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Kline

Confusa e assonnata, Georgia uscì fuori dalla mia camera da letto e barcollò nel corridoio.

La luce del sole investiva le finestre della camera e illuminava da dietro la sua figura sulla soglia. La mia maglietta pendeva dalla sua figura minuta come un’ombra informe e la copriva completamente, ma l’immagine del suo corpo nudo al di sotto era impressa nel mio cervello, dopo averlo avuto a cavalcioni la notte scorsa.

Georgia era stata completamente fuori di testa, fuori controllo e, soprattutto, irresistibilmente adorabile. Georgia era riuscita a dare un’accezione positiva all’espressione “un gran bel casino” e avrei ricordato per tutta la vita i pensieri deliranti partoriti dalla sua mente sotto l’effetto del Benadryl. Giuro, non sapevo se avessi mai incontrato qualcuno più divertente di lei, e ne conoscevo tantissime di persone brillanti e divertenti.

«Mi sento come se mi avessero seppellita viva la notte scorsa e avessi passato le ultime dodici ore a cercare di scavare una via d’uscita dalla fossa».

Mi scusai con un sorriso. Lei si fermò per appoggiarsi al muro all’imbocco del corridoio, portandosi la punta delle dita di una mano alla fronte.

«Non so come scusarmi per la notte scorsa», cominciai.

Ma io non ero dispiaciuto. Non per davvero, almeno. Il mio unico rimpianto era che avrei dovuto portarla in un maledetto ospedale, ignorando le sue proteste. Sarebbe potuto finire tutto molto peggio. La mia educazione cattolica era un po’ arrugginita, ma avrei riesumato il vecchio libro di preghiere per ringraziare il tizio lassù di avermi aiutato in questa situazione.

Un passetto alla volta entrò nella stanza e si accomodò all’altra estremità del divano. Si portò studiatamente le ginocchia al petto, tendendo il cotone della mia maglietta per coprirle.

«Succo di lime del cazzo» borbottò contro le ginocchia, sfregando la pelle delle labbra, ora tornate alle dimensioni normali, sul tessuto morbido prima di alzare lo sguardo su di me. «Scotch e succo di lime? Sul serio? Chi diavolo beve mai quella roba?».

Mi appoggiai al divano, allungando un braccio lungo lo schienale e alzando i piedi sul tavolino di fronte a me per impedirmi di allungare una mano e passarle un dito sulle sue labbra.

«Ernest Hemingway beveva scotch con succo di lime».

Lei si mordicchiò nervosa la pelle guarita da poco e io riuscivo a immaginare cosa pensasse. Stava cercando di capire come si sentisse riguardo all’essersi svegliata qui, con me, e contemporaneamente rifletteva su quanto avevo detto. Il fatto che sapessi una cosa del genere sembrava averla affascinata sul serio, ma era combattuta sul se concentrarsi su questo o no. «Davvero?».

Io risi, spiegandole: «Beh, non l’ho mai visto berlo di persona, ma l’ho letto da qualche parte, una volta, ecco».

Un sorriso le si insinuò agli angoli della bocca e illuminò il celeste dei suoi occhi. Il colore granata della mia maglietta già li metteva in risalto. Spostò lo sguardo dal divano alla cucina, poi fino in fondo al corridoio e ritorno, e chiese: «Che posto è questo?».

Corrugai un sopracciglio, confuso, e cercai di guardare la scena attorno a noi dal suo punto di vista. Ma poi, risposi nell’unico modo possibile: «Uhm, è il mio appartamento».

«Il tuo appartamento?».

«Sì». Scossi la testa. «Perché dici “il tuo appartamento” come se fosse infestato dalle cimici?».

«No!» negò lei con veemenza e sorpresa. «No, è bello. Solo è…».

Il silenzio si estendeva, là dove avrebbero dovuto esserci delle parole.

«È…?» dissi, per esortarla. «Cosa?».

