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Georgia

Gary cliccò e passò alla successiva diapositiva di PowerPoint, sostenendo qualcosa riguardo il rapporto costi-benefici di bla bla bla…

Arrivati a quel punto, chi poteva sapere di cosa stesse parlando? Eravamo in riunione da oltre due ore e io ero a un passo dal perdere la calma.

Il mio stomaco espresse la sua irritazione con un brontolio.

Lanciai un’occhiata al mio orologio e vidi che erano le tre e cinque, il che significava che ero in ritardo di cinque minuti per il mio appuntamento con la mia dose quotidiana di zuccheri. C’erano uno yogurt greco e un pezzo avanzato di cheesecake alla ciliegia che mi aspettavano con ansia nel frigo della sala caffè. Conclusione: qualcuno doveva mettere fine alla riunione o io avrei messo fine alla vita di Gary.

Era giovedì pomeriggio ed erano passati cinque interi giorni dalla mia ultima vera interazione personale con Kline. Ci eravamo scambiati molti messaggi, ci eravamo ritagliati qualche minuto per chiacchierare e dirci ciao qua e là, e avevamo persino pranzato insieme un paio di volte, ma lui era sommerso di lavoro e di impegni e io ero ancora determinata al cento per cento a mantenere rapporti puramente professionali in ufficio. Tutte queste piccole stupidaggini insieme avevano messo la parola fine alle possibilità di trascorrere qualche momento significativo da soli. E, lasciatemelo dire, il ricordo del week-end passato aveva portato la mia trepidazione a livelli stellari.

Gary si trascinò fino al portatile, e iniziò a premere dei tasti. Si muoveva come una tartaruga. Quando si parlava di numeri era un genio, ma quando si trattava di cogliere i segnali nelle interazioni sociali, era un vero idiota. Mentre tutti nella stanza erano sul punto di sprofondare in coma e andare a sbattere di faccia sul tavolo, lui sembrava credere avessimo tutto il tempo del mondo per parlare di altri maledetti numeri.

Stavo per darli io, i numeri.

«E se mi concedete solo un minuto…» esordì con il fiatone, leccandosi le labbra e continuando a cliccare, «…vi mostrerò un’altra tabella che documenta la nostra efficacia nell’identificare le nostre percentuali target nell’ultimo trimestre».

Cristo, chiamami a te, ora .

Il mio stomaco ruggì d’impazienza. Avevo i crampi per la fame. Crampi violenti, e rumorosi. Non so come gli altri facessero a non sentirli sovrastare il monologo di Gary.

La notifica di un messaggio lampeggiò, attirando la mia attenzione.

Kline: Era il tuo stomaco, Cummings?

Ok. Chiaramente, qualcuno li aveva sentiti.

Quell’affascinante bastardo era seduto di fianco a me. A dire il vero, non capivo perché si torturasse con questa riunione. Riguardava solamente il mio team del marketing. Lanciai un’occhiata a Kline con la coda dell’occhio, grattandomi un lato del volto con il medio. Il suo corpo tremò visibilmente per lo sforzo di dissimulare una risata.

Io: Sono le 15:05, Brooks.

Kline: Ah, giusto, l’ora dello spuntino di Georgie. Come ho potuto dimenticarmene?

Io: Non lo so, ma se la riunione non termina presto, pugnalerò Gary con la mia penna.

Lottando contro un sorriso, annuì impercettibilmente per segnalarmi che aveva capito mentre posava il cellulare sul tavolo. I miei occhi risalirono lungo i suoi avambracci: maniche arrotolate, muscoli tonici e vene spesse in bella mostra. Come si dice, Signore, pietà . Se non fossi stata così maledettamente affamata, sarei rimasta seduta volentieri per tutta la riunione ad ammirare quelle braccia magnifiche. Erano una fulgida deliziosa di muscoli virili.

Gary ridacchiò, a quanto pare si divertiva anche da solo. La sua voce monotona penetrò nei miei sogni a occhi aperti sugli avambracci di Kline, facendo scoppiare ufficialmente la mia bolla di sogno a tema Brooks Ce l’ho grosso .

Tamburellai la penna sul blocco note. Taci, Gary. Ora.

