I preparativi per l’allenamento di rugby del lunedì sera erano in corso, ma la mia mente era ancora concentrata al fine settimana: risate e momenti sexy e un trip a base di Benadryl per superare una reazione allergica. L’insieme di tutte e tre mi faceva sorridere da solo.
Georgia Cummings stava diventando rapidamente una delle mie persone preferite. Mi faceva sentire il re del mondo e il più grande idiota dello stesso, contemporaneamente.
La curiosità riguardo al fine settimana di Rose era la sola cosa che ancora mi impediva di pensare quanto fossi andato vicino a non sperimentare mai tutto ciò che avevo vissuto la settimana precedente. Perché non avrei barattato gli ultimi sette giorni con niente al mondo, nemmeno se fossero finiti di colpo quella sera stessa. Il loro ricordo ne sarebbe valso la pena.
Prendete nota, amici: non bisogna precludersi le possibilità, da qualunque settore della vita arrivino.
Il destino ci regala molte chance, ma sta a noi saperle coglierle.
Un tocco sull’icona riportò in vita l’app TapNext. Una realizzazione mi colse, e mi investì di un inaspettato senso di soddisfazione. Questa cosa era la mia creatura. L’avevo nutrita, fatta crescere nel corso degli anni come un amico fedele. L’avevo guardata commettere errori, imboccare la strada sbagliata lungo il cammino verso la gloria, ma l’avevo riportata sulla giusta via ed ero fiero di ciò che era diventata. Un posto in cui le persone potevano trovare quasi tutto. Un posto in cui chi era fortunato trovava qualcosa per cui valeva la pena, come era successo a me.
Sporco_Ruck (18:15): Ehi, Rose. Sei impegnata? Sono curioso di sapere com’è andato il tuo appuntamento. Non ho avuto occasione di chiedertelo durante il week-end.
Fissai la finestra del messaggio, per vedere se avrebbe risposto. Stavo per arrendermi quando vidi le piccole bolle apparire sullo schermo.
BottoDiRose (18:17): Se evitare di contrarre la peste bubbonica dal passeggero di fianco a me conta come essere impegnati, allora lo sono. Sono sulla metro, sto tornando a casa dal lavoro.
Sporco_Ruck (18:17): E l’appuntamento?
«Metti via il telefono, K. Stanno aspettando solo noi!» urlò Thatch.
Alzai lo sguardo e vidi i capitani delle squadre ancora in mezzo al campo a chiacchierare, ma misi via lo stesso il mio cellulare. Se avessi perso tempo in qualsiasi modo, Thatch avrebbe iniziato a rompermi le palle davanti a tutti. E in quanto mio migliore amico da oltre dieci anni, aveva fin troppe munizioni, con tanto di pistola speciale riservata allo scopo.
Iniziai una corsetta per assicurarmi di scamparla, unendomi al gruppo dei farabutti buoni a nulla che chiamavo compagni di squadra. Non ci servivano sponsor, per ovvie ragioni, ma giocavamo nella divisione in modo onesto, e quindi facevamo sostenere la squadra da varie imprese come tutti gli altri. Io avevo offerto la sponsorizzazione della Brooks Media, ma essendo un sito di incontri uno dei business principali dell’azienda, la mia proposta era stata accolta da enfatici: “Veto!”
Invece, il ristorante di Wes, (S)Porco, un nome del cazzo, visto il successo che aveva, era il nostro sponsor e aveva fatto meritare a tutta la squadra il soprannome di Quegli sporchi ragazzi . Ma visto che tutti pensavano di essere dei burloni del cazzo, come se quel soprannome non fosse abbastanza, io, Thatch e Wes eravamo e saremmo stati per sempre conosciuti come gli Sporchi Miliardari. Non ci saremmo mai scollati quel soprannome. Fidatevi, erano anni che provavo a farlo.
«Ok, noi siamo quelli senza casacca» annunciò John alla nostra piccola mischia, quando tornò dalla discussione con l’altro capitano.
«Merda» disse Thatch a denti stretti, scuotendo la testa sofferente, per qualche motivo.
«Qual è il problema, Thatch?» chiese Wes. «Hai paura che uno dei ragazzi ti strappi via il piercing alla tettina?».
«Ma succhiamelo, Torrence».
«Torrence?» chiesi, sentendo una ruga formarsi tra le sopracciglia.
