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Georgia

Era stato uno di quei giorni in cui rimanere a letto e darsi malati sarebbe stata una scelta migliore di decidere di prendere parte alla vita. Kline Brooks aveva lasciato sotto il mio occhio vigile la sua nuova stagista, Leslie, mentre lui se ne volava a Los Angeles in giornata per chiacchierare con gli investitori e impressionare potenziali clienti per la pubblicità su TapNext.

Leslie era stata inviata a noi direttamente dall’inferno, ne ero certa. Vista la situazione, il diavolo avrebbe potuto anche metterle un bel fiocco rosso attorno al collo e attaccare un biglietto.

Cara Georgie, Divertiti con lei.

Un abbraccio, Satana

In un giorno avevo visto le sue tette più di quanto avessi visto le mie nell’ultimo mese. O aveva dei seri problemi di controllo della temperatura corporea o non portava il reggiseno. Non mi importava chi fosse incaricato di stabilire le regole per l’abbigliamento in ufficio: i capezzoli non sarebbero mai stati considerati appropriati per il luogo di lavoro.

Perché Kline l’avesse assunta era un maledetto mistero, a quel punto. E ancora non ho menzionato la sua predilezione per i selfie. I suoi social media erano più affollati di una escort a Las Vegas durante il torneo nazionale di basket di marzo. Il che non sarebbe stato un problema, se solo si fosse impegnata altrettanto nel suo vero lavoro.

Quando finalmente riuscii a tornare a casa, mi preparai al mio passatempo preferito: pantaloni della tuta, un sacchetto di patatine, panna acida e cipolla e un episodio registrato di Al passo con i Kardashian . Nonostante fosse ridicolo che quella famiglia avesse fatto una fortuna con i reality, continuavo a registrare ogni maledetto episodio. Era un vero e proprio vortice di istupidimento e uno spreco di prezioso tempo e neuroni, ma non riuscivo a negarmi il mio regolare piacere segreto. Che dire? Ero una vera americana: mi godevo ogni reality spazzatura che veniva prodotto per il mio piacere oculare e poi ne parlavo male il giorno dopo. Kim aveva appena affermato che le donne che si mettono il fondotinta del colore sbagliato sono la cosa peggiore al mondo , quando il cellulare squillò. Chiamata in arrivo: Kline Brooks.

In nome di Dio, e ora cosa vuole? Avrebbe dovuto essere su un aereo, di ritorno da Los Angeles. La sua assenza era proprio il motivo per cui mi sarei ritrovata con due chili e mezzo di patatine sui fianchi e sul sedere l’indomani mattina. Due giorni fa, avrei detto che Kline mi faceva brillare gli occhi con i suoi baci da quasi-svenimento e la sua fiducia nelle mie capacità. Ora, dopo avere visitato le profondità dell’inferno dell’incompetenza, il fervore dei miei sentimenti si era abbondantemente spento. Quel bastardo arrogante ed esigente sapeva benissimo cosa stava facendo quando mi aveva chiesto se fossi capace di gestire la situazione in ufficio. Dopo cinque squilli passati a borbottare insulti e parolacce, decisi di porre fine al suo tormento. «Buonasera, signor Brooks. In cos’altro posso aiutarla oggi?».

La sua risata spontanea mi riempì le orecchie. «Pensavo avessimo superato queste stupidaggini formali».

«Non dopo oggi, no».

«Giornata dura al lavoro?».

Giornata dura? Diceva sul serio? Io stavo ancora cercando di cancellare dalla mia mente tutti i commenti idioti di Leslie della giornata. «La tua nuova stagista è un tesoro. Una vera risorsa per l’azienda, oserei dire. Trovo incredibile che una donna riesca a scattarsi tanti selfie nell’arco di quindici minuti eppure a essere completamente incapace di fare una singola fotocopia nello stesso arco di tempo».

