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Kline

Quando il GPS segnalò che mi trovavo a due isolati dall’appartamento di Georgia, venerdì sera, accostai e spensi il motore della macchina. Il mio cellulare aveva appena vibrato nel porta bicchieri, per un messaggio, e sapevo che non sarei riuscito a rispondere una volta in compagnia di Georgia. Ignorai l’accecante icona rossa sull’icona delle email, oltrepassandola con il pollice per atterrare invece sull’icona di TapNext.

BottaDiRose (19:04): SARÀ QUI A MOMENTI, CRISTO SANTO. CALMAMI IN QUALCHE MODO PRIMA CHE MI VEDA E SCAPPI A GAMBE LEVATE NELLA DIREZIONE OPPOSTA.

Il sorriso mi schiacciò, le mie risatine rimbalzavano nell’interno riecheggiante della mia auto, altrimenti vuota. Ma quanto era adorabile? Quasi non riuscivo a sopportarlo.

Sporco_Ruck (19:06): Calmati, tesoro. Intanto, iniziamo a eliminare le maiuscole urlanti.

BottaDiRose (19:07): CAZZO CAZZOSO DI CAZZONI. Ok. CAZZO. Ok, ora mi è passata. Passiamo alla fase due (le rassicurazioni).

Mi morsi il labbro e scossi la testa, con un sorriso da folle.

Sporco_Ruck (19:08): Ottimo lavoro. E che imprecazioni creative.

BottaDiRose (19:08): Comincio a innervosirmi di nuovo, Ruck.

Sporco_Ruck (19:09): Ok, ok. Rassicurazioni. Ricevuto. Il tipo ti parla ancora dopo che avete passato tutto quel tempo insieme lo scorso week-end e ti ha invitata a una gita fuori porta, no? Sembra abbastanza intelligente da apprezzare un po’ di sano nervosismo. Andrà tutto bene.

Ok, ragazzi. Lo so. Vi sento, lì a giudicarmi. Ma, parliamone.

Sapevo che non era carino non averle detto che ero venuto a conoscenza del fatto che lei era Rose e che io ero Ruck.

Lo sapevo davvero, credetemi. Era passato qualche giorno da quando l’avevo scoperto e avrei dovuto dirglielo immediatamente.

Ma Cristo, per quanto fosse perverso, mi stavo divertendo troppo. Georgia era diversa con me, online. Non c’erano finzioni, non c’era la paura di dire qualcosa che il suo capo avrebbe ricordato per sempre, la rete di sicurezza dell’anonimato tesseva un bozzolo protettivo, come faceva per tante persone.

Per quanto fosse facile essere un’altra persona online, lo era altrettanto essere se stessi: senza aspettative né apprensioni che potessero nascondere il capolavoro che eravamo dentro. Conoscere Georgia in entrambe queste realtà, senza che lei sapesse che io sapevo, era una delle esperienze più straordinarie della mia vita. Lei era la stessa, ma anche diversa: onesta, aperta e senza il timore di recriminazioni. Non aveva paura di scrivermi messaggi dicendomi quanto era in ansia. Era semplicemente se stessa e a me piaceva essere il destinatario del doppio delle interazioni. Lei aveva ancora paura che Kline Brooks si stufasse di lei. Io non ne avevo mai abbastanza di lei. In quel modo, noi due ottenevamo il meglio di entrambi i mondi.

Piano piano, ero persino arrivato al punto di mandarle più messaggi come Ruck, solo per potermi godere le sue risposte. Sfidavo i limiti, cercando di farla sentire ancora più a suo agio con me, nonostante sapessi che, nella sua mente, lei stava dividendo il suo affetto tra due uomini.

Era una cosa contorta, ma sapevo che se lei fosse mai riuscita a perdonare me , le sue azioni non sarebbero state assolutamente un problema. L’amore, la lussuria, l’attrazione erano istinti. Semplici, finiti, ma ciononostante anche infinitamente complessi. A lei Ruck piaceva perché lui era un’altra faccia di me . Quindi, per quanto non avesse senso razionalmente, aveva senso a livello di cuore. Mi direte che sono un romantico senza speranza o persino un folle, ma, per me, non c’era altro che importasse.

