palazzo e riflesse un arcobaleno proprio sul finestrino della mia macchina.

«Me la godo già, grazie» ribattei.

«Già». Rise e mi schernì al tempo stesso. «Saluta Walter da parte mia».

Questo era il modo di Thatch di darmi della gattara.

«Ehi, vaffanculo!» esclamai, ricevendo in tutta risposta il silenzio della cornetta. Allontanai il cellulare dal volto e scoprii che aveva chiuso la chiamata.

«Che si fotta» mormorai, richiamando in qualche modo l’attenzione di Frank su di me più di quanto non avessi fatto con il mio urlo.

«Signore?».

«Non preoccuparti, Frank». Rimasi un attimo in silenzio e tornai a guardare fuori dal finestrino. «Non è che per caso conosci un sicario?».

Spostai gli occhi sul fronte della vettura, preparandomi alla sua reazione.

«Uhm» mormorò, esitando, spostando velocemente lo sguardo tra me e la strada nello specchietto retrovisore. «No, signore».

Scossi la testa sorridendo, con una breve risata che mi solleticava il fondo della gola.

«Bene. Meglio così» commentai, proprio quando la macchina accostò al marciapiede di fronte al mio edificio.

Tirando la maniglia della portiera, spinsi con la punta della scarpa per aprire lo sportello.

«Signor Brooks» iniziò a protestare Frank, come al solito, sobbalzando e facendo per uscire per aiutarmi a scendere dall’auto, ma io continuavo a pensare che aspettare che lui facesse il giro della macchina solo per fare qualcosa che i miei pollici opponibili e la mia assenza di paralisi rendevano sorprendentemente semplice fosse uno spreco del suo e del mio tempo. Gli risposi con un sorriso prima che potesse uscire, incrociando il suo sguardo nello specchietto retrovisore.

«Buona giornata, Frank. Ci vediamo alle sei».

Chiusi la portiera sbattendola, iniziai a camminare e nel frattempo ad abbottonarmi la giacca del completo. Venti sonori tonfi delle mie suole e divorai in pochi istanti il cortile in cemento di fronte al mio edificio. I newyorchesi si affrettavano vocianti attorno a me, continuando con la maratona della loro vita iniziata dal momento in cui avevano aperto gli occhi. Questa era la vibrazione che emanava la città: elitaria, attiva e fottutamente concentrata. Nessuno aveva tempo per gli altri perché tutti ne avevano a malapena per sé. E nonostante questo, tutti loro, nessuno escluso, l’avrebbero comunque dichiarata la “migliore città del mondo” senza pensarci due volte.

Non appena la mia mano toccò il metallo della maniglia, scrutai l’atrio del Winthrop Building, sede della Brooks Media, solo per trovare i receptionist e le guardie di sicurezza che si affrettavano a sembrare occupati quando invece non lo erano affatto.

Mi morsi il labbro per non ridere. Non ero mai stato un capo dal pugno di ferro e non una volta avevo messo il naso nelle faccende di impiegati fedeli e leali come quelli che si stavano praticamente pinzando le mani nelle cucitrici pur di sembrare indaffarati.

Ma essere il CEO di una compagnia delle dimensioni e dell’importanza della mia creava a modo suo un fattore di intimidazione, che lo volessi o no. E, a volte, le conseguenze non volute pesavano come un fardello notevole.

«Buongiorno, Paul».

Annuì.

«Brian».

«Signor Brooks».

Il pulsante dell’ascensore era illuminato già prima del mio arrivo, un’ulteriore cortesia dei miei impiegati eccessivamente zelanti, ne ero sicuro, e meno di un secondo dopo seguì il ding che annunciava l’arrivo al piano terra e l’apertura delle luccicanti porte a specchio.

Entrai in ascensore prontamente, senza pronunciare un’altra parola, offrendo solo un sorriso. Sapevo che qualsiasi cosa avrei detto avrebbe causato solo stress o ansia, nonostante i miei sforzi per trasmettere l’effetto opposto. Molte persone non avrebbero mai considerato il proprio capo come un amico senza essere a disagio, per quanto lui potesse essere gentile. La migliore cosa che potevo fare era riconoscerlo, accettarlo e rispettarlo.