«So che ha qualche problema di priorità, ma è una brava ragazza, Georgie». Avvertivo il sorriso nella sua voce.

«Dopo oggi, sono onestamente sorpresa che tu sia riuscito a portare a termine qualcosa nelle ultime due settimane». Mi sforzavo di non essere il tipo di donna che giudica le altre donne in base al loro quoziente intellettivo, ma Leslie faceva sembrare le Kardashian dei geni.

«Ti preoccupa il mio carico di lavoro, tesoro?».

Tesoro? Odiavo che una cosa tanto semplice come Kline che mi chiamava tesoro facesse fare al mio cuore i salti mortali nel petto. Ma così era. Stupido cuore. Il maledetto non sapeva niente di niente. Mi schiarii la gola, ignorando la reazione del mio corpo ai suoi dolci sentimentalismi. «Certo che no. Perché dovrei preoccuparmene quando sei stato tu ad assumerla? Inoltre, sei tu quello che continua a permettere alla sua stagista di farsi beffe delle sue responsabilità lavorative».

«Forse è il momento giusto per dire che Leslie è un’amica di famiglia? Suo padre ha chiesto un favore e io gliel’ho accordato. Inoltre, ho chiesto a Dean di tenerla d’occhio».

«Ah, quindi fai fare a Dean il lavoro sporco. Ora è tutto chiaro. Si spiega il suo comportamento da stronzo di oggi. Temevo che Prada avesse dichiarato bancarotta».

Kline rise. Buon Dio, quella risata. Era sexy da morire e fece reagire il mio corpo in mille modi indecenti diversi. «Sono quasi triste che tu non abbia messo Leslie sotto Meryl».

«Meryl mi avrebbe tagliato le palle» disse scherzando. «Ho visto quella donna far piangere uomini grandi e cresciuti. Dannazione, persino io mi sono dovuto asciugare delle lacrime immaginarie, qualche volta. E poi, sei stata tu a chiederlo».

Ero a due secondi dal pestarlo per via telepatica quando la sua voce si fece calda e dolce come il miele. «Grazie per aver gestito Leslie. Lo apprezzo, davvero».

Mi ha appena ringraziata? Mi pizzicai il braccio per assicurarmi che non fosse un sogno. «Cacchio, che male» sbottai.

«Va tutto bene?».

«Sì. Ho solo… sbattuto l’alluce» dissi senza pensare. «Allooooora… hai chiamato solo per sapere quanto sia andata male la mia giornata? O c’è un altro motivo?».

«Tanto per iniziare, volevo confermare il nostro appuntamento di domani sera».

Sospirai. «Anche se mi hai lasciata nella cacca senza dimostrare un minimo di rimorso, ci sarò. Ma non credere che sia per la tua presenza, quanto piuttosto per la deliziosa cena di dieci portate in programma».

«Me ne ricorderò». Rise. «E se la cena non è all’altezza dei tuoi standard, mi farò perdonare, promesso. Una cena, ovunque tu voglia. Decidi tu».

«Facile. BLT Prime».

«La steakhouse in Gramercy Park?».

«Esatto».

«Che gusti raffinati». Un fischio basso gli abbandonò le labbra. «Allora affare fatto. Ti ci porto sabato sera».

«Scala la marcia, amico. Non ho ancora accettato un secondo appuntamento».

«Ancora» ribatté, con una nota provocante nella voce. «Non hai ancora accettato. E se ti fa sentire meglio, puoi pensarlo come un accordo, invece di un appuntamento. Una specie di evento a tema “Scusa se ti ho abbandonata con Leslie” ».

Quand’è che aveva rovesciato le carte in tavola? Questo non era il Kline Brooks che conoscevo e a cui ero abituata. Quello era il capo pacato, riservato eppure spesso esigente che faceva in modo di tenermi sempre sulle spine al lavoro. Le nostre interazioni si limitavano a email sbrigative e incontri di lavoro per valutare i miei piani di sviluppo per le strategie promozionali della Brooks Media.