Misi via il telefono sul cruscotto, avviai la macchina e mi rimisi in strada. Ai due lati della carreggiata sfilavano allineati dei bei palazzi con i mattoni a vista e le scale antincendio in ferro, alberi imponenti proiettavano la loro ombra ogni quindicina di metri. Il crepuscolo avanzava mentre il sole compiva la sua discesa, e già si nascondeva dietro i palazzi nonostante si trovasse ancora sopra l’orizzonte.

E il mio cuore? Beh, batteva tanto forte da balzarmi quasi fuori dal petto.

Georgia era seduta sui gradini del suo palazzo con le braccia incrociate sulle ginocchia e la valigia ai piedi, quando accostai.

I suoi capelli erano spettinati e selvaggi, si arricciavano quanto bastava da farmi pensare che aveva fatto la doccia e lasciato che si asciugassero all’aria. Con addosso dei jeans e una semplice felpa, appena un accenno di trucco in volto, era comunque la creatura più bella che avessi mai visto in tutta la mia vita.

Volevo mettere fine alle preoccupazioni nella sua mente, per cui parcheggiai la macchina, spensi il motore e saltai fuori a fare il giro del veicolo prima ancora che lei potesse alzarsi in piedi.

Adorabile e sorpresa dalla mia fretta, affondò i denti nella carne del labbro e inclinò appena la testa di lato.

Io la guardai studiarmi, c’era un fuoco che le illuminava i magnifici occhi azzurri proprio mentre io la prendevo tra le braccia e sigillavo le sue labbra con le mie.

«Mmh» gemette. Si sciolse contro il mio corpo, avvolse le braccia attorno alle mie spalle. Le leccai la lingua e le labbra, risucchiando il suo sapore mentre la lasciavo lentamente andare.

«Kline» sussurrò, travolta.

I miei occhi si chiusero di volontà propria e la mia fronte sfiorò la sua, respirai il suo aroma finché i polmoni non iniziarono a bruciarmi appena.

«Mi sei mancata».

Lei sorrise e spinse ancora di più il naso contro il mio viso. La sua voce era appena udibile.

«Mi hai vista oggi al lavoro».

Scossi le nostre teste insieme, labbra, naso e fronte rimasero tutto il tempo in contatto. «Non così».

«No» concordò lei, piano. Mi posò un semplice bacio all’angolo della bocca prima di staccarsi. «Hai ragione. Non così».

Scesi sul gradino inferiore per prendere la sua valigia, ma mantenni una mano stretta attorno al suo fianco. «Sei pronta?».

La sua espressione era vivace e serena, si leggeva l’eccitazione in ogni angolo del suo viso, mentre annuiva. Non potevo che rispecchiare la sua sensazione.

«Sali».

Lei alzò un sopracciglio, ma io risposi con un semplice occhiolino e raggiunsi il retro del SUV. Aprii il portabagagli per caricare la sua valigia.

Squadrandola dal retro fino al muso, Georgia sembrò notare per la prima volta l’auto. «È questa la tua macchina?».

Io la guardai, confuso. Lei alzò gli occhi al cielo davanti alla mia espressione, dal momento che avevo appena aperto la macchina in questione e le possibilità che l’avessi rubata erano notevolmente basse.

«È la macchina che ho noleggiato . Non ho una macchina mia».

«Non hai una macchina?». Era sbigottita.

«Piccola». Risi, mordendomi il labbro per chiamare a raccolta la mia pazienza. «Vivo a Manhattan. Per il lavoro ho l’autista, perché non sei l’unica con il dono di arrivare in ritardo. Per tutto il resto, cammino, prendo un taxi o vado in metropolitana. Se devo andare fuori città, allora noleggio una macchina… è semplice».

«Ma questa è una Ford Edge» insistette testarda, continuando a non capire.

«Lo so» dissi scherzando. «Mi sono allargato e ho preso un SUV dal momento che ignoravo quanti bagagli prepari di solito per un week-end». Tirai indietro la testa e chiusi il portabagagli. «Una sola valigia. Dalla prossima volta, prenderò una macchina più piccola».

«Kline ».

Feci il giro del retro, tornai da lei e mi appoggiai con la schiena alla macchina, la presi dai fianchi e me l’attirai contro.

«Piccola. Vedo che fatichi a comprendere, ma ti giuro che avrebbe perfettamente senso se incontrassi Bob».

«Bob? Il marito di Maureen?».

Annuii. «Il solo e unico. Bob Brooks, mio padre è la persona che più di ogni altro ha avuto influenza sulla mia vita».

