Mi concessi ventiquattro ore per sguazzare nella mia tristezza, piangere e leggere su Reddit thread “Il mio ragazzo è uno stronzo figlio di zoccola succhiacazzi e traditore”. Ok, forse non si chiamavano davvero così, ma mi era sempre piaciuto trovare nomi alternativi alle cose. E quando non ero su internet a setacciare i thread, allora ero impegnata in una delle seguenti attività:
1) Piangere. Molto .
2) Accendere e spegnere il cellulare ogni cinque minuti, sperando che Kline avesse tentato di contattarmi. Cosa che non fece, tra l’altro. Nessun messaggio, chiamata, niente, silenzio radio totale.
3) Riguardare le prime quattro stagioni di Una mamma per amica . Se solo si fosse potuto creare un uomo perfetto unendo Logan, Jess e Dean.
4) Mangiare tutto quello che c’era in casa. (La cosa non fece felice Cassie).
5) Fare un migliaio di quiz su BuzzFeed. Ero una Tassorosso, che sarebbe dovuta vivere a San Francisco e preferiva gli NSYNC ai Backstreet Boys. Chris Pratt era la star che avrei dovuto sposare, avrei avuto due figli e la mia conoscenza del cioccolato era molto profonda. Se proprio volevate saperlo.
Quando BuzzFeed mi disse che Le pagine della nostra vita era il libro di Nicholas Spark che meglio descriveva la mia vita sentimentale, gli mostrai entrambi i medi e chiusi il portatile.
Se io ero un uccello, allora Kline Brooks ci si poteva fottere.
Ma sapete qual era la cosa più dura?
L’amavo ancora. Dio, l’amavo. Amavo Kline quanto l’amavo prima di vedere lo screenshot di Cassie. E c’era una voce in fondo alla mia mente che continuava a ripetere che qualcosa non quadrava.
Che Kline non avrebbe mai tradito la mia fiducia in quel modo.
Stupida voce. Era il genere di voce che faceva rimanere le persone assieme a qualcuno che non se lo meritava. Mostrai anche a quella voce entrambi i medi. A dire il vero, ero pronta a mostrare il medio a tutte le stramaledette persone. Sapete, mal comune, mezzo gaudio e tutta quella roba là.
La vita dopo che Kline mi aveva spezzato il cuore, giorno due.
Ero riuscita a costringermi a lasciare il letto, farmi la doccia e parlare al telefono con un reclutatore che collaborava con grandi aziende, per cercare un nuovo lavoro. D’accordo, avevo dormito con addosso una delle magliette di Kline e avevo pianto fino ad addormentarmi, ma almeno mi stavo avviando per la buona strada. E, andrebbe sottolineato, lasciai il cellulare acceso e lo controllai per vedere se avessi messaggi o chiamate perse solo ogni dieci minuti, quel giorno.
Piccoli passi, gente. L’importante è avanzare a piccoli passi.
La vita dopo che Kline mi aveva spezzato il cuore, giorno tre.
Mi svegliai con gli occhi arrossati e impastati, ma anche con parecchi messaggi riguardo a possibili impieghi e richieste di colloqui. Tutto quel casino aveva almeno un risvolto positivo: avevo un curriculum di tutto rispetto e le aziende mi volevano davvero sul libro paga. Feci un colloquio, quel giorno. Un posto nel marketing di una squadra della NFL, popolarmente conosciuta come i New York Mavericks. C’era stato da poco un cambio di gestione e navigavano in pessime acque.
Io non ne sapevo molto di football, ma conoscevo il marketing. Quando per il colloquio mi trovai di fronte Frankie Hart, il direttore generale dei Maverick, mi ripetei e ripetei questo fatto. Non importava quanto conoscessi il gioco, quello che contava era se fossi capace di far pubblicità al loro franchise in modo sia profittevole che creativo.
Gli mostrai le diapositive delle mie campagne di successo che avevo fatto per la Brooks Media. Feci domande riguardo le loro prospettive attuali di marketing e la redditività economica attesa. E poi mostrai a Frankie quanto fossi abile e ingegnosa accennando a possibili cambiamenti che avrebbero aiutato i Mavericks a farsi un buon nome.
Lui amò le mie idee. Terminai il colloquio sentendomi davvero fiera di me stessa. E odiai che la prima persona che avrei voluto chiamare dopo fosse Kline. Odiai che fosse diventato una parte tanto importante della mia vita in così poco tempo. Dopo aver annegato il mio odio e la mia irritazione in tre birre e un piatto di nachos al bar nella strada del mio appartamento, il reclutatore mi chiamò con un’offerta di lavoro. I New York Mavericks volevano assumermi e la loro offerta prevedeva un generoso salario e un piano di investimenti. Ero scioccata da quanto poco fosse servito loro per decidersi. Nella mia esperienza, nessuna azienda di quel calibro rispondeva mai tanto in fretta. Ma forse i franchise di football erano diversi? E chi lo sapeva?
Non persi tempo a cercare di capirlo. Accettai immediatamente l’offerta. Anche se il football, o gli sport in generale non erano il mio forte, ero eccitata per la nuova sfida e, a dire la verità, non potevo permettermi di restare con le mani in mano per mesi e mesi senza uno stipendio. Né i prestiti universitari né il padrone di casa accettavano cambiali.
Quella notte mi infilai nel letto e controllai il cellulare un’ultima volta.
Ancora nessuna risposta da Kline. Mi strinsi lo stomaco sofferente e costrinsi la mia mente agitata ad abbandonarsi al sonno.