Kline capì che era un avvertimento. Sulle labbra gli apparì un sorrisetto riservato, i suoi occhi si corrugarono agli angoli. Dio, i suoi occhi, erano di un azzurro puro, così chiari, così vibranti. Azzurri come il cielo del Montana.

Trovare analogie per gli occhi di Kline era diventato un gioco per me. Le sue iridi costantemente mutevoli potevano essere colore del cielo del Montana un giorno, o come oggi, azzurro M&M’s. Ma questo più che altro aveva probabilmente a che fare col fatto che fossi sul punto di morire di fame.

Mmmmmh, M&M’s. Avrei divorato un intero sacchetto di quelle delizie ricoperte di cioccolato.

«Ottimo lavoro, Gary» lo interruppe Kline dopo qualche secondo. «Credo siamo tutti d’accordo che oggi abbiamo appreso qualcosa di prezioso dalle proiezioni della Brooks Media per l’anno fiscale».

Nella stanza annuirono tutti, con troppo entusiasmo.

Lo sapevo che non ero l’unica che stava morendo lentamente a ogni diapositiva di PowerPoint che Gary il Simpaticone faceva passare sullo schermo.

Gary fece per rispondere, ma Kline si alzò dalla sua sedia. «Per favore, invia i materiali al resto del team. In questo modo, tutti i dipartimenti della Brooks Media potranno vedere il loro contributo a un altro trimestre di successo».

«Oh, ok, ma...»

«Davvero, Gary, ottimo lavoro». Kline gli diede una pacca sulla spalla, senza cedere di un millimetro. «Credo di poter annunciare la conclusione di un’altra riunione fruttuosa».

I miei colleghi sparirono più in fretta degli scarafaggi quando veniva accesa la luce. Io seguii il loro esempio, appena mi resi conto che Kline sarebbe rimasto incastrato con Gary per ancora qualche minuto. Il mio stomaco non poteva aspettare ancora. Praticamente correndo, arrivai nella sala ristoro, prontissima a sbranare i miei snack. Avrei iniziato con lo yogurt passando poi alla cheesecake? O avrei ceduto e avrei sbranato prima la cheesecake?

Il mondo era pieno di possibilità, baby.

«Oh oh» annunciò Dean, uscendo dalla sala ristoro. «Sono le tre e un quarto e Georgia non sta mangiando?» mi sfotté, spostando platealmente lo sguardo tra me e il suo orologio.

«Sì, Gary il Simpaticone ha provato a ucciderci annoiandoci a morte coi suoi numeri durante la nostra riunione trimestrale del marketing. Se Kline non l’avesse interrotto, credo che avrei iniziato una rivolta».

«Scusa se te lo dico, dolcezza, ma dentro la situazione non è tanto migliore. La nostra Gola Profonda è in pausa selfie e sta provando quanto giù riesce a infilare il cucchiaino con cui si ciuccia lo yogurt per qualche like su Instagram».

Gemetti.

«Tieni la testa bassa, evita il contatto visivo e dovresti cavartela». Mi rivolse un sorrisetto compiaciuto e mi mollò una pacca sul sedere mentre mi superava, poi sparì nel corridoio.

Leslie era seduta a un tavolo della stanza, intenta a fare esattamente ciò che Dean mi aveva anticipato: un selfie mentre teneva il cucchiaino in bocca.

Probabilmente si poteva descrivere la sua vita con una serie di hashtag.

Hashtag, il mio cucchiaino è così sexy.

Hashtag, le mie labbra attirano i ragazzi come mosche sul miele.

Hashtag, il mio scopo nella vita è fare la rizzacazzi.

«Ehi, Leslie» le lanciai un saluto da sopra la spalla mentre mi dirigevo verso l’oggetto più importante della stanza: il frigorifero.

«Ommioddio! Cioè, non crederai mai a quanto sono adorabili le persone».

Il telefono mi vibrò in mano. Pensando potesse essere Kline che mi implorava di salvarlo, diedi precedenza al cuore rispetto allo stomaco e mi fermai a controllare. Non era un messaggio di Kline, ma l’icona di TapNext era illuminata per un messaggio di Ruck. Mi aveva scritto una costante valanga di messaggi da lunedì sera e dovevo ammettere che riusciva sempre a divertirmi.

Sporco_Ruck (15:11): Lucertole o uccelli?

Lucertole o uccelli? Gesù.