«Un riferimento a Ragazze nel pallone » spiegò John sovrappensiero, mentre si riscaldava i polpacci portandosi il tallone contro il sedere, come se non fosse per nulla strano che lo sapesse.
Quando spostai la mia espressione incuriosita da Thatch a lui, allora intervenne di nuovo.
«Cosa vuoi? C’è Kirsten Dunst ed è figa da paura». Quando vide che il gruppo era ancora scettico, aggiunse: «E inoltre ho una sorellina».
«E che mi dici di tua sorella, Johnny?» Thatch si inserì con un ghigno.
Gli occhi di John avvamparono per un istante prima di farsi di ghiaccio. «Ha diciotto anni, figlio di puttana».
Thatch si voltò verso di me e io potevo praticamente già vedere cosa sarebbe successo. Lui non aveva alcuna intenzione di trombarsi la sorellina di John. Proprio per niente.
«Cos’ha detto, Kline?».
Thatch sarà anche stato un puttaniere, ma Thatch si scopava donne , non ragazzine che avevano appena iniziato il loro percorso per diventarlo. Voleva solo toccare un nervo scoperto per John, a sufficienza da fargli perdere le staffe. Mi imposi di apparire serio in volto, e trattenere una risata. «Credo abbia detto che ha raggiunto l’età del consenso».
John si scagliò in avanti e, alla fine, non riuscii più a nascondere il divertimento. Gli afferrai la maglietta con entrambe le mani e lo spinsi via per gioco mentre Thatch scoppiava in una risata sguaiata al mio fianco.
«Tranquillo, John» lo ammansì Wes. «Thatch non ha bisogno di tua sorella per aggiungere un altro timbro alla sua tessera fedeltà alla figa. Qui a Manhattan ha tutte le sgualdrine che gli servono».
Thatch emise un verso di disapprovazione. «Non c’è nessuna tessera, Wes. Il mio cazzo non fa offerte speciali da ingrosso».
«Di sicuro però scopa all’ingrosso» si inserì John, impaziente di pareggiare i conti a causa di una lunga faida in corso tra i due. Eravamo tutti uomini adulti, di successo, cazzo, ma a volte era sorprendente quanto fossimo simili a un gruppetto di ragazzine.
«E tu come lo sai, Johnny? Hai messo una telecamera nella mia camera da letto?» ribatté Thatch.
«Ora basta» ordinai, impersonando come al solito il baby-sitter. «Finiamola con i drammi adolescenziali, coglioni. Adesso si gioca a rugby. Concentrate tutte le vostre energie sull’attacco, che palle».
«Sei tu quello che non riesce a fare nemmeno metà campo senza venire placcato e asfaltato per terra» fece notare Wes. Rideva mentre lo diceva, però, mantenendo viva la presa in giro passandomi un braccio attorno alle spalle e accompagnandomi in campo così.
«Almeno io qualche palla la tocco di tanto in tanto» lo stuzzicai di rimando, spingendolo via per poi correre dall’altra parte del campo.
In questo momento della stagione, l’allenamento consisteva soprattutto in mischie chiuse: ci dividevamo in due squadre e cercavamo di battere gli schemi dell’altra. Io ero solo contento che, quando ci dividevamo in due squadre, Thatch di solito era nella mia. Forse si comportava da buffone di tanto in tanto, ma era un figlio di puttana grande e grosso e aveva la fama di causare danni permanenti quando placcava. A me piaceva camminare senza zoppicare e se il mio destino era di sentirmi dire un giorno che non avrei potuto avere figli, di sicuro non volevo che la causa fosse una mutilazione dei testicoli.
Mi riscossi dai miei sogni a occhi aperti non appena la palla mi colpì in petto, un sorrisetto attraversò veloce le labbra di Wes quando vide che il suo passaggio inaspettato era riuscito.
Io iniziai a correre, schivando un difensore e arrivando alla linea di metà campo. Il dolore mi salì all’improvviso dal bacino quando un altro difensore mi placcò con forza. Lanciai la palla obliquamente e all’indietro, l’unica direzione consentita per un passaggio nel rugby, e mi portai le braccia al petto per assorbire l’impatto della caduta senza rompermi un polso.
«Cristo» gemetti, spingendo via Tommy da sopra di me il più in fretta possibile, per tornare in gioco.
«Meno biscotti, Tom!» gli urlai, mentre correvo verso la mischia iniziata dai miei compagni.