Sul suo naso apparvero delle rughette, mentre sorrideva, per cui lo baciai. Le spinsi via dal volto i capelli biondi selvaggi e glieli portai dietro la spalla, le sfiorai con un dito la mascella poi abbassai la mano. «Dimenticati di chi pensavi io fossi… chi pensi io debba essere. Stai con me, qui e ora». Le presi la mano e me la premetti sul petto. «Sentimi ».

La sua mano libera scattò alla mia mascella, per una carezza, aveva occhi gli occhi lucidi di fronte alle mie emozioni così ovviamente incasinate.

«Te lo prometto: è questo che sono e se lasci andare l’idea di quello che pensavi di sapere su di me, allora lo capirai. Mi capirai. Ne sono certo ».

Sembravo disperato, perché lo ero. Volevo disperatamente che lei fosse la donna che io la ritenevo capace di essere. Volevo disperatamente che lasciasse andare l’idea del miliardario e stesse semplicemente con Kline .

«Ok». Incollò le labbra alle mie e la punta della sua lingua si spinse brevemente nella mia bocca. In risposta, un formicolio mi corse lungo tutta la spina dorsale. «Lascerò andare ogni idea che avevo». Mi diede un altro piccolo bacio sulle labbra. «Promesso».

«Bene». E la baciai di nuovo, con più trasporto. Un lento gemito mi rimbombò in petto un secondo dopo, quando sentii la sua dolce lingua. Fu difficile, ma con uno sforzo, riuscii a liberare la mia bocca dalla sua. «E poi niente rende umile un uomo quanto pulire la lettiera di Walter. Te lo giuro, quello stronzo lancia fuori la cacca da lì di proposito».

Lei scosse la testa con un sorriso sognante e si morse il labbro per impedirsi di prendersi gioco di me. Non c’era proprio niente da fare: lei sarebbe sempre stata dalla parte di Walter, in questa guerra.

«Ora porta le chiappe dentro la Ford Edge e partiamo. Sono pronto ad averti tutta per me per l’intero week-end».

«Sissignore!». Mi fece il saluto militare per scherzo, prima di allungare la mano verso lo sportello. Io avvolsi un braccio attorno ai suoi fianchi all’ultimo momento, la sollevai da terra e la feci voltare per aria, per mettermi tra lei e la macchina.

Questo la irritò, ma il gelo del suo atteggiamento si sciolse non appena le scoccai un occhiolino e aprii io stesso la portiera. «Che razza di uomo sarei se non ti aprissi la portiera?».

«Del genere di cui sono piene le strade di Manhattan».

Io scossi la testa e sorrisi, aspettando pazientemente che lei entrasse.

«D’accordo. Tu non sei uno di loro».

«Aah» commentai, scherzando. «Finalmente inizi a capire».

Lei afferrò la maniglia interna dello sportello e tirò per chiuderlo mentre replicava: «Entra in macchina, Kline».

Mi sbatté la portiera in faccia e io risi. «Sissignora» mimai con le labbra attraverso il finestrino, poi feci il giro della macchina e salii.

«Hamptons, arriviamo!» urlò lei.

Io scossi la testa, accesi il motore e partii, con un enorme sorriso stampato in volto.

Eravamo in viaggio da un’ora e mezza, o giù di lì, quando lei iniziò ad agitarsi nervosamente. E quando dico nervosamente, non intendo un piccolo scatto, ogni tanto. Intendo nervosa al punto che per qualche istante credetti che stesse per avere un attacco epilettico. «Che succede, Benny?».

«Cosa?». Il suo sguardo scattò verso di me dalla sorpresa.

Io spostai gli occhi dalla strada su di lei e ritorno. «Sembra che tu stia letteralmente cercando di strapparti la pelle di dosso. Che succede?».

«Io devo… Devo dirti una cosa».

Aveva un tono serio, e l’ansia stava iniziando a mangiarsela viva. Non per essere presuntuoso, ma avevo una mezza idea di cosa mi aspettava. L’intimità tra di noi progrediva costantemente, dal momento in cui eravamo entrati in collisione, ci eravamo fusi insieme ed eravamo stati scagliati verso la linea del traguardo in un’unica entità. Ci aspettava un week-end solo io e lei e la rilevanza della sua inesperienza in campo sessuale doveva pesarle sul petto come un dannato macigno, a quel punto.

