Agitai il ghiaccio nel bicchiere, osservando i cubetti spostarsi da un lato all’altro e sciogliersi uno contro l’altro. Una gocciolina d’acqua precipitò da un cubetto all’altro finché non sparì in quanto restava del liquido ambrato in fondo al bicchiere.
Avevo iniziato a bere scotch durante il volo per passare il tempo, perché far oscillare nervosamente il ginocchio mi era venuto a noia dopo i primi quindici minuti. Anche Georgia era ancora in volo, essendo partita precisamente due ore e diciassette minuti prima di me, secondo l’Amministrazione dell’Aviazione Federale, ma ogni minuto mi sembrava un’eternità e solo grazie a un enorme sforzo di volontà riuscivo a impedirmi di bombardare il suo cellulare spento con un fiume di messaggi smielati.
La notte passata, le notti passate delle ultime settimane, erano state le migliori della mia vita. Tutto quello per cui avevo lavorato, che mi ero costruito e che mi ero sforzato di mantenere al meglio mi sembrava una goccia nell’oceano della vita. Aver trovato una persona che mi faceva morire dalla voglia di iniziare un’altra giornata e bramare la sua compagnia, qualcuno che mi faceva sentire ancora più me stesso, ecco, questa era una cosa capace di far comprendere a un uomo la verità, l’importanza, di lavorare per vivere piuttosto che vivere per lavorare.
Volevo che le mie giornate iniziassero e finissero con lei e volevo il privilegio di avere ancora più di lei nel frattempo. In parole povere, ero innamorato. Ed era irrevocabilmente chiaro perché non mi fosse mai successo prima.
Nessuna delle altre donne era lei.
«Gemma?» chiesi, in tono consono alla patetica ombra di uomo che ero diventato. Avevo detto a Georgia che l’amavo, ma non era stato abbastanza. Mi serviva un qualche tipo di conferma. Un po’ di pace. Un qualche tipo di promessa di un per sempre.
Gemma mi fece la cortesia di sorridere. «Dovrebbe atterrare di qui a cinque minuti, signore».
Avrei potuto essere il bersaglio di parecchie battute, l’oggetto di parecchi paradossi maschili che annunciavano la fine del mondo, genere “se capita a te, allora...” ma questo non importava a una sola parte di me. Ed era chiaro che mi sentissi così già da gran parte della mattinata.
Mettere fine prima del previsto a una riunione con Wallace Fellers, uno dei miei maggiori investitori abituali e correre dritto in aeroporto solo per inseguire l’aereo di Georgia da una parte all’altra del paese era un comportamento senza precedenti per me.
Il telefono dell’assistente di volo suonò e la mia testa si rialzò di scatto al rumore.
Gemma rise mentre riagganciava e mostrò compassione per la mia misera esistenza, riportandomi immediatamente le notizie del controllo aereo. «Dovrebbe essere atterrata, signore».
Preso il cellulare dal porta bicchiere al mio fianco, scorsi la rubrica fino al suo numero e la chiamai.
Dopo due squilli rispose la sua segreteria e io riagganciai senza lasciare un messaggio.
Sapevo che era da pazzi chiamare qualcuno non appena le ruote del suo aeroplano toccavano terra, farsi ossessionare come un folle dal suo arrivo, nel solo tentativo di sentire la sua voce, al punto da non riuscire ad attendere neanche cinque minuti necessari per una ricerca su Google.
Ma io ero un uomo molto malato, un caso di amore ai primi stadi stava sopraffacendo le mie cellule e si moltiplicava di minuto in minuto. Era aggressivo come la maggior parte delle malattie terminali, colpì un organo dopo l’altro finché non potei che soccombere: soccombere ai gesti folli e disperati che compivo per tornare in contatto con lei e al desiderio di lasciarmi avvolgere dalla sua presenza e non separarmene mai.
Invece, scrissi un messaggio.
Io: Dopo qualche mazzetta e parecchie sgradevoli ostentazioni della mia ricchezza e influenza, sono riuscito a farmi dare dalle autorità l’orario di atterraggio esatto del tuo volo. Chiamami appena puoi.
Dopo parecchi minuti e una seria conversazione da uomo a uomo fatta con me stesso, aggiunsi le parole che avrei dovuto scrivere già nel primo messaggio.
Io: PS. Ti amo.
Quando non rispose immediatamente, seppi di essere a un passo dal precipitare nel proverbiale abisso. Non ce la facevo più. Dovevo fare qualcos’altro, pensare a qualcosa di diverso, se non altro per dare sollievo al mio povero, sovreccitato cuore.
Un pisolino. Era la sola cosa da fare. Determinato, sprofondai nel mio sedile, lo reclinai e costrinsi gli occhi a chiudersi.
Mi immaginai il suo sorriso e i suoi capelli e, mentre mi concentravo intensamente e cedevo al sogno, riuscii persino a sentire l’odore perfetto di Georgia.
