«Finestrino su o giù?» chiese lui, accendendo il motore e ingranando la marcia. Iniziavo ad accettare la realtà. Eravamo di ritorno in città e io sapevo che mi sarebbe mancato essere avvolta nella mia perfetta bolla Kline. Nessuna responsabilità, nessun piano, solo noi, a goderci pigramente il week-end insieme.
«Abbassato, grazie». Volevo sentire l’odore dell’oceano un’ultima volta. Era una bellissima giornata, il sole brillava luminoso ed era coperto solo da un occasionale batuffolo di nuvole bianche che passava davanti al suo bagliore.
Kline abbassò il finestrino e si chinò verso il cruscotto, per recuperare due paia di occhiali da sole da aviatore dal portaoggetti e poi passarmene uno.
«Che gentiluomo». Sorrisi infilandoli e poi mi raccolsi i capelli in uno chignon disordinato.
«Per te» appoggiò la mano sulla mia coscia, stringendola piano, «sempre, piccola».
Mentre Kline guidava lungo la strada principale, la casa negli Hamptons nello specchietto retrovisore si faceva sempre più piccola e un’inaspettata ondata di malinconia mi travolse. Mi sarebbe mancata quella bellissima e rustica casa. Se avessi dovuto creare una bacheca Pinterest della mia casa perfetta, quel posto ci sarebbe andato dannatamente vicino. Una volta finita, scommetto che sarebbe stata anche meglio di quanto avrei mai potuto immaginare.
Ero ancora ammirata dal fatto che Kline avesse comprato una casa per la sua mamma e il suo papà. E non era una casa nuova di zecca, che avrebbe potuto chiaramente permettersi, no, era una casa che stava riempiendo di amore, cura e premura sistemandola con le sue mani.
Tutto ciò che avevo creduto di sapere su di lui si era rivelato sbagliatissimo.
Aveva noleggiato una Ford Edge, per la miseria. Non avevo nulla contro la macchina, sarei stata molto felice di averne una mia con cui andarmene in giro, ma non era il tipo di macchina che si vedeva guidare da gente ricca come lui.
Una Range Rover? Sicuro.
Ma un SUV di media grandezza, economico, che aveva noleggiato ? Diamine, no.
Era così maledettamente umile e pratico, e mi ispirava così tanto affetto. Adoravo ogni nuova sfaccettatura della sua personalità che scoprivo. Kline era una delle persone più intriganti che avessi mai incontrato.
«Io guido, tu pensi alla musica. Ci stai?». Mi passò il suo telefono, con iTunes già aperto.
Io annuii, scorrendo nelle sue playlist fino a scegliere 12 Fingers del gruppo Young the Giants. Era la canzone perfetta per quel tipo di giornata. Sporsi la mano dal finestrino e mi godetti il vento caldo, inusuale in quella stagione, che mi accarezzava la pelle. Dopo essermi sfilata le ballerine, portai i piedi sopra il sedile, e le ginocchia trovarono posto sotto il mio mento. Alla vista dei segnali della chilometrica che superavamo man mano, provai una fitta di tristezza mentre la distanza tra noi e la bellissima spiaggia aumentava.
Guardai Kline con la coda dell’occhio. Canticchiava piano le parole, battendone il ritmo sul volante. Aveva un aspetto proprio delizioso: occhiali da sole, barbetta di due giorni, quella
bocca stupenda con un lieve sorriso impresso sopra. Avrei voluto mangiarmelo con un cucchiaino.
Un groviglio di emozioni mi strinse il petto mentre rivivevo mentalmente il nostro week-end.
Era stato perfetto. Lui era stato perfetto. Kline aveva fatto tutto con calma. Era stato premuroso e cauto, si era assicurato che la mia prima volta fosse bella per me. E lo era stata. Quella notte era stata molto più che bella. Era stata fantastica .
Mi aveva fatta impazzire, nel migliore e più travolgente dei modi. Era difficile da descrivere. Diavolo, era persino difficile trovare le parole senza finire a dire cose che non ero ancora pronta a dire.
Solo… Dio, quest’uomo… Era tutto .
Mi sembrava di essere sul miglior giro sulle montagne russe della mia vita. All’inizio, quando era cominciato tutto tra noi, ero salita piena di esitazioni, con in testa un solo pensiero: A che diavolo sto pensando? È una buona idea?