Appoggiai i fianchi sulla parete di fondo dell’ascensore mentre le porte si chiudevano davanti a me e infilai le mani in profondità nelle tasche per impedirmi di passarmele ripetutamente su e giù sul viso. Alzavo il gomito raramente, per cui non avevo il dopo sbronza, ma gli scherzetti di Thatch, sia online che offline mi stavano sfinendo. Che fosse chiaro: non che non ritenessi divertente l’uccello gargoyle, perché lo era , ma era proprio quel genere di scherzo che è divertente quando non lo subisci tu. In effetti, questo era vero per quasi tutte le torture mascherate da scherzo di Thatch.

L’argomento dei miei pensieri e il peso del cellulare contro la mia mano me lo fecero estrarre dalla tasca, nonostante il mio buon senso fosse di parere contrario. Tenni sospeso il pollice sopra l’icona di TapNext. Con un veloce click, potevo passare dalla padella alla brace. Lo schermo si illuminò e l’app si caricò non appena il mio dito la toccò.

Sporco_Ruck (07:26) : Nonostante quello che potrebbe far sembrare l’uccello gargoyle, giuro, NON sono un terrorista sessuale.

Strinsi forte in mano il cellulare e me lo sbattei svariate volte contro la fronte, pieno di vergogna.

«Che risposta brillante, cazzo».

Avrei dovuto lasciar perdere e basta. Dimenticare tutto. Diavolo, dopotutto non conoscevo mica quella donna, ma non ero riuscito a trattenermi. Non riuscivo a sopportare l’idea di essere ricordato così, nemmeno se si trattava del mio profilo fasullo per gli appuntamenti.

Qui giace quest’uomo nell’eterno riposo. Egli non sarà dimenticato: Terrorista Sessuale, Molestatore sui Social Media, Portatore di Sfortunati Genitali.

L’ascensore raggiunse il quindicesimo piano fermandosi dolcemente e io uscii non appena le porte cominciarono ad aprirsi. La mia receptionist mi aspettava appena fuori con una pila di messaggi, già avvertita del mio arrivo dallo staff una cinquantina di metri sotto di noi. La sua figura da sessantottenne era fasciata da vestiti impeccabili e modesti, alcuni capelli bianchi spiccavano nel suo chignon color caffè scuro, rendendolo sale e pepe. Il suo sorriso era genuino, però: l’età, la saggezza e l’esperienza influenzavano il modo in cui vedeva il suo “capo” giovane di trentaquattro anni. Quando si parlava di infrastrutture e di far funzionare per davvero l’ufficio, era lei a dirigere la baracca.

La punta delle labbra mi si sollevò, facendomi spuntare delle rughette agli angoli degli occhi. «Buongiorno, mia splendida Meryl».

Lei fece schioccare la lingua. «Farà meglio a trovarsi un’altra da addolcire con le sue parole smielate, signor Brooks. Sarà anche presto, ma ho già assunto la mia razione quotidiana di zuccheri».

«Accidenti». Sussultai, stringendomi il petto come per un dolore immaginario. «Così mi ferisce». Un sorrisetto mi sollevò lentamente un lato della bocca e aggiunsi un rapido occhiolino. «E chiamami Kline. Kline, per l’amor del cielo».

«Dieci anni. Ogni singolo giorno, mi ripete la stessa identica cosa. Da dieci anni» brontolò lei.

«Da qualche parte c’è una lezione da imparare, Meryl, e io credo abbia a che fare con il piegarsi alla mia volontà». Presi i messaggi dalla sua mano con gentilezza e la colpii appena con la punta del gomito.

«Sono tenacemente insistente».

«Anche io» ribatté.

«Lo so, eccome se lo so».

«I primi quattro messaggi sono urgenti, da parte di nuovi potenziali investitori e svariati problemi informatici subito dopo» disse alla mia schiena mentre mi allontanavo.

Scossi la testa tra me e me. I potenziali investitori richiedevano sempre la mia attenzione con urgenza. Mi fermai brevemente e voltai la testa da sopra la spalla, chiedendo: «Ed è lei a darmi i messaggi dal dipartimento informatico, perché?».

Messaggi del genere mi erano di solito comunicati dalla mia assistente personale.