«Meno pesi!» urlò lui alla mia schiena. «Quando hai detto biscotti, volevi dire pesi, mi sa!».
E cazzo, da come mi pulsava la milza, Tommy non aveva forse tutti i torti. Mi lanciai a peso morto sulle spalle unite di Thatch e Wes, spingendoli in avanti verso la palla a terra e aiutando il gruppo a prendere lo slancio nella lotta controcorrente contro i difensori. Thatch lottò per il possesso palla davanti a me e così facendo quasi mi fece arrivare un gomito in faccia.
Il rugby era uno sport duro e quando mi sembrava che stessi per sputare fuori un organo interno, o un arto mi doleva al punto da farmi pensare si stesse per staccare, mi chiedevo perché lo facessi.
Ma poi mi ritrovai di nuovo con la palla tra le braccia, lanciatami di nascosto da sopra la spalla da Thatch, e mi ricordai il perché senza ombra di dubbio: l’adrenalina, il brivido, scaricare senza alcun freno tutta la tensione della settimana, tutto lo stress, la rabbia. Ero convinto che un allenamento extra di rugby non solo mantenesse in forma perfetta il mio corpo, ma manteneva anche la mia mente calma ed equilibrata. Potevo solo sperare che, quando la mia salute fisica avrebbe iniziato a peggiorare per via dell’avanzare dell’età, anche il mio bisogno di sfogarmi sarebbe diminuito di pari passo.
Il peso di tre corpi si abbatté su di me improvvisamente mentre superavo la linea di meta, ma Thatch me li levò di dosso in un niente, per festeggiare il successo dell’azione. Mi ero a malapena rimesso in piedi quando iniziò la coreografia: Thatch sparava colpi dall’inguine come se fosse una semiautomatica, i nostri compagni di squadra assecondavano la sua buffonata cadendo a terra uno per uno mentre lui sparava “colpi” su “colpi”. In quanto realizzatore della meta, ero l’unico che meritava il privilegio di restare in piedi. Risi e diedi il cinque ai miei compagni di squadra, prima di attraversare di corsa il campo per rifare tutto da capo. L’allenamento era appena iniziato e ora che avevo segnato un punto ero pronto a essere maltrattato ancora.
Mi affrettai a salire nella carrozza della metropolitana prima che partisse, infilandomi tra le porte appena in tempo. Non ci vedevo dalla fame e non vedevo anche l’ora di arrivare a casa: riuscivo solo a pensare a rientrare, farmi una doccia e ordinare una pizza. Mentre il mio stanco sedere toccava la superficie del sedile, dedicai un momento per ringraziare dell’assenza di donne incinte e anziani. Ero distrutto, ma non ero uno stronzo. Il resto di questa gente, però, se la sarebbe dovuta cavare da sola. Mi ripulii il volto dalle ultime tracce di sudore e fango rimanenti con un asciugamano ed estrassi il cellulare dalla sacca.
Un messaggio mi aspettava da prima.
BottaDiRose (18:18): Ah! L’appuntamento. L’appuntamento è stato fantastico. E poi è stato davvero traumatico.
Sporco_Ruck (19:25): Traumatico??? Devo andare a cercare questo tizio?
BottaDiRose (19:54): No, lui è fantastico, lo giuro. Non è stato traumatico per colpa sua. Lui è… non lo so, Ruck. Ho una strana sensazione, l’istinto mi dice che lui è un qualcosa di meraviglioso, come quella vecchia canzone, Some kind of wonderful.
Gli angoli della mia bocca iniziarono a incurvarsi: un qualche tipo di relazione strana, non convenzionale ma significativa stava nascendo tra noi e questo instillava in me una sincera felicità. Ma prima che il sorriso mi si potesse formare del tutto sul viso, un’ondata di totale incredulità delle proporzioni di uno tsunami si abbatté su di me: le nostre passate conversazioni, le cose che lei mi aveva detto. Le relazioni sul posto di lavoro e la conversazione impacciata ma in un certo senso anche naturale. Il modo in cui Rose, nonostante la mia infatuazione per Georgie, riusciva a farmi sentire.
Niente di tutto quello aveva senso, neanche un singolo frammento, finché a un tratto, ebbe un senso, eccome.
Impossibile, cazzo.