Gonfiò appena le guance, a disagio per via del sapore sgradevole delle parole che aveva sulla punta della lingua; riuscivo praticamente a vederla mentre si figurava in mente, ancora e ancora, la scena di quando le avrebbe dette ad alta voce.

«Georgie . È cosa?».

«Normale ».

Mi scappò una risata. «Sì. Beh, anche io lo sono».

E poi non era così normale, pensai, con una punta di risentimento. Aveva un portiere, che cazzo. Ero uno scapolo. Che diavolo ci avrei fatto con un attico con sei stanze da letto?

Non volevo che Georgia pensasse avessi bisogno di un appartamento grande. Volevo che lei capisse .

«No» ribatté lei. «Tu sei Kline Brooks».

Io scossi la testa, cercando di trovare le parole giuste per descrivere quanto il mio cazzo di nome non significasse niente per me e quanto poco avrebbe dovuto significare per tutti gli altri.

«Fidati di me, quel che il mio nome significa per gli altri non è lo stesso che significa per me, la mia famiglia o i miei amici».

Lei tirò fuori le ginocchia dalla mia maglietta, allungò le gambe lunghe e abbronzate sul divano, verso di me, e incrociò le caviglie. Incapace di resistere, allungai il braccio e appoggiai il palmo della mano sul suo stinco nudo.

Lei osservò il gesto e rimase in silenzio per qualche secondo, prima di alzare di nuovo lo sguardo ai miei occhi. Si sforzava di apparire serena in volto, ma il suo imbarazzo era evidente appena sotto la superfice. Non che lei non volesse il mio tocco, semplicemente si sentiva a disagio perché non se l’aspettava. «E cosa significa per la tua famiglia?».

«Non lo so». Iniziai a frugare nei miei pensieri, in cerca del modo migliore per spiegarmi, ignorando il suo sottile disagio e accarezzando con il pollice la pelle della sua caviglia, distrattamente. «Un ragazzo che mangia più pizza di quanta dovrebbe e ha i piedi sudati e un gatto scontroso che lo odia».

«Miaaaaoooo» si inserì Walter giusto in quel preciso istante, e saltò sul bracciolo del divano spaventando Georgia.

«Oh!».

«Parli del diavolo...».

«Ciao?» disse lei, esitante.

«Walter».

«Ciao, Walter» salutò cinguettando, voltandosi a grattargli la schiena dalla testa alla coda.

Lui iniziò a fare le fusa e a strusciare la testolina contro di lei. «Miaaaoooo».

«Sì, bravo» sbuffai. «Fatti amica la bella signorina. Quanto cazzo sei prevedibile».

«Era qui la notte scorsa?» chiese lei, balbettando.

Mi morsi le labbra per non cedere alla tentazione di scendere nei dettagli. «Uh… sì. Voi due avete parlato un bel po’». Era vero: Georgia e Walter erano diventati amici grazie a una pizza col salame piccante e alle repliche di Friends . Lei gli aveva cantato “Gatto Rognoso” almeno quindici volte.

Quell’altezzoso figlio di puttana aveva fatto le fusa ogni singola volta.

Lei annuì, come se la cosa avesse senso. «Sembra davvero un tipo amichevole».

Io risi sonoramente, sarcastico.

«Forse il problema sei tu» suggerì lei con naturalezza, grattandogli dietro le orecchie come se fossero una coppia di amici avvocati pronti a dare il via al mio processo. «Ti comporti un po’ da stronzo con Walter. Lui risponde a parole gentili e carezze dolci».

«Mi prendi in giro?» quasi gridai, indicando con foga con un dito prima me e poi il mio gatto vecchio e scontroso. «Non sono io lo stronzo! È lui a comportarsi da stronzo! Ho cercato di conquistarlo per settimane. Semplicemente ora tratto lui come lui tratta me».

Walter si rifugiò contro di lei come se fosse spaventato. Brutto piccolo incantatore, falso e truffaldino felino!