Ore dopo, mi risvegliò l’impatto delle ruote sull’asfalto della pista. Gemma sorrise e mi fece un cenno con la mano quando i miei occhi trovarono i suoi e io scattai per raddrizzare il sedile e prendere il cellulare dal porta bicchieri.
Nessun messaggio lampeggiava sullo schermo, per cui lo sbloccai per esserne sicuro, ma per quanto potessi sperare, non avrebbe cambiato la situazione.
Niente. Nessuna chiamata. Nessun messaggio. Nessun messaggio da Rose. Controllai ogni singola app meticolosamente, nella speranza che in qualche buco nero telematico si fosse nascosta la sola cosa che tanto bramavo.
Ma dieci minuti e una leggera sindrome del tunnel carpale dopo, la mia ricerca rimaneva comunque infruttuosa.
Mi ritenevo un uomo intelligente e qualcosa non quadrava.
Ma zittii i miei pensieri grazie alla sola forza di volontà e mi slacciai la cintura mentre ci fermavamo.
Lei aveva una riunione a cui partecipare non appena atterrata e, per quanto mi fossi lamentato e l’avessi pregata di prendere un volo successivo, lei aveva già programmato la sua partenza all’ultimo minuto possibile. Nella giungla di New York, probabilmente arrivare in tempo e tutta intera alla riunione, e con qualche goccia di carisma ancora nel serbatoio, aveva richiesto ogni grammo della sua concentrazione. Non le sarà rimasta molta energia per me.
Mi spostai nella parte anteriore dell’aereo, improvvisando un cambio di strategia e per concentrarmi sull’elemento sorpresa. Ero lì, nella stessa città, libero di darle la caccia finché il sole non fosse sorto, se fosse stato necessario. Lei non sapeva che fossi tornato a casa prima del previsto e mantenere la sorpresa avrebbe solo reso migliore il nostro incontro.
Gesù. Sì . Mi piaceva questa prospettiva.
«Grazie, Gem» dissi, rivolgendole un sorriso sincero mentre lei si posizionava di lato al portellone principale per cedermi il passo.
«È sempre un piacere, signor Brooks».
Avevo sceso appena due gradini quando lei mi chiamò di nuovo. Io sollevai lo sguardo da sopra una spalla.
«È una donna davvero fortunata, signore».
Io scossi la testa e risi.
«Io sono un uomo fortunato» la corressi, battendomi un dito sul petto prima di volare giù per il resto delle scale fin da Frank, in attesa.
Mi teneva aperta la portiera con un sorriso sulle labbra.
«Signor Brooks».
«Ehi, Frank» lo salutai. «Andiamo dritti in ufficio, ok?».
Avrei iniziato dal punto di partenza e avrei battuto tutta la città finché non l’avessi trovata. Non vedevo l’ora di vedere il suo volto.
«Sissignore».
Le luci dell’ufficio erano abbassate tanto da farmi perdere la speranza, ma mi diressi comunque verso il retro. Visto che ero lì, tanto valeva controllare se avevo dei messaggi nel mio ufficio e mettermi una delle camicie di scorta che tenevo lì, prima di dirigermi verso l’appartamento di Georgia e Cassie.
Camminai a passo spedito, ma, considerando la mia voglia di correre, era già una vittoria.
La mia porta era socchiusa, la lampada sulla mia scrivania illuminava di luce soffusa lo spazio intorno. Le sopracciglia mi si aggrottarono di fronte alla scena, ma non rallentai il passo, avanzai a falcate verso la luce che mi chiamava. La superficie della scrivania era sgombra, fatta eccezione per due fogli di carta. Li spostai di lato, avevo fretta di raggiungere il vassoio dove Pam metteva spesso i miei messaggi, quando la fotocopia attirò il mio sguardo.
Sembrava lo screenshot di una conversazione su un cellulare.
Sul margine superiore, alcune brevi frasi scritte in una calligrafia delicata attirarono la mia immediata attenzione.
Ruck,
con tutte le donne al mondo…
proprio la mia migliore amica?
Odio che, anche dopo aver visto questo, io ti ami ancora,
ma non posso stare con una persona che mi mente.
Questo non è una sofferenza piacevole.
Benny
Le parole iniziarono a mescolarsi tra loro mentre cercavo di trovare il senso di quel breve messaggio, ma funghi atomici di terrore mi esplosero dentro e dilagarono, inghiottendomi completamente.
Crudele e in grassetto, lo schermo della casella dei messaggi della app di TapNext mi scherniva.
BottaDiRose (19:00): Sei davvero un bravo ragazzo, ma non posso più continuare a parlare con te. Le cose con l’uomo che sto vedendo si sono fatte serie e scriverti non mi sembra giusto. Mi dispiace. In bocca al lupo per tutto, Ruck.