«Allora dimmela, piccola» la esortai gentilmente, cercando di mantenermi in equilibro sul confine tra un uomo totalmente ignaro di ciò che mi stava per dire e uno che invece lo sapeva benissimo, avendolo sentito ripetere già due volte, ed ero pronto a rispondere in modo pacato e rispettoso. Se non fosse stato per la conversazione senza peli sulla lingua che Ruck aveva avuto con Rose , Kline non avrebbe mai realizzato che Georgie glielo aveva già detto durante il suo delirio causato dal Benadryl.

Tu sei Cristoforo Colombo alla conquista delle terre inesplorate della mia fica!

Dio, quanto avevo riso quando avevo capito quanto brillante era stata.

«Io… sono… tipo… una...» - borbottii incomprensibili - «...vergine!».

Mi morsi il labbro e riflettei sulle sue parole. Sapevo già cosa cercasse di dirmi, ma rompere un po’ il ghiaccio, in senso metaforico , non aveva mai fatto male a nessuno. Quando il ghiaccio si rompeva letteralmente , beh, quello poteva far male a un mucchio di persone.

«Intendi il segno zodiacale? Sei nata ad agosto o settembre?».

«No» sbuffò lei, frustrata in modo adorabile dalla prospettiva di dover ritrovare il coraggio per dirmelo di nuovo . Non gliene facevo una colpa. Era la quarta volta in otto giorni che lo ammetteva a qualcuno . Che io sapessi, almeno.

Si girò sul sedile, e si costrinse ad affrontarmi faccia a faccia. I suoi occhi cercarono i miei e io lo odiai, perché stavo guidando e non potevo concederle pienamente il mio sguardo. Non ne avevo diritto, ma ciò non mi impedì di sentirmi fiero della sua sicurezza.

Quando arrivammo in un tratto di strada dritto e lanciai un’occhiata verso di lei per più di un istante sfuggente, lei parlò. «Sono vergine». Chiara e calma, il suo tono riusciva a essere pratico e vellutato al tempo stesso.

Ho già detto quanto fossi fiero di lei?

Era una cosa da stronzi? Io non volevo che lo fosse. Ero solo contento di vederla dirmelo con sicurezza, fiera di essere se stessa e delle sue scelte invece di sentirsi in bisogno di giustificarle. Io avrei voluto lanciare una specie di grido di vittoria per tutte le donne emancipate, ma pensai potesse risultare sospetto.

Per cui scelsi di dire la sola altra cosa che mi venisse in mente.

«Ok. Forte».

Eloquente, vero?

«Oookkkkayyy» ripeté lei, confusa dalla mia risposta non-risposta. «Forte».

Di sicuro si aspettava le solite domande. Come ci sei riuscita?

Oppure: Sei tipo una super-credente?

Oppure: Ma che diavolo stai aspettando?

In quanto suo amante, avevo diritto di sapere che non aveva mai portato prima un’esperienza sessuale a quel livello, una specie di avvertimento per essere certa che io non mi facessi idee che avrebbero avuto ripercussioni su entrambi. Però, davvero, il resto erano affari suoi e soltanto suoi. Condividere era alle fondamenta di ogni relazione sana, ma lei aveva il diritto di stabilire i termini e le condizioni con cui si sarebbe realizzata tale condivisione.

«Kline?» mi chiamò, strappandomi ai miei pensieri.

«Sì, piccola?».

«Non hai nessuna domanda? O… non so. Sei così silenzioso».

Ero silenzioso. Chiaramente, la cosa aveva avuto il solo effetto di torturarla.

«Scusami, tesoro, ma non è come pensi».

«E cosa penso?» Alzò un sopracciglio e io risi.

«Ok, hai ragione. Non so cosa stai pensando. Ma io sto pensando che sei una cazzo di donna brillante e bellissima e hai la fica più deliziosa che abbia mai assaggiato. Sarei dannatamente fortunato se decidessi di condividerla completamente con me. Ma non lo pretendo, cazzo, e non ho fatto nulla per meritarmelo. Immagino che tutti gli altri coglioni di New York non abbiano fatto niente nemmeno loro per meritarselo e a me non dispiace proprio per niente».

«Hai usato davvero un sacco di parolacce, signor Brooks».

