«Ti ho trovato una ragazza perfetta per venerdì sera» dichiarò mia mamma al mio orecchio non appena uscii dal mio ufficio, per rientrare a casa a fine giornata. Non dovetti nemmeno rifletterci.
«No».
Chiusi la porta dietro di me, mi incamminai lentamente lungo il corridoio e svoltai l’angolo dell’ambiente principale dell’ufficio.
«Ha ventinove anni, capelli neri, lunghi, si tiene bene, attraente...»
«No».
«Si chiama Stacey Henderson. Non so se vi siete mai conosciuti a un qualche evento mondano a cui ha partecipato anche lei...»
Stacey Henderson? No, col cavolo .
In effetti si teneva bene ed era molto attraente. Ma era un undici, su una scala da uno a dieci, in insulsaggine.
«Mamma. No ».
«Lei non vede l’ora...».
«Mamma...».
«Ha detto che ha proprio l’abito giusto per l’occasione...»
«Mamma» sbottai infine, con voce abbastanza ferma da indurla finalmente ad ascoltare.
«Che c’è?».
Una scusa. Mi serviva una scusa. La mia direttrice del marketing, di spalle, con i suoi capelli rossi attirò la mia attenzione sul lato opposto dell’ufficio e le parole mi uscirono dalle labbra prima che potessi pensare a qualcos’altro.
«Vado già con qualcuna».
«Oh. Santo cielo. Beh, allora credo che dovrò chiamare Stacey e disdire...».
«Sì!» concordai con entusiasmo. «Disdici con Stacey».
Il suo tono si fece sospettoso.
«Kline...».
«Devo andare, mamma. Devo mettermi d’accordo con la mia accompagnatrice». E convincerla a venire con me.
«Kline...».
«Tivogliobeneciao».
Con un colpo di pollice chiusi in fretta la chiamata. Speravo di non finire in guai troppo seri per aver buttato giù tanto bruscamente, ma al tempo stesso ero abbastanza disperato da porre fine a quella conversazione e non importarmene.
A trentaquattro anni, mia mamma faceva la mamma con me più di quanto avesse mai fatto in vita mia. Il desiderio di avere una donna rispettabile da prendere sotto la sua ala e dichiarare sua era una motivazione molto potente, a quanto pareva, e la spingeva a mettere il naso nei miei affari come non aveva mai fatto prima.
Io cedevo, la maggior parte delle volte, ma vivere con Walter giorno dopo giorno era una lezione non tanto facile da dimenticare. Il gatto più scorbutico di Manhattan, se non del mondo, viveva con me ed era tutta colpa di mia madre.
Non voglio che tu ti senta solo , aveva detto.
Siamo sempre in viaggio, non possiamo prenderci cura di lui , aveva detto.
Vedrai, lo amerai e lui amerà te , aveva detto.
Ah, se solo fossi potuto tornare indietro nel tempo.
C’erano giorni in cui evitavo di tornare a casa, nel mio appartamento, solo perché lì viveva Walter, giuro.
Ma era meglio parlarne un’altra volta.
Attraversai veloce l’ufficio, le mie suole battevano un ritmo soffuso sulle piastrelle di marmo e un fischiettio mi saliva dalle labbra.
Georgia Cummings. La mia impiegata e l’antidoto per i miei incubi a tema Stacey Henderson.
Lavorava per me da un paio d’anni ormai, ma, mentre mi avvicinavo, mi resi conto che non l’avevo mai realmente guardata per tutto quel tempo. Un’occhiata qui, un sorriso là, uno scambio professionale ogni settimana o due. Ma non avevo mai esaminato il suo corpo come stavo facendo in questo momento. Ne ero sicuro.
Perché, altrimenti, cazzo se me lo sarei ricordato.
Di statura minuta ma con un corpo tutto curve, aveva la forma di una piccola perfetta clessidra, in equilibrio precario su tacchi a spillo sottili come lame alti tredici centimetri.
Quei suoi maledetti polpacci sembravano scolpiti nel granito e il suo sedere tondo si era impresso nei miei occhi e rifiutava di andarsene.
Lei si spostò appena mentre mi avvicinavo da dietro e poi si piegò a metà, intenta in qualcosa nello schedario davanti a lei.
Nello schedario così magnificamente basso.