«Ooh, non preoccuparti Walter» lo rassicurò Georgia dolcemente, prendendo il suo musetto felino tra le mani e strofinando insieme i loro nasi. «Ti proteggerò io dall’uomo brutto e cattivo». Sul suo viso si dipinse un’espressione di complicità, con un sopracciglio alzato proprio come il mio gatto traditore, mentre incontrava di nuovo il mio sguardo. «So come ti senti. La notte scorsa ha cercato di avvelenarmi!».

«Non l’ho avvelenata» dissi pacato, assecondando per qualche motivo quella folle conversazione. «Ho ordinato lo stesso e identico drink che ordino da dieci anni e poi le ho dato il miglior bacio della sua vita».

Gli occhi scherzosi di Georgia balzarono ai miei e si fecero seri. Forse anche impauriti.

«Non è stato il miglior bacio della...»

«Sì, come vuoi». Con un cenno delle dita la misi a tacere. «Non mentire, Benny. So per certo che è stato il miglior bacio della tua vita».

«E come puoi sapere una cosa del genere?».

«Perché ieri notte me l’hai detto tu stessa».

Lei esclamò per la sorpresa. Walter mi soffiò contro, solidale.

«Proprio prima di baciarmi ancora...»

Le sue guance diventarono rosse per l’imbarazzo, la sua intera postura indicava che era pronta a scappare a gambe levate dal mio appartamento.

Ma io sapevo che c’era dell’altro, per cui decisi di concederglielo, accarezzandole gentilmente con il palmo la gamba dalla caviglia fino al ginocchio. Walter saltò giù dal divano e trotterellò via, in segno di protesta, ma entrambi lo ignorammo.

«Ed entrambi sono stati i migliori baci della mia». Decisi di non soffermarmi sul fatto che oltre a quei baci mi aveva dato molto di più, inclusa una lap dance senza vestiti. Visto il modo in cui le sue guance erano avvampate sentendo parlare dei baci, pensai che il trauma di conoscere il resto l’avrebbe letteralmente incenerita per l’imbarazzo.

Lei aprì la bocca solo per richiuderla immediatamente e si sforzò vistosamente di deglutire. Le lasciai il tempo che le serviva, per elaborare le mie parole e procedere a un confronto incrociato tra di esse e i suoi sentimenti. Io avevo avuto tutta la notte, passata ad ascoltarla e godermi la sua compagnia, per prepararmi al colpo. Lei no.

Proprio quando credetti che fosse sul punto di rispondere qualcosa di sensato, il suo cellulare iniziò a squillare con le prime note di Freak-A-Leek di Petey Pablo.

Era qualcosa di orribile, ma di tenero allo stesso tempo.

Se conoscevo musica del genere era solo merito di Thatch. Era una delle sue canzoni preferite durante i nostri giorni molto più sregolati del post-università.

Lei scattò in piedi in un secondo, mentre il rossore le saliva alle guance per l’imbarazzo.

«Scusa. Sia per la suoneria inopportuna che per l’interruzione...».

«Non preoccuparti» la consolai con un sorriso e un occhiolino. «Pensa se ti avessero telefonato Shonda, Monique e Christina ieri sera al gala benefico. Sarebbe stato molto più imbarazzante». I suoi occhi si spalancarono dallo shock, al mio riferimento al contenuto della canzone.

«A me, non avrebbe dato fastidio più di tanto. In realtà, io punto al sodo » conclusi, prendendola in giro con un’allusione a un altro capolavoro di Petey Pablo e Ciara che ero sicuro avrebbe riconosciuto.

E funzionò: lei rimase sorpresa a tal punto che quasi non riuscì a rispondere in tempo al cellulare in cucina prima che smettesse di squillare.

Io non ero poi un gran mistero, ma lei era convinta che lo fossi.

Visto quanto desideravo la sua compagnia, pianificai di iscriverla a un corso accelerato su Kline Brooks e di non farla andare via finché non avesse imparato a menadito tutto di me.