L’uomo scherzoso e carismatico che richiedeva la mia presenza per appuntamenti a cena e senza alcuno sforzo mi faceva eccitare nel suo ufficio era un completo estraneo. Non potevo negare che mi stessi godendo la scoperta di questo suo nuovo lato, ma, santo Dio, mi prendeva completamente in contropiede. Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua, che boccheggiava in cerca di una risposta ugualmente carismatica. E poi, seriamente, quando avevo iniziato a voler apparire irresistibile all’enigmatico Kline Brooks? Mi schiarii la gola. «Signor Brooks, per… perché mi ha chiamata?».

«Signorina Cummings, perché tanta formalità stasera? Pensavo avessimo superato questa fase di cretinaggini».

Probabilmente aveva ragione. Credo fosse avvenuto più o meno quando mi aveva preso per i fianchi e sbattuto contro la sua incredibilmente non professionale erezione nel suo ufficio, due giorni fa. «Va bene, Kline » concordai con una bella dose di impudenza. In ogni caso, preferivo che non mi chiamasse con il mio cognome degno di battutine da scuole medie. «Se non hai chiamato per parlare di lavoro, allora perché?».

«A dire il vero mi servirebbe un favore. Sei impegnata?».

«No, non direi. Sono qui seduta...». Mi fermai, afferrando il telecomando e abbassando il volume. Anche se avevamo deciso di fare a meno delle formalità, non c’era alcun motivo per far sapere al mio capo della mia ossessione per i reality. «Sono qui seduta a leggere delle email».

Lui ridacchiò nel telefono. «Sono sicuro che possono aspettare fino a domani. Sono in una situazione complicata. Potresti accendere la TV sulla ESPN?»

«L’ESPN?».

«C’è la partita della Western University contro New York State. Thatch e io non riusciamo a far partire lo streaming sull’aereo. Devo sapere come sta andando».

Thatcher Kelly, il misteriosissimo consulente finanziario della Brooks Media. Lavorava come professionista autonomo, fornendo consulenze a diverse aziende, o così avevo sentito, ma in ogni caso nessuna decisione dal cospicuo valore in dollari veniva presa senza di lui alla Brooks Media. Avevo sentito la sua voce roca e saggiato la sua personalità esuberante in numerose riunioni telefoniche. Avevo persino ricevuto delle email colme del sarcasmo che era il suo segno distintivo. Ma non l’avevo mai incontrato di persona. Diavolo, non ero nemmeno riuscita a trovare una sua foto. Tutti i suoi social media erano privati e la maggior parte aveva come foto del profilo un’immagine connessa a un qualche tipo di sport.

«Si tratta di vita o di morte, Georgia» disse Kline, strappandomi ai miei pensieri. «Thatch è un fan sfegatato della New York State e io ho puntato cinque bigliettoni sul fatto che i Mustang si sarebbero mangiati le sue Tigri».

Storsi il naso. «Quindi… cosa vuoi che faccia, di preciso?».

«Devi farmi la telecronaca della partita per i prossimi venti minuti, finché non atterriamo».

«Non puoi scocciare qualcun altro? Probabilmente non sono la persona migliore per questo compito». L’ultima partita di football che avevo guardato era stato il Super Bowl in cui il capezzolo di Janet Jackson aveva fatto il suo debutto televisivo e sinceramente avrei potuto descrivervi meglio la sua areola che la partita. Non ci capivo un cavolo di sport, del football in particolare.

«Ti prego, Georgia». Il suo tono era roco, il che mi confuse e mi fece pensare al sesso. «Ti prego».

Non risposi finché non fui sicura che non avrei balbettato. «Ma sei in debito. Un debito bello grosso».

«Saprò come ripagarti, tesoro».

La sua voce era carica della promessa di quel doppio senso, ma io lo ignorai, afferrai il telecomando e cambiai canale. «Ok, ci sono».