Quel bastardo sadico mi aveva convinta a stare a questo giochetto perché aveva cominciato con scelte normali. Cuscini o coperte, caramelle o pizza: si divertiva da matti a chiedermi cosa avrei preferito avere nel letto con me. Puoi sceglierne solo una , aveva detto. Davanti a una scelta del genere, decidere era arduo, ma per tutt’altre ragioni.

BottaDiRose (15:11): Nessuna delle due, pazzo scatenato.

Il mio stomaco brontolò, ricordandomi che non avevo tempo in quel momento per Ruck e i suoi indovinelli casuali che usava per conoscermi meglio.

Aprii il frigo, e iniziai a cercare il mio bottino. Non risposi a Leslie, sapendo che avrebbe solo parlato a vanvera. Se Gary era l’esempio perfetto di qualcuno che non sapeva leggere i segnali del corpo di chi aveva di fronte, Leslie lo era di qualcuno a cui di quei segnali non importava affatto. Nella sua mente ossessionata da hashtag e selfie tutti volevano stare a sentire cosa lei avesse da dire.

Porca miseria, dov’è il mio cibo?

«Dico davvero» mi disse lei, fregandosene completamente del mio significativo silenzio di due minuti. «Le persone sono davvero adorabili, cioè. Ho appena mangiato un panino al tacchino di nome Gary e ora mangio uno yogurt che si chiama Georgia».

Io mi arrestai di colpo nella mia rovistata e mi rialzai lentamente, guardando Leslie in cagnesco da sopra lo sportello del frigo.

Il suo sorrisetto in risposta mi confermò che i miei occhi non sparavano raggi inceneritori.

«Non è davvero adorabile?». Alzò il vasetto di yogurt mezzo mangiato. Il mio vasetto di yogurt mezzo mangiato.

«Le persone danno nomi al cibo nella sala ristoro. Cioè, forte. Totalmente adorabile». Tornò ad avvolgere le sue labbra gigantesche attorno al cucchiaino con cui si portava alla bocca il mio cazzo di yogurt.

Doveva essere veramente poco salutare voler uccidere due colleghi nello stesso giorno.

Feci un profondo respiro, contai fino a dieci a mente.

Uno, non ammazzare Leslie.

Due, non ammazzare Leslie.

Tre, non ammazzare Leslie.

Quando arrivai a dieci, le mani non mi prudevano più dalla voglia di accoltellarla. «Ehi, Leslie?» chiesi a denti stretti.

«Uh-huh?» rispose con la bocca piena di yogurt.

«Senti, il panino chiamato Gary era in realtà il panino al tacchino di Gary. Ci aveva scritto sopra il suo nome perché gli altri non se lo mangiassero».

Lei inclinò la testa di lato, come un cucciolo confuso. «E lo yogurt di nome Georgia?».

Resistetti all’impulso di urlare; inspirai ed espirai, presi un’altra calmante boccata d’aria. «Lo yogurt non si chiama Georgia. Ci ho scritto sopra il mio nome perché l’ho portato io. È il mio yogurt e avevo intenzione di mangiarlo oggi».

Lei mi fissò, il suo cervello delle dimensioni di un pisello lavorava a tutta birra per processare le mie parole.

Gli ingranaggi giravano; piano, ma giravano.

«Oooh , scusami». Mi porse il vasetto di yogurt mezzo mangiato. «Tieni, puoi finirlo. Il panino al tacchino mi ha già riempito, per non parlare del pezzo di cheesecake alla ciliegia».

Aspetta un secondo…

Il pezzo di cheesecake alla ciliegia?

Lanciai un’occhiata omicida all’idiota frega-cibo lunga un intero minuto prima di girarmi e puntare alla porta.

«Allora, cioè, lo finisco io, lo yogurt, ok, Georgia?». Fu l’ultima cosa che sentii mentre uscivo pestando i piedi dalla saletta ristoro, e puntavo dritta all’ufficio di Kline. Dal momento che l’aveva assunta lui, pensavo sarebbe stato cortese avvisarlo che il servizio delle pulizie avrebbe dovuto imparare a ripulire una scena del crimine.

La sua porta rimbalzò con fragore contro la parete. Kline alzò un sopracciglio, con espressione confusa ma incuriosita, da dietro la grande scrivania di mogano. «Va tutto bene?».