Io risi e mi costrinsi a liberare la tensione dai muscoli delle spalle. «Lo so. Sono andato un po’ su di giri. Solo Thatch, di solito, riesce a farmi usare tante parolacce all’interno di uno stesso pensiero».

La sua risata mi travolse come un’onda.

«Dio. Thatch. Si sentono un sacco di storie su quel tipo, ma l’unico reale scambio che ho avuto con lui è stato quando mi hai chiamata dall’aereo».

«Girano storie su Thatch?» chiesi, perplesso e inorridito al tempo stesso.

«Oh sìììì». Rise. «Ma la maggior parte viene da Dean, per cui prendo con delle pinze molto grandi tutte le sue informazioni». Risi. «… pinze di tipo industriale».

Scossi la testa, sapendo che Dean solitamente ci vedeva giusto, nonostante le sue salaci narrazioni degli eventi.

«Eeeh. Probabilmente puoi limitarti a delle pinze normali. Thatch è un pazzo, e un cazzone. Ma fa ridere. E, ogni tanto, è anche un buon amico».

«È davvero tanto pazzo?» chiese. Insisteva nella convinzione che non potesse essere veramente tanto turbolento quanto lo dipingevano.

Come sempre, quando si parlava di Thatch, gli esempi della sua depravazione non mancavano, ma uno spiccava su tutti.

«Hai presente la cicatrice sul mio addome?» le domandai. «Lato destro, in basso?».

La guardai appena in tempo per vederla annuire, con occhi sapienti. In senso biblico, però. «È assolutamente plausibile che io l’abbia notata». Un sorriso mi si incantò sul viso.

«Beh, la sua presenza è merito di Thatch e di una delle sue stupide idee».

In attesa di una spiegazione, si appoggiò comodamente sul sedile.

«Una notte, durante il primo anno di università, gli venne in mente che fare surf coi nostri materassi sui gradini ghiacciati del cortile potesse essere la prossima attività in voga del campus. Decisi che non volevo partecipare alla promozione dell’idea dopo essermi rotto tre dita, il naso ed essermi infilzato i muscoli dell’addome col ramo di un albero».

«Avresti potuto rifiutarti sin dal principio» suggerì lei, e io alzai le spalle.

«E dove sarebbe stato il divertimento?».

Misi la freccia e girai nel vialetto d’ingresso in ghiaia della casa negli Hamptons. Con Georgia a tenermi compagnia, era stato il tragitto in macchina più breve della mia vita. L’aria salmastra mi si appiccicò alla pelle quando abbassai il finestrino per inserire il codice di accesso del cancello. Le stelle erano più brillanti, ora che ci eravamo lasciati la città alle spalle e quando mi voltai per guardare Georgie, vidi che sporgeva la testa fuori dal finestrino, col volto rivolto verso il cielo, come se l’avesse notato anche lei.

«Georgie?» la chiamai, resistendo all’impulso di sorridere.

«Questo posto è fantastico!» strillò. «Hai visto che caspita di cielo? E quanto è lungo il vialetto?».

Io scossi la testa e risi ancora, avanzando cautamente per permetterle di restare nella sua felicità, mezza fuori e mezza dentro la macchina.

«Potrei averlo notato una volta o due».

Lei tornò a sprofondare nel sedile e si scosse via i capelli dal volto sorridente. «Dovresti farci caso di più. Tipo, molto di più. Ogni week-end o due. Eeee, se per caso volessi un po’ di compagnia» disse, con simulata noncuranza, «probabilmente riuscirei a trovare un buco in agenda per accompagnarti. Voglio dire, sono disposta a controllare».

«Ne prendo nota».

«Santo Dio! Ma guarda che casa! È incantevole!»

Seguii il suo sguardo oltre il parabrezza, sorridendo talmente tanto da iniziare a sentire male alle guance. Il piccolo bungalow non era appariscente, ma la sua grandezza non era trascurabile anche se il rivestimento in legno delle pareti aveva visto giorni migliori. L’interno era grossomodo come l’esterno, ma lo stavo riparando. Lentamente, ma lo stavo riparando. «Sono contento che ti piaccia».

Lei saltellò sul sedile.

«Ma probabilmente non dovresti fartelo piacere troppo. Lo sto sistemando per darlo ai miei genitori e ci rimarrei male se tu ti ci attaccassi troppo».