L’uomo che avevo conosciuto al lavoro era corretto, onesto e amichevole, ma non avevo mai pensato a lui in quel modo. Ma poi improvvisamente era diventato troppo tardi per tirarsi indietro, perché la giostra si stava già muovendo, noi avevamo iniziato a muoverci.
Eravamo saliti in alto, ci eravamo capovolti ed eravamo precipitati follemente, e i miei pensieri avevano subito cambiato rotta. Sopravviverò, ne sono quasi certa, perché quante persone mai cadono dalle montagne russe? Ma non lo sapevo per davvero, perché non mi ero mai interessata alle statistiche riguardanti i parchi di divertimenti.
Cazzo, non mi era mai nemmeno interessato salire sulle montagne russe. Finché non era arrivato Kline.
Ogni avvitamento, ogni curva era emozionanti. Mi godevo ogni snervante minuto e avevo iniziato a lasciarmi andare, ad abbandonarmi e a fidarmi. Avevo iniziato a credere davvero che, per quanto mi facesse paura, mi trovavo esattamente dove dovevo essere.
Poi, c’era stata quella curva “porca troia”, in cui eravamo precipitati a picco e lo stomaco mi era sprofondato fino ai piedi, ma poi mi ero ritrovata a risalire per aria e a ridere e gridare perché ce l’avevo fatta. Ero viva e questa, io e Kline insieme, era la cosa più reale e fantastica della mia vita. Allora la corsa aveva rallentato un po’, i tornanti e le discese erano più che altro degli echi di quelli veramente folli che avevamo superato prima, ma a me stava bene. Ero contenta di tutto. E quando mi ritrovai al punto da cui la mia corsa era partita, mi sentii cambiata: invasa dalla gioia, illuminata e consapevole, senza ombra di dubbio, di trovarmi dove avevo sempre voluto essere e dove dovevo essere.
Questa spiegazione del tutto folle era come lui mi faceva sentire.
Completa. Viva. Fantastica. La stessa, ma in qualche modo, anche molto, molto diversa.
La canzone cambiò, era Smother Me dei The Used. Il testo e il ritmo lento e dolce mi spinsero a guardare nuovamente Kline, ad ammirarlo.
Lui avvertì il mio sguardo, mi rivolse un’occhiata e sorrise. Una mano lasciò il volante, allungandosi a cercare la mia per intrecciare le nostre dita insieme.
Piegai la testa all’indietro sul sedile e apprezzai, godetti, assaporai avidamente quel breve momento. Memorizzai ogni singolo istante, lo misi sotto chiave insieme ai miei altri ricordi di Kline.
Ne avevamo creati insieme molti, in poco tempo, ma erano splendidi ricordi. Ogni singolo ricordo lo era.
Prima ancora di accorgermene, Kline era saltato fuori dal lato del guidatore e aveva aperto la mia portiera. Era stato un viaggio piacevole, e mi era sembrato brevissimo. Lui mi aveva tenuto la mano per tutto il tragitto, il suo pollice che carezzava le mie dita. Non avevamo parlato molto, ci eravamo semplicemente goduti in silenzio la compagnia reciproca.
A volte, non serviva pronunciare parole. A volte, semplicemente godersi la compagnia di qualcuno, semplicemente sentire quel qualcuno al proprio fianco, stare semplicemente assieme a lui, era abbastanza. Inoltre, col mio monologo interiore avevo parlato più che a sufficienza per entrambi.
Dal momento che la maggior parte della giornata era passata tra il fare le valigie e guidare fino in città, avrei passato la notte a casa sua. Avremmo riportato la macchina a noleggio l’indomani, andando al lavoro, e saremmo arrivati in ufficio un po’ più tardi del solito. Quello era senza dubbio un vantaggio dell’uscire con il proprio capo. Se lui ti voleva portare via lontano per un week-end lungo negli Hamptons e ti chiedeva di iniziare a lavorare qualche ora dopo del solito, come si poteva rifiutare?
«Lasciamo le borse» disse, prendendomi la mano. «Le porto su io dopo».
Diede la chiave al valletto e mi condusse per l’atrio fino all’ascensore.