Sporco_Ruck (06:45): Lo capisco. Ma penso dovremmo incontrarci di persona, noi due da soli. Ti prego, Rose.
«No» mormorai, leggendo le parole in un lampo e rivivendo ogni singolo istante che mi aveva portato a scriverle e che era seguito. «No, no, no, nooooooooooo!» urlai nel silenzio echeggiante.
Ero talmente perso nell’ebbrezza di quell’amore nuovo e totalizzante, che avevo creduto ciecamente e stupidamente che avrei avuto una chance di spiegare tutto quando avrei trovato il momento giusto. Un momento che avrei provato, pianificato, e in un contesto privo di casini. Era questo a cui puntavo, chiedendole di incontrarci di persona. Avevo pensato di riuscire a controllare la situazione: lei avrebbe avuto tempo di reagire e io l’occasione di spiegarmi. Avevo pensato ingenuamente che una rivelazione faccia a faccia avrebbe potuto essere persino un poco idilliaca. Ma, mentre ripercorrevo le ore e i giorni in cui avevo taciuto la cosa, custodito il mio segreto anche dopo aver scoperto la nostra finta relazione a quattro con i nostri amici, mi resi conto che avevo perso la mia possibilità.
A volte il tempo era prezioso, ma poteva anche essere il tuo peggior nemico. Perché, qualunque cosa ci fosse alla base delle mie intenzioni, le bugie non portano mai all’amore. Questo. Quel momento, quello che provavo. Era questo l’inferno.
Passai immediatamente all’azione, prendendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e considerando ogni possibilità che avevo per aggiustare le cose. Io ero un tipo che risolveva i problemi, che trovava soluzioni. Potevo risolvere anche questo.
Potevo, no? Lottai contro la stretta che sentivo in gola, ma aveva una potenza per cui non ero pronto.
Aprii i messaggi e scrissi varie bozze.
Io: Ti prego, lasciami spiegare. So cosa sembra.
Cancella. Scossi la testa e mi strofinai una mano sul volto, sforzandomi di trovare le parole giuste.
Io: Ti amo. Ti prego, lasciami spiegare.
Cancella.
Io: Georgie. Ti prego, parlami. Sapevo che eri tu, lo sapevo da tempo.
Cancella. Aprii l’app di TapNext e digitai un messaggio a Rose.
Sporco_Ruck (18:45): Hai frainteso tutto, Rose. Io so chi sei.
Cancella. Accusarla di aver sbagliato in qualsiasi modo nella situazione attuale probabilmente non era una buona idea.
Sporco_Ruck (18:55): Ricordati dell’uccello gargoyle, Rose. Non tutto è come sembra.
Cancella. Dannazione. Non era nemmeno il momento di fare i simpatici. Niente era abbastanza buono. Non esistevano parole abbastanza potenti da convincere chi non voleva essere convinto. Il mio naso iniziò a prudere e gli occhi a bruciarmi, mentre lo schermo del cellulare si offuscava di fronte al mio sguardo. Avevo mandato tutto a puttane al punto che non sapevo come rimediare, che non sapevo neanche come respirare nella morsa di quel dolore.
Cristo. Se non riuscivo nemmeno a mettere insieme quattro cavolo di parole che sembrassero convincenti a me , lei non mi avrebbe mai creduto. Mai.
«CAAAZZO!» urlai finché il fuoco non mi incendiò la gola. Lanciai il mio inutile cellulare dall’altra parte della stanza e lo guardai finire in mille pezzi.
Iniziai a prendere a pugni la superficie della mia scrivania più e più volte, finché la mano non iniziò a pulsarmi, pompando via un po’ di sangue e dolore dal mio patetico cuore pulsante. Ogni colpo sonoro aumentava il dolore e io pregavo di trovare un qualche modo, un qualunque modo, per farlo fermare prima che questo circolo vizioso sottraesse ai miei organi vitali tanto sangue da mettere fine alla mia vita.
Tempo. Mi serviva tempo. Tempo per pensare, per pianificare, per capire cosa mi sarebbe stato necessario fare.
Presi un respiro profondo e lo buttai fuori, raccolsi il foglio di carta, rivelandone un secondo nascosto al di sotto e immediatamente sentii le gambe cedermi. Mi voltai giusto in tempo, mi accasciai al suolo con la schiena contro la mia scrivania di mogano, stringendo forte il foglio.
La sua lettera di dimissioni, con effetto immediato.
Lei non voleva le mie parole vuote o i miei sguardi imploranti.
Il mio piccolo squalo aveva reciso a morsi ogni canale di comunicazione. Era finita. Era finita in un modo a cui non ero assolutamente preparato. In un modo che non avrei mai nemmeno immaginato. Finita in un modo in cui non sarebbe mai davvero finita, mai . Questo dolore mi avrebbe perseguitato per il resto della mia vita.