«Davvero? Lo sistemi tu con le tue mani?». Se fosse stata un cane, immagino che ora le sue orecchie sarebbero schizzate all’insù.

Io sorrisi e annuii. «Davvero. Ho chiamato un elettricista per sistemare i cavi e Thatch e Wes mi hanno aiutato un paio di volte quando c’era bisogno di muscoli, ma per il resto ho fatto quasi tutto da solo».

Lei sbatté una mano aperta sulla mia coscia e la strinse, con espressione piatta.

«Credo di avere appena avuto un orgasmo».

Fermai la macchina e contemporaneamente allungai la mano sul suo collo. Strofinai il mio naso con il suo e sorrisi prima di far incontrare le nostre labbra, solo una volta. «Per favore, Benny. Per l’amore di Dio e di tutto ciò che è sacro, metti in pausa per dopo questo pensiero e anche tutto il resto».

Portate le valigie in casa, e dopo una cena veloce a base di panini che avevo comprato alla gastronomia di Tony e portato con noi, con un bicchiere di vino alla mano Georgia mi chiese un tour della casa.

«Voglio conoscere ogni singolo dettaglio. Com’era quando hai iniziato, cosa stai facendo adesso e come pensi sarà una volta che avrai finito. E non saltare niente, Brooks» disse.

«Oh, ho intenzione di prendermi cura di ogni singolo centimetro» risposi con una provocazione maliziosa.

Lei si limitò a ridere e mi spinse lungo il corridoio in cui stavamo camminando. Aveva visto la cucina completamente rifatta, la prima stanza di cui mi ero occupato. Sapevo che mi avrebbe richiesto una oltraggiosa quantità di lavoro, oltre a essere il cuore della casa. Credenze dipinte di fresco di bianco, banconi in pietra chiara e pavimento di legno scuro: avevo conservato il carattere della casa aggiungendo mille tocchi di modernità e comodità.

«Dio, Kline. Non riesco a staccare gli occhi dall’isola! È davvero enorme».

«Lo so».

Tre metri e mezzo per tre metri e mezzo, era quasi grande abbastanza da essere usata come pista da ballo rialzata. Una parte di me temeva fosse eccessiva, ma il ragionamento che avevo fatto era valido. Maureen e Bob Brooks vivevano la loro vita in cucina, fianco a fianco, oppure uno dei due cucinava mentre l’altro si rilassava al bancone.

Giuro, il novantacinque per cento dei miei ricordi d’infanzia avevano come sfondo una cucina.

«È perfetta, però. Tipo l’epicentro della casa».

Il mio petto si gonfiò con un’inaspettata ondata di orgoglio e soddisfazione. La sua comprensione mi aveva dato una conferma di cui non sapevo nemmeno avessi bisogno. Mi girai velocemente, prendendole i fianchi e premendo forte le sue labbra, sorprese e schiuse, sulle mie.

«Grazie» dissi. «È esattamente quello che volevo che fosse».

Non riuscii quasi a sostenere l’emozione del suo sorriso di risposta.

«Attenta al gradino» la avvertii mentre entravamo in una delle stanze da letto ancora da rinnovare. Il salvamuro in legno originale era l’unica cosa che volessi davvero tenere e per il momento la utilizzavo come un magazzino provvisorio per i materiali più che come stanza da letto.

«Questo posto è fantastico» commentò Georgie, stupita. «Sembra che il tempo si sia fermato qui».

«Lo so. Ha quasi cento anni. Questo mi ha messo molta soggezione quando ho iniziato a fare i lavori».

«Immagino».

«Vieni. Ti mostro velocemente il primo piano e poi guardiamo un film. Sono pronto per le coccole».

«Kline Brooks è un amante delle coccole?».

«Nato e cresciuto così, e fiero di esserlo, piccola».

Lei spinse in fuori le labbra, arricciò il naso e scosse la testa: era l’espressione di Georgia quando cercava di capire qualcosa.

«Quello che dici non è quasi mai quel che mi aspetto che dirai, lo sai?».

Io scrollai le spalle e le accarezzai il collo con il volto prima di portare le labbra contro il suo orecchio.

«Mi sta bene. Fintanto che quello che dico è meglio».

Lei rabbrividì e poi sfiorò la mia guancia con le labbra. Saltellando verso la porta, si guardò da sopra la spalla non appena il suo corpo minuto fu accanto allo stipite. «Ancora non mi hai delusa».