«Per niente». La porta si chiuse sbattendo, per cortesia del tacco a spillo al mio piede. «Non va bene per un cazzo».

Aggirai la sua scrivania e piantai il sedere sul bordo, costringendolo a spostarsi all’indietro con la sedia per lasciare abbastanza spazio a me e alla rabbia furente.

«Ho bisogno del numero del servizio pulizie. Stasera dovranno portare un sacco per cadaveri. Ho pensato fosse carino avvisarli».

«Un sacco per cadaveri?».

Annuii. «Per Leslie».

Lui aggrottò la fronte, ma immagino che l’apprensione facesse questo effetto alle persone. «Come, scusa?».

«Lei sta bene» lo rassicurai. «Beh, per ora. Tra poco non starà bene per niente».

Lui piegò il capo. «Cosa le succederà, tra poco?».

«L’ammazzo».

«C’è qualche motivo specifico per cui pianifichi il suo omicidio?».

«Si sta mangiando il cibo di tutti, compreso il mio! Si è mangiata la mia cheesecake e il mio maledetto yogurt!». Sbracciavo come una pazza, agitando qua e là le mani. «E sai perché lo sta facendo?».

Kline scosse la testa. C’era un accenno di sorriso che gli aleggiava sulle labbra. Io gli puntai contro l’indice: «Farai meglio a non sorridere in questo momento».

Lui alzò le mani. «Non me lo sognerei nemmeno. Sto prendendo la questione molto seriamente». Storse la bocca da un lato, cercando di nascondere un altro sorrisino, e il suo tono divenne talmente diplomatico da risultare quasi offensivo. «Perché Leslie mangia il cibo di tutti?».

«Perché pensava che le persone fossero cioè, così adorabili tanto da dare un nome al proprio pasto».

I suoi occhi azzurri si accesero di ilarità. «Leslie non ha capito che i colleghi scrivono il proprio nome sul cibo per indicare che è loro?».

«Oggi si è sbafata un panino al tacchino di nome Gary. E uno yogurt e un pezzo di cheesecake di nome Georgia, maledizione. Pensava che fosse cioè, la cosa più adorabile di sempre che i suoi colleghi dessero dei nomi al cibo. È troppo scema per vivere. Letteralmente».

Vidi l’istante stesso in cui non riuscì a trattenere la sua risata. Un sorriso aveva infranto tutte le sue misure di sicurezza e si era impossessato del suo intero volto: occhi, labbra, guance erano tutte preda dell’ilarità. Come una pentola in ebollizione, una risata si fece strada su per la sua gola e gli uscì dalle labbra, avvolgendomi con la sua vibrazione. Se non fossi stata tanto incazzata, avrei forse riconosciuto la capacità di questo suono di farmi eccitare.

«Non fa ridere! La tua stagista è un’imbecille! Non fa che farsi selfie e mangiarsi il mio cibo! Perché non l’hai ancora licenziata?».

«Piccola» disse lui, con voce smielata e condiscendente. «È solo una stagista. Quanto mai posso pretendere da lei? Non costa nulla alla compagnia».

«Non costa nulla!» avevo quasi strillato. «Mi è appena costata la mia maledetta cheesecake!».

Kline scosse la testa, sorridendo, e iniziò a girare la sua sedia di cuoio nella direzione opposta, lontano dai miei occhi fiammeggianti, ma io fui più veloce e gli saltai quasi addosso. «Non ci pensare neanche!».

Mani forti mi afferrarono per i fianchi e finirono il lavoro.

In un istante, la risata era sparita, lasciando al suo posto un’espressione di puro, genuino desiderio. Per due giorni ci eravamo praticamente insinuati l’uno nell’altra, tanto il nostro contatto fisico, ma ormai era passato parecchio tempo da allora.

Per qualche momento non facemmo altro che guardarci. Io ero seduta a cavalcioni in grembo a Kline, le sue cosce muscolose costringevano le mie gambe ad aprirsi quanto bastava. Solo qualche misero centimetro mi separava dallo scoprire se fosse tanto eccitato quanto lo ero io. E a giudicare dallo sguardo sul suo volto, se avessi premuto il bacino sul suo, sarei finita dritta su una mina fallica.

«Un dessert di nome Georgia?». Mi accarezzò il lembo di pelle scoperto appena sopra la gonna. Le sue labbra erano vicine al mio orecchio. «Sono sicuro che non riuscirei a impedirmi di divorarlo ».