«Hai passato un bel week-end, Benny?» chiese, premendo il pulsante del suo piano.
«Ehm». Alzai le spalle. «È stato ok».
«Solo ok?».
Annuii.
Mi fu addosso come se lui fosse un predatore e io la sua preda e mi intrappolò contro il muro. «Ne sei proprio sicura, piccola?».
«Non è stato poi tanto male?». Alzai lo sguardo nei suoi occhi, cercando di reprimere l’istinto di sorridere.
«Mi sembra proprio che tu stia cercando di provocarmi». Mi baciò un angolo della bocca. «Ho indovinato?».
«Sta funzionando?».
Le sue mani scivolarono nei miei capelli, afferrandone le ciocche. «Dipende. In che tipo di reazione speravi?».
«Una che includesse il levarti i pantaloni».
«Credo si possa fare».
La sua bocca fu su di me, mi baciava con impeto, faceva risuonare l’eco dei miei gemiti nella piccola cabina dell’ascensore.
Le mie mani lo toccavano ovunque: il petto, lo stomaco, poi scivolarono su per la sua schiena. Ero a un passo dal montarlo nella cabina dell’ascensore quando la campanella suonò, avvisandoci che eravamo arrivati al suo piano.
Lui non perse tempo, mi afferrò e si avvolse le mie gambe attorno ai fianchi e nel frattempo mi portò fuori, stringendomi per il sedere.
Eravamo un intreccio confuso di baci e palpeggiamenti mentre arrivavamo alla sua porta. Gli ci vollero tre tentativi prima di riuscire a infilare le chiavi nella serratura e aprirla. Ruzzolammo nel suo appartamento. Lui chiuse la porta con un calcio. La mia schiena era premuta contro il muro, lui continuava a baciarmi come se non ci fosse un domani.
«Kline? Sei tu?».
Ci immobilizzammo, il capo rivolto verso la voce femminile proveniente dal suo salotto.
«Merda» imprecò, sciogliendo il groviglio dei nostri corpi. I miei piedi toccarono il pavimento e Kline mi aggiustò discretamente la maglietta.
Io lo guardai, confusa. Ma che diavolo succedeva?
«Mia mamma» spiegò lui, muovendo solo le labbra, giusto quando lei girava l’angolo.
Fui colta dal panico. Stavo per incontrare sua madre. La mamma di Kline. Lei era qui, nel suo appartamento. E io, due secondi prima, stavo per farmelo dentro l’ascensore.
No, davvero, quali erano le probabilità? Venerdì sera, Kline mi aveva fatto perdere la verginità e oggi stavo per incontrare sua mamma, merda. Mi sembrava di essere in un episodio di Ai confini della realtà .
Respiri profondi, Georgia. Ce la puoi fare. Puoi superare questa cosa senza fare la figura della deficiente.
«Kline, tesoro! Non pensavamo tornassi così presto» esordì lei a mo’ di saluto, andando incontro a suo figlio per dargli un abbraccio. Sua madre era bellissima: capelli scuri tagliati a caschetto, occhi azzurri chiarissimo, sorriso accecante. Iniziavo a capire da chi Kline avesse ereditato il suo bell’aspetto.
«Uhm, ciao, mamma». Si schiarì la gola. Si grattò la guancia. «Tanto per sapere, come sei entrata nel mio appartamento?».
«Ho usato la chiave di riserva che ci hai dato».
«Intendi la mia chiave da usare in caso di emergenza ? Quella che ti avevo dato in caso perdessi la mia o mi chiudessi fuori dall’appartamento?».
«Sì, proprio quella». Lei annuì e sorrise, non cogliendo per niente ciò che lui stava insinuando.
Kline sospirò, passandosi una mano sul volto.
«Kline, ragazzo mio!». Un uomo alto, attraente, si avvicinò a noi. Era di una bellezza distinta, con capelli sale e pepe e occhi castani cerchiati da un paio di occhiali.
Merda! Ma c’è anche suo padre?
«Ciao, papà» lo salutò Kline.
I due uomini si abbracciarono, scambiandosi pacche sulla schiena. L’attenzione di suo padre si rivolse a me. «E chi è questa bellissima signorina?»