Le porte della metropolitana si aprirono e io non esitai nemmeno, mi feci largo spingendo tra la massa di persone senza scusarmi o sentirmi in colpa. Non sapevo nemmeno a che cazzo di fermata fossimo, ma corsi su per le scale in uno slancio sfrenato, salendo i gradini a due a due e raggiungendo la cima con un balzo.
I newyorchesi sbuffavano e si levarono di mezzo di corsa, fulminandomi con sguardi torvi, di disapprovazione. Il giallo di un taxi brillò come un faro davanti ai miei occhi.
Io corsi verso di esso senza fermarmi un attimo né preoccuparmi di quanto avessi intorno. Il cuoio spesso di una borsetta poteva aver sfiorato la mia spalla con un colpo di striscio, ma non mi importava. Le parole mi rimbombavano in testa al ritmo del ricordo del battito del suo cuore, mi ronzavano nel cervello in un brusio sempre più assordante finché non riuscii più quasi a sopportarle. L’incertezza, l’improbabilità della cosa, erano troppo.
«Winthrop Building, il più in fretta possibile» ordinai brusco al tassista, ma lui non batté ciglio di fronte alla mia richiesta rude; grugniti e comandi erano nella natura di oltre metà New York.
Giunti a destinazione, frugai nella sacca alla ricerca del portafoglio ed estrassi la prima banconota che mi capitò a tiro. La spinsi in fretta per farla cadere attraverso la finestrella di plexiglas e saltai fuori dall’auto mentre ancora lo stridio delle gomme risuonava in aria.
I piccioni volavano via spaventati e la gente si scostava mentre io avanzavo zigzagando tra la folla; una donna suonava la sua chitarra all’angolo. Il palazzo era aperto solo durante l’orario d’ufficio, ma in quanto CEO conoscevo il codice di accesso della porta principale e non avevo bisogno delle chiavi. Fino a quel giorno avrei potuto onestamente affermare che non mi ero mai introdotto nel mio palazzo in questo modo.
Dopo aver nervosamente chiamato per sedici volte l’ascensore, inserito un altro codice e aver atteso impaziente la fine della corsa, misi piede al quindicesimo piano sudato fradicio e marciai direttamente verso l’ufficio delle risorse umane.
Le luci erano abbassate e, ancora una volta, mi trovai di fronte a una porta chiusa: quella dell’ufficio di Cynthia. Ma niente avrebbe potuto fermarmi a quel punto: né una porta e men che meno i miei principi morali. Corsi nel mio ufficio quasi con uno sprint e iniziai a frugare nella mia scrivania, aprendo di scatto i cassetti uno per uno alla ricerca del mio passe-partout, che apriva tutte le porte degli uffici individuali. Non lo usavo da anni, per cui dovetti rovistare a lungo tra mucchi di cose inutili prima di trovarlo.
Priorità di domani: riordinare la mia scrivania. Urgentemente.
Tra le dita, ancora sporche di residui di fango del campo sotto le unghie, stringevo forte il passe-partout e corsi di nuovo lungo il corridoio.
Un giro, un clic , ed entrai, per trovarmi ufficialmente a un passo dal violare una mezza dozzina di leggi sulla privacy.
Tirai un sospiro di sollievo quando il cassetto dello schedario si aprì senza problemi, al che scoppiai a ridere come uno squilibrato, prima di iniziare a biascicare tra me e me: «Cazzo, naturalmente non è chiuso a chiave. Non è che Cynthia si aspettasse che un cazzo di psicopatico le entrasse di nascosto nell’ufficio e iniziasse a frugare ovunque».
Come ali svolazzanti, le mie dita volarono a sfogliare le varie etichette, consapevole che Cynthia seguiva un rigido sistema di archiviazione. Non c’era mai niente fuori posto o in disordine e trovarlo sarebbe stato abbastanza facile.
La sfida consisteva nell’individuare le parole esatte con cui era stato etichettato, ma meno di cinque minuti stavo estraendo l’oggetto della mia ricerca dal suo posto e lo stavo spalancando.
Seguendo con il dito le file di nomi di impiegati, iniziai a scorrere lungo la pagina, mormorando i vari cognomi finché quello che cercavo non spiccò distintamente ai miei occhi.
«Cummings, Georgia». Iniziai a far scivolare il dito di lato, come in un sogno al rallentatore, fino a che le parole nella colonna accanto non decretarono il mio destino in un inequivocabile grassetto.
BottaDiRose.
Come recitava la canzone, Un qualcosa di meraviglioso, cazzo.