Oh, mio... Le sue mani sparirono sotto la mia gonna lunga e vaporosa e mi afferrarono il sedere, tirando dalle natiche per spalancarmi ancora di più per lui. Solo un minuscolo pezzo di pizzo separava il tocco delle sue dita dalla mia pelle nuda. Il bacino di Kline iniziò a strusciarsi contro il mio e dovetti inghiottire il gemito che minacciava di scapparmi dalle labbra. Lui lo voleva tanto quanto me. La prova era dura e pronta, e tra le mie cosce.

Il mio respiro si fece ansimante, il cuore mi martellava nel petto.

Adoravo scoprire questo suo lato. Il CEO tutto lavoro e completi Armani che si scatenava e perdeva il controllo con me . Il suo lato riservato cedeva il passo a un uomo governato da passione e desiderio. Mi sentivo possessiva, volevo essere l’unica donna a fargli questo effetto.

Avrei dovuto essere atterrita dall’idea che qualcuno entrasse nel suo ufficio e ci trovasse in quella posizione precaria, ma riuscivo solo a pensare che desideravo si spingesse ancora di più contro di me, con più forza, con più violenza. Buon Dio, volevo di più. Molto, molto di più.

Le sue labbra si spostarono dal mio orecchio alla mia mascella, in quel punto del mio collo tanto sensibile da farmi arricciare le dita dei piedi. I suoi denti graffiarono con delicatezza la vena pulsante lì, e un brivido mi scivolò lungo la schiena. Se continuava così, avrei finito per fare qualcosa che non avrei dovuto. Tipo abbassargli la zip dei pantaloni e offrirgli la mia verginità come tributo.

Torna in te, Georgia.

«Kline? ».

«Non ti preoccupare» mi sussurrò contro la pelle. «Non lascerò che la situazione ci sfugga di mano».

Ma non sciolse il nostro abbraccio. No. Fece l’esatto contrario.

Mi baciò con decisione, si immerse tanto in profondità da marchiarmi, mentre le nostre lingue si intrecciavano in un inferno di brama e bisogno e folle desiderio. Infilò una mano sotto la mia camicetta e il reggiseno, e sfiorò il mio capezzolo con il pollice.

Io gemetti nella sua bocca, mordendogli il labbro inferiore.

«Cazzo» sospirò lui, continuando a coprire il mio seno con la mano.

Io succhiai la sua lingua mentre i miei fianchi si muovevano in cerchi sopra il suo grembo, gustandosi il contatto del suo uccello premuto contro la mia fica. Anche se eravamo entrambi completamente vestiti riuscivo a sentire praticamente ogni centimetro di lui. E, dannazione, erano davvero tanti.

Ebbe uno spasmo verso l’alto e la mia fica si strinse in una vuota agonia.

«Oh, sì, sì, Kline, sì» sussurrai, inarcando la testa all’indietro.

I nostri respiri ansimanti e lussuriosi erano i soli suoni che riempivano le quattro mura del suo ufficio.

«Mi stai facendo impazzire». La sua mano coprì la mia, e la guidò in basso per farmelo prendere in mano da sopra i pantaloni. «Non sai quanto ti desideri».

L’autocontrollo era completamente sparito e io iniziai a slacciargli la cintura, con le dita che scivolavano contro il duro metallo della fibbia. Contava solo una cosa: toccarlo. Toccare più di lui. Toccarlo tutto . Volevo Kline duro e pronto e nudo tra le mie mani bisognose.

«Signor Brooks, il suo appuntamento delle quattro è arrivato. Devo dirgli di ripassare?» la voce di Pam echeggiò dall’interfono.

Ci gelammo, colti di sorpresa dall’interruzione.

«Cristo» borbottò Kline, con gli occhi serrati e la fronte premuta contro la mia.

Le mie guance si accesero di un rosso da far paura, una volta realizzata la situazione. «Forse… forse è meglio che me ne vada» balbettai, cercando di scollarmi da lui.

«Aspetta». Mi prese i fianchi, fermando il mio gesto. Si sporse in avanti, per premere il dito sul pulsante dell’interfono e rispondere: «Dammi solo un minuto, Pam. Sto finendo di firmare dei contratti per Georgia».