«Bob, stavo proprio per chiederlo» aggiunse sua madre, quasi offesa che lui fosse riuscito a farlo per primo. La cosa mi fece spuntare un accenno di sorriso sul volto.
«La mia ragazza». Kline mi circondò le spalle con un braccio, portandomi contro il suo fianco. Se non fossi stata paralizzata dal panico per via dei suoi genitori, forse mi sarei concentrata un poco di più su questa definizione “la sua ragazza”, avrei saltellato di gioia un paio di volte o qualcosa del genere.
«Georgia, questi sono i miei genitori, Bob e Maureen» disse, procedendo alle presentazioni controvoglia. Avevo l’impressione che fosse scocciato dal fatto che la loro visita inaspettata avesse interrotto il nostro momento nell’ascensore.
Io cercai di resistere alla tentazione di urlare qualcosa di imbarazzante e totalmente inappropriato.
«Oh, ciao! Sono Georgia! Vostro figlio mi ha fatta diventare donna questo week-end! Avete fatto davvero un ottimo lavoro con lui! Sa proprio come soddisfare una donna ».
Sì, non vi preoccupate. Riuscii a tenere la mia tendenza alle gaffe sotto controllo.
«È davvero un piacere conoscervi». Strinsi la mano a entrambi. «Kline mi ha parlato moltissimo di voi».
«Oh, è davvero carina, Kline» mormorò Maureen, facendo un occhiolino al figlio.
«Bisogna ammetterlo» aggiunse Bob. «Finalmente ti prendi una pausa e ti godi la vita».
«Grazie al cielo!» concordò sua madre. «Era davvero ora che il nostro bambino si prendesse del tempo per sé. Lavora troppo». Guardò Kline. «Dico sul serio, tesoro. Lavori davvero troppo».
Kline fece per dire qualcosa, ma suo padre parlò prima di lui. «Sì, davvero troppo. Ma stai bene, figliolo. E ho come il presentimento che questa bella signorina qui c’entri qualcosa». Bob annuì verso di me.
Io mi sentivo come in mezzo a una partita di tennis: la mia testa si muoveva avanti e indietro, indietro e avanti, solo per riuscire a seguire la loro conversazione fittissima. Erano davvero adorabili, a dire il vero.
«Allora, cosa vi porta qui, nel mio appartamento, di domenica? ».
«Tuo padre non ha ancora riparato la mia lavatrice. E avevo bisogno di fare un po’ di bucato» spiegò Maureen, lanciando un’occhiataccia a Bob. «Ma non ti preoccupare, già che c’ero, ho lavato anche i tuoi panni. E ho pulito il bagno. Era davvero sporco, Kline Matthew» lo sgridò.
Lui ridacchiò, scuotendo la testa. «Grazie, mamma. Lo apprezzo davvero».
«Beh, mi sembra il minimo. Però, davvero, Kline, tra il bagno e la lettiera, quasi svenivo. Dovresti pensare di prenderti una donna delle pulizie o qualcosa del genere. Non dovresti far vedere a Georgia cose del genere».
L’ultima volta che ero stata lì le condizioni del suo bagno non erano certo state il primo dei miei pensieri.
La stanza da letto? Quella sì. Kline nudo? Mille volte sì. Ma quanto fosse pulito il suo gabinetto? Nah, non mi era interessato molto.
«Solo una delle due cose è anche solo lontanamente colpa mia» brontolò Kline a mezza voce. Era una di quelle tipiche mosse di quando si voleva sbattere in faccia a una persona ciò che si pensava, ma senza farsi davvero sentire da quella persona.
Mi sforzai tantissimo di non ridere.
«Com’erano gli Hamptons?» chiese Bob mentre ci spostavamo nel salotto.
«Fantastici». Kline mi incoraggiò a sedermi sul divano prima di accomodarsi di fianco a me. «Il tempo è stato magnifico».
«Eri mai stata negli Hamptons, Georgia?» chiese Maureen.
«Qualche volta, ma l’ultima era stata da ragazzina. È stato bello trovarsi vicino alla costa. A dire il vero, ogni volta che la vedo mi fa venire voglia di trasferirmi là per sempre».
Kline mi rivolse un ampio sorriso, stringendomi appena la coscia.
«Cos’hai noleggiato per il viaggio, figliolo?» chiese Bob.