La guardai sbrigare i suoi affari, chiedendomi come avessi fatto a impedirmi di notarla con tanta efficienza. Mi impegnavo a fondo per trattare ogni impiegato correttamente e senza pregiudizi. Mi ricordavo delle occhiate che Dean mi lanciava quando pensava non stessi guardando e le rughette amichevoli attorno agli occhi di Pam. Il diavolo è nei dettagli, mi diceva sempre mio padre e io mi sforzavo di notarli. Tranne nel caso di Georgia Cummings.
Mentre cercavo di richiamare alla memoria il suo sorriso – senza riuscirci – capii che il motore nel mio cervello che manteneva tutto per compartimenti stagni doveva aver lavorato a tutta birra per impedirmi di andarmi a cacciare in una situazione in cui non mi sarei dovuto mettere.
Ma quel motore si era spento adesso, e il mio cervello era passato ai comandi manuali a causa del ficcanasare di mamma Maureen. E, quando il tessuto del vestito color crema di Georgia si tese sul suo sedere, i segnali di allarme esplosero.
«Il collo».
Un ondeggiamento dei fianchi fasciati dal tessuto chiaro accompagnò il suo canto stonato.
Qualcosa mi diceva che non sapesse che ero dietro di lei.
«La schiena».
Ancora un’altra tortura, ma in direzione opposta.
«Leccami la topa...».
Le orecchie sanguinavano. I pantaloni mi stringevano.
«...non dimenticare il dietro».
Porca. Miseria . Dovevo fermarla prima che la situazione peggiorasse. O migliorasse .
Scossi in fretta la testa per schiarirmela e allungai una mano per darle un colpetto sulla spalla levigata.
I capelli le svolazzarono disegnando un arco, lei si girò a velocità supersonica sui tacchi, con gli occhi spalancati dallo spavento mentre tirava un filo bianco per togliersi la cuffietta dall’orecchio.
«Merda».
Sorrisi. I suoi occhi si spalancarono ancora di più, se era possibile.
«Signor Brooks, sono mortificata». Serrò gli occhi per la vergogna. «Credevo di essere rimasta sola in ufficio».
Il suo volto era perlopiù in ombra, poiché lo teneva rivolto verso il pavimento, ma ero quasi sicuro di aver visto le sue labbra mormorare ancora la parola “merda”.
«Non c’è nessun problema» dissi e lei scattò all’insù con la testa, perplessa. Sorrisi appena. «Per la canzone e i “merda”. A dire il vero, se proprio devi, puoi dirlo ancora».
Lo shock le paralizzò il volto.
«Si vede che ne hai voglia» la spronai. «Forse te ne servono altri tre o quattro».
«Tre, quattro». Alzò le spalle, disperata. «Quaranta, forse».
«Quaranta “merda”?» chiesi, alzando divertito un sopracciglio.
«Dipende da quanto ha sentito, immagino».
Allungai il collo per sbirciare oltre lei.
«Non ne sono sicuro. Mi sento particolarmente in sintonia con il tuo collo e la tua schiena, e, ecco, il resto non credo proprio di poterlo dire sul luogo di lavoro».
«Oh mio Dio» strillò e seppellì il volto tra le mani, con rinnovato imbarazzo.
«Decisamente quaranta “merda”. Magari anche cinquanta».
Coprii una risatina con un colpo di tosse, prima di riuscire a soffocarla; sapevo che era il momento perfetto per procedere con il mio obbiettivo. «Non c’è problema. So come puoi scusarti».
Alzò di colpo lo sguardo dal pavimento e gli occhi le si spalancarono speranzosi. «Davvero?».
«Domani sera. Vieni alla serata di beneficenza per l’Ospedale Pediatrico con me». L’orrore le contorse il volto in una versione tutta aggrottata del suo aspetto naturale. Non era proprio la reazione in cui speravo.
«Cosa? Andare al… con lei… No». Scosse freneticamente la testa, quasi con disperazione, i capelli rosso vivo che volavano da una parte all’altra prima di ricaderle lungo le spalle, sul tessuto bianco. «No».
Devo ammettere che quei duplici, enfatici “no” mi colsero un po’ di sorpresa. E non perché credevo che nessuno potesse rifiutarmi. Tutti potevano farlo e diamine, probabilmente avrebbero dovuto. Ma non mi capitava da un po’ di tempo.