Ero grata che lui avesse ancora abbastanza sangue al cervello per pensare a una scusa per giustificare la mia presenza lì. Dire a Pam che gli serviva un minuto per togliersi da sopra il pisello la sua Direttrice del Marketing non era la migliore prospettiva per nessuno dei due.

«Ehi» disse prendendomi il volto tra le mani. «Resta tranquilla».

«Sono calma».

«Ne sei sicura?» sogghignò. «Perché hai proprio lo sguardo di chi è stato preso con le mani nel pacco ».

Lo guardai in cagnesco. «Non ti sto guardando in quel modo».

La sua espressione imitò la mia, a occhi spalancati, poi mutò in un sorrisetto provocante.

«Scusami se l’idea che qualcuno entri e ci trovi qui a darci dentro come due adolescenti arrapati mi fa agitare un tantino. Per rimanere in argomento, dovresti proprio lasciare che mi alzi».

Lui mi accarezzò il sedere. «Solo se prometti di farmi finire il mio dessert più tardi».

Buon Dio, ma cosa cercava di farmi? Non riuscii a nascondere un sorriso. «Sei nei guai. Sei nei guai fino al tuo bel collo del cavolo». Gli diedi una spinta sul petto e mi tirai su dal suo grembo. Sistemandomi i vestiti, abbassai lo sguardo sul suo aspetto tutto scarmigliato. «E tu hai un’aria ridicola. Come se fosse entrata una donna e avesse iniziato a sbranarti con del rossetto rosso». Le mie labbra cremisi gli avevano lasciato impronte sul volto e sul collo.

Era assurdo, ma più di tutto era maledettamente sexy.

Lui si alzò, scoccandomi quel suo sorrisetto sexy e compiaciuto mentre gli ripulivo con le dita le sbavature di rossetto. Gli aggiustai la cravatta e conclusi con una pacca sul petto. «Non lavorare troppo duramente, signor Brooks».

Mi girai verso la porta, e lui ne approfittò per mollarmi una sculacciata sul sedere, strappando così dalle mie labbra traditrici un gridolino compiaciuto.

«Non preoccuparti, conserverò delle energie per dopo, signorina Cummings».

Che Bastardo oltraggiosamente sexy. Mi avrebbe portata alla tomba, ne ero sicura.

«Aspetta». Mi afferrò prima che potessi fare un altro passo, attirandomi a lui, con la schiena contro il suo petto. Sul collo sentivo il calore del suo respiro. «Non ti permetterò di lasciare quest’ufficio finché non accetterai un secondo appuntamento. Nel fine settimana».

«Tipo l’intero fine settimana?».

«Vieni negli Hamptons con me».

«Hai una casa negli Hamptons?» chiesi, poi realizzai quanto fosse stupida la mia domanda. Kline non era un uomo a cui piaceva ostentare, ma aveva guadagnato più soldi con un solo affare di quanti altra gente guadagnava in tutta la vita. Che cavolo, avrebbe potuto mollare il lavoro oggi stesso e non avrebbe avuto preoccupazioni per il resto della vita.

«Sì, piccola». Mi baciò il collo, stuzzicando la pelle sensibile con le sue labbra. «Allora, vieni?».

Mi voltai nel suo abbraccio, sollevando lo sguardo ai suoi occhi. Era il Kline professionale con un tocco sfrenato e arruffato residuo del nostro incontro dietro la sua scrivania di poco fa. L’adorabile sorriso che gli inarcava gli angoli della bocca mi spinse a ricambiarlo a mia volta. «E io cosa ci guadagno?» chiesi, scherzosa.

Il suo sorrisetto si fece più ampio. «Vuoi i termini e le condizioni per una gita nel week-end a cui ti chiedo di partecipare?».

Annuii. «Proprio così».

«Quando si parla di affari, sei proprio uno squalo». Mi baciò la fronte, ridacchiando contro la mia pelle. «Mi assicurerò che sarà un’esperienza piacevole per te. Così piacevole che, vedrai, vorrai una rivisitazione degli avvenimenti nella mia stanza da letto… e nella piscina. Chissà, magari sarà come le due messe insieme».

«Prepara una bozza del contratto ma, ricordati, pretendo che questi termini siano rispettati».

«È un piacere fare affari con te, Cummings».