«Una Ford Edge».
«Una buona scelta. Non quella che avrei preso io, ma immagino non volessi andare a prendere Georgia in una Focus, eh?» ridacchiò, sorridendo a Kline. «Quanti chilometri fa con un litro?».
«Abbastanza» rispose Kline. «Circa quindici chilometri con un litro».
«Non male».
Suo padre strinse insieme le labbra, annuendo.
La storia della praticità di Kline iniziava ad avere senso.
«Tesoro, hai offerto qualcosa da bere a Georgia?» sussurrò sua madre, abbastanza forte perché la sentissi. «Sono sicura che il viaggio deve averle messo sete».
Prima che potessi rifiutare, Kline mi fece alzare in piedi.
«Andiamo a prenderti qualcosa da bere».
«Io prendo una birra, grazie, figliolo» disse suo padre mentre entravamo in cucina.
«È davvero bella, Bob» sussurrò Maureen a suo marito, elettrizzata. «Pensi che facciano esse-e-esse-esse-o?»
«Gesù, Maureen. Spero che nostro figlio faccia sesso, alla sua età. Ha trentaquattro anni. Se così non fosse, allora ho sbagliato qualcosa nel crescerlo».
«Ssh» lo zittì lei. «Abbassa la voce. E smettila di parlare così».
«Di sicuro sentono ogni cosa che dici, Maur. Non sei mai stata brava a regolare il volume dei pensieri». Suo padre non ci provò nemmeno ad abbassare la voce.
«Ma pensi che lo facciano, Bob?».
«Dal modo in cui sono entrati nell’appartamento, direi che erano a un pelo dal fare esse-e-esse-esse-o».
Se non fosse stato per il fatto che sembrava avessi la loro approvazione, avrei desiderato sprofondare nel pavimento.
Non appena entrammo in cucina, Kline mi sollevò sul bancone e si mise tra le mie gambe. Mi strinse le cosce.
«Mi dispiace per l’imboscata» disse, con uno sguardo pieno di scuse.
«Non è che tu l’avessi pianificata. E comunque, Bob e Maureen mi stanno molto simpatici».
Un sorrisetto sollevato gli apparve sulle labbra. «Fanno così, ma a fin di bene. Mia mamma sa essere una vera ficcanaso, però. Sono sicuro che tu l’abbia capito quando siamo entrati nel mio appartamento e li abbiamo trovati comodi come se fosse casa loro».
Io risi, annuendo. «Non c’è problema. Quando conoscerai i miei genitori, capirai che non hai nulla di cui preoccuparti».
Lui mi baciò sulle labbra, dolcemente. «Non vedo l’ora, baby».
«Pensi che faremo esse-e-esse-esse-o stasera?» lo provocai, alzando allusiva le sopracciglia.
«Dio, stavo pregando che tu non li avessi sentiti» gemette, abbassando il capo sul mio petto.
Io risi, sollevandogli il suo mento per portarlo a incontrare i miei occhi.
«Sono contento che tu trovi la cosa divertente».
«Non vedo l’ora di fare ancora esse-e-esse-esse-o con te» sussurrai.
Il volto di Kline si aprì in un ampio sorriso, che si impossessò della sua bocca perfetta.
«Spero anche che tu userai la tua bocca sulla mia effe-i-ci-a».
«Se ti metto l’u-ci-ci-e-elle-elle-o in bocca, smetterai di fare lo spelling di ogni parola?»
Io annuii, la bocca mi si inclinò in un sorriso malizioso.
Kline mi fece il solletico contro le costole, spingendomi fuori una risata dalle labbra.
«Smettila» mezzo sussurrai e mezzo urlai, contorcendomi via da lui. «Ora, smettila di essere così orribilmente scortese e prendimi qualcosa da bere. Sto morendo di sete». Lui alzò gli occhi al cielo e si girò verso il frigo. Io rimasi sul bancone, dondolando le gambe e guardandolo frugare in cerca di bibite rinfrescanti. «Ehi, pssst» lo chiamai, cercando di attirare la sua attenzione. Da sopra lo sportello del frigo comparvero due occhi azzurri pieni di curiosità. Misi le mani attorno alla bocca, sussurrando: «Hai l’ u-ci-ci-elle-elle-o migliore del mondo».