«Perché sì» rispose, senza alzare gli occhi dalla scrivania. «E perché Pam è a casa con il bambino, è ammalato».

Inclinai la testa all’indietro per indicarle che avevo capito e mi morsi il labbro, per impedire che mi sfuggisse una risata.

«Ah. E sappiamo tutti che il suo unico punto debole sono i bambini, Meryl».

«Esattamente» confermò senza alcuna remora, guardandomi da sopra la montatura degli occhiali per farmi l’occhiolino.

Mi girai, diretto al mio ufficio, ma lei non aveva finito di parlare.

«Ma non si preoccupi...»

Merda . Quando Meryl cominciava col dirmi di non preoccuparmi di qualcosa, allora significava che dovevo preoccuparmi. Preoccuparmi sul serio .

«Leslie la sostituisce».

Scossi la testa. Non sapevo se per l’incredulità o lo scontento ma, qualunque fosse il motivo, non riuscii a fermare quel gesto.

Gli occhi di Meryl iniziarono a brillare.

«E visto che è stato lei ad assumerla, ho pensato che non le sarebbe dispiaciuto prenderla sotto la sua ala esperta per tutta la giornata».

Merda. Lasciai cadere per un momento la testa all’indietro con un lamento prima di rassegnarmi a una giornata infernale e riprendere il mio cammino.

Un piede davanti all’altro, mi avviai verso la mia rovina, conscio che, oltre me stesso, non potevo che incolpare la mia famiglia. E non potevo nemmeno fargliene una colpa per davvero . Ero un uomo adulto, un imprenditore e padrone della mia vita, diavolo. Era stata una mia scelta assumere la svampi… Leslie , e che fossi stato obbligato a farlo o no non importava.

In ogni caso: «Merda».

«Buongiorno, signor Brooks» mi salutò non appena girai l’angolo, l’ultima sillaba del mio nome venne prolungata diventando direttamente una risatina.

Dio, che fastidio.

Gli occhi le brillavano, le labbra erano imbronciate, le braccia strette sotto il seno. Svariate ciocche dei suoi capelli neri, cotonati e laccati, le scendevano in ricci oltre le spalle, arrivando quasi fino alla punta delle sue unghie aguzze. E mi scopava con gli occhi senza tregua, sbattendomi sempre più forte a ogni passo che facevo.

Mi dipinsi in volto un sorriso e cercai di renderlo genuino. In realtà era una persona gentile: semplicemente mancava di tutte le qualità che cercavo sia negli amici che nelle amanti.

«Forza, Leslie». La chiamai con un cenno, dando le spalle al suo seno quasi completamente scoperto e del tutto inappropriato per un luogo di lavoro, ed entrai direttamente nel mio ufficio con una prontezza che Cynthia, la mia direttrice delle Risorse Umane, avrebbe sicuramente apprezzato.

Il capo in me voleva dirle di metterle via. L’uomo in me sapeva che non sarei riuscito a farlo senza finire citato in una qualche causa per molestie sessuali. Situazioni del genere davano vita a ogni genere di supposizione.

«Oggi sei con me» proseguii, puntando dritto alla mia scrivania, sfilandomi la giacca dalle spalle per appenderla al gancio dietro di me, a destra.

«Prendi» la incoraggiai quando lei non si mosse né parlò, allungandole i messaggi dei potenziali investitori che Meryl mi aveva dato neanche cinque minuti fa. «Porta questi a Dean e digli di fare qualche chiamata preliminare. Può organizzare una riunione telefonica questo pomeriggio con chiunque di loro mostri una briciola di credibilità».

Un battito di ciglia finte seguito da uno sguardo vacuo.

Agitai persino un poco i messaggi, ma lei non rispose.

Giusto. Parole semplici.

«Chiedi a Dean di richiamare queste persone. Lui saprà se parlare con loro sarà o no una perdita del mio tempo, e, nel caso in cui non lo sia, posso parlare con loro oggi pomeriggio».

«Ricevuto!» disse con una strizzatina d’occhio, saltando da un tacco all’altro, per poi girarsi con una piroetta e uscire sculettando dal mio ufficio.

Non ero un indovino, ma una cosa diventava sempre più chiara: avrei dovuto fermarmi a comprare una bottiglia di scotch in più, stasera.