Da un bel po’ di tempo.
«Sei impegnata?» le offrii come scusa, sperando che il suo disagio evidente fosse più dovuto alla sorpresa che ad altro.
Una minuscola rughetta le si formò tra le sopracciglia e mi sembrò che avvicinasse appena gli occhi. «No. Nessun impegno».
Ahi .
Per la prima volta da un po’ di tempo, faticai a trovare le parole. «Io… uhm… ecco. Ok».
Lei mi rivolse un sorriso forzato in risposta.
Ma non riuscivo proprio a decidermi di rinunciare.
Girai attorno alla sua scrivania e mi avvicinai a lei abbastanza da farla indietreggiare di un paio di passi, appoggiai il sedere sul ripiano dietro di me e incrociai le braccia.
Lei si strofinò le braccia con un movimento nervoso, aveva la pelle d’oca.
«Allora, quanto è definitivo questo “no”? È tipo un “lo sto prendendo in considerazione, ma propendo per il no” o una cosa del tipo “solo quando l’inferno gelerà”? O forse è da qualche parte tra le due, su un terreno negoziabile?».
Lei scosse la testa, come se fosse perplessa e batté due volte la punta della scarpa.
Il mio sguardo scese rapido sulle sue gambe e ritorno, solo per trovare, alla fine del suo viaggio, due occhi azzurro chiaro leggermente adirati.
«Non è che lei mi disgusti, se è questo che vuole sapere, ma un negoziato mi pare improbabile».
Mi trasformai in un’incarnazione di Jim Carrey, che si impossessò del mio corpo delle mie corde vocali prima che potessi fermarlo. «Quindi vuoi dirmi che una possibilità c’è, dopotutto?».
«Ma che diavolo succede?» sbottò lei, a bassa voce, verso il soffitto, come se stesse parlando tra sé. I suoi occhi balzarono su di me. «Perché mi chiede di uscire? Perché ora? Tutto questo non ha senso».
Non potevo che dirle la verità. Che fosse in positivo oppure no, non potevo impedirmi di essere sincero. Era la mia natura.
«Ascolta. Per qualche diavolo di ragione, la società ha deciso di interessarsi alla mia per niente interessante vita privata solo perché ho i soldi e perché il materiale da tabloid è molto più importante delle donazioni o del tempo passato a fare volontariato, e quindi sono costretto a portare un’accompagnatrice a ogni evento a cui partecipo. Normalmente questo non sarebbe un problema, cioè per quanto mi riguarda possono andare a quel paese ma, per un crudele scherzo del destino, mia madre ha deciso che anche a lei importa. Vuole una nuora e nipotini e tutta quella roba lì».
La sua pelle passò da un caldo rosa pesca al bianco pallido.
«Ma ha dei gusti terribili e, anche se praticamente ignoro tutto di te, sei sicuramente meglio di tutte le mie altre possibili scelte».
«Wow, grazie».
«Fidati, l’insulto era rivolto alle altre, non a te».
«Va bene».
«Non sto cercando di sposarti, anche se sono sicuro che mi godrei infinitamente il tempo insieme...»
«Ne sono certa».
Non potei impedirmi di sorridere di fronte alla sua irriverenza.
«Sto cercando di evitare di finire di nuovo con una versione più loquace e amante delle giornate alla spa di Walter».
«Chi è Walter?» chiese lei, a ragione.
«Il mio gatto».
Incredulità e confusione si davano battaglia sul suo viso. Georgia continuava ad appiattire le labbra e mordersele, più e più volte.
Io sapevo che non stavo facendo altro che confonderle le idee. Speravo solo che la sua confusione l’avrebbe portata a un sì, anche se reticente.
Proprio quando iniziavo a temere che, continuando così, avrebbe finito per tagliarsi un labbro, lei ruppe il silenzio con una semplice domanda. «Perché io?».
Ancora una volta l’onestà prevalse. «Perché sei qui».
Lei arricciò le labbra a sentire le mie parole aspre, ma quando strappai lo sguardo dalla sua bocca per guardarla nei suoi occhioni azzurro chiaro, sapevo che non avevo ancora finito.
Con lei non avevo finito. Con quella conversazione non avevo finito. Con la mia stupidità non avevo finito. «E poi sei bellissima, cazzo».