Dio, mi mancava tanto da farmi stare male fisicamente.
Quella settimana Cassie mi sorprese tornando a casa dal suo servizio a San Francisco qualche giorno prima del previsto. Per questo lei sarebbe sempre stata una delle persone più importanti della mia vita. Avevo un bisogno disperato di lei, e lei non aveva esitato a riorganizzare i suoi impegni per essere la mia spalla su cui piangere.
Ordinammo cinese, ci ingozzammo di riso al pollo fritto e rangoon al granchio e poltrimmo sul divano guardando una maratona di Friday Night Lights su Netflix. Pensavo che Tim Riggins sarebbe riuscito a risollevarmi l’umore. Mi sbagliavo.
Dopo appena un paio di episodi, ero di nuovo sul punto di crollare. Non appena vidi Lyla Garrity sorridere contro la bocca di Tim Riggins nel mezzo di un bacio, la diga delle mie emozioni fu sul punto di cedere.
«Stai bene?» chiese Cassie mentre io mi precipitavo in bagno.
Riuscii soltanto a scuotere la testa. Non stavo per niente bene. Probabilmente non ero mai stata tanto lontano dallo stare bene in vita mia.
Mi fissai nello specchio del bagno, con le gambe tremanti e le mani strette attorno al lavandino come se potesse in qualche modo darmi la forza di lottare contro le mie patetiche emozioni.
Non piangere.
Lui non si merita le tue lacrime.
Quando questo non ebbe l’effetto sperato, cercai di distrarmi facendo la pipì. Ma, come scoprii velocemente, non forniva alcun tipo di distrazione, perché quindici secondi dopo mi ritrovai semplicemente a piangere e fare la pipì contemporaneamente. Se vi siete già trovate in questa situazione terribilmente tragica, allora saprete anche che è la peggiore sensazione che esiste. Non solo non potevo smettere di fare la pipì, ma non potevo nemmeno trattenere i singhiozzi.
L’unico modo per descrivere la cosa era: patetica.
Cass mi trovò così nel bagno, con le mutande attorno alle caviglie e le lacrime che mi correvano lungo il viso.
«Cosa posso fare per aiutarti?» la sua espressione era segnata dalla preoccupazione.
«Niente» piansi, schiacciandomi contro il naso una palla di carta igienica. Abbassai i gomiti sulle ginocchia nude - sì, ero ancora seduta sulla tazza - e la testa mi crollò tra le mani.
«Gli hai più parlato?». Appoggiò il fianco contro lo stipite.
«No. È passata una settimana e non ha provato a cercarmi. Non ha chiamato. Zero messaggi. Nessun cazzo di codice Morse. Nessun messaggio scritto in cielo o piccioni viaggiatori. Nada. Niente. Zero». Alzai lo sguardo su di lei, appoggiando il mento alle mani. «Sa anche che sto cercando un altro lavoro. Come lo so? Perché quando il reclutatore mi ha chiamato per propormi il lavoro, ha menzionato che il mio ultimo datore di lavoro mi aveva dato un’ottima referenza».
«Ma...» fece per interrompermi, ma io continuai a parlare.
«Quindi, in pratica, Kline Brooks se ne frega. Ha visto la mia lettera di dimissioni. Ha visto lo screenshot e il messaggio che gli ho lasciato. E, indovina un po’, non ha mai cercato di contattarmi. Inoltre, è stato ben contento di dare un’ottima referenza al mio potenziale futuro datore di lavoro. Sto impazzendo, Cass? Voglio dire, avevo perso completamente la testa e pensavo che io e Kline fossimo molto più di quanto non eravamo veramente?».
«No, tesoro» rispose lei. «Vi ho visti insieme ed era lampante quanto ti adorasse».
«E allora perché voleva incontrarsi con te? Perché voleva vedersi di persona con la mia migliore amica?». Strozzai un singhiozzo, premendo altra carta igienica contro i miei occhi. «Ovviamente, senza offesa, Cass, non ho niente contro di te» mormorai.
«Lo so, Georgie. Sul serio, non devi scusarti con me. È tutta la situazione che è incasinata, poco ma sicuro».
Annuii, soffiandomi il naso.
«Che ne dici di alzarti dalla tazza e poi magari cerchiamo qualcos’altro da vedere? Mi sembra evidente che Tim e Lyla sono un po’ troppo per te, al momento».
«Ok» accettai, respirando a singhiozzi.
«Ti lascio un minuto per risistemarti» disse da sopra una spalla, incamminandosi per il corridoio.
Andai al lavandino, mi lavai le mani e il viso. Non avrei passato un’altra notte a inzuppare il cuscino di lacrime. Ormai stavo diventando patetica. Ovviamente, quello che pensavo ci fosse tra me e Kline e quello che lui aveva pensato ci fosse tra noi erano due cose molto differenti.
La voce nella mia mente cercò di farmi ricordare come i suoi occhi azzurri mi avevano guardata la notte in cui mi aveva detto di amarmi: teneri, vulnerabili, che mettevano in mostra il suo cuore nelle loro profondità. Dissi alla voce di andare a farsi fottere. Non era di certo il primo essere umano al mondo a professare il suo amore a qualcuno di cui non gli importava niente. Credetemi, avevo letto le storie su Reddit.
Le persone si facevano cose orribili l’un l’altra. Relazioni altrimenti perfette potevano concludersi con i peggiori degli epiloghi. Non era in questo modo che mi ero immaginata la storia tra me e Kline, ma così andava la vita, no? A volte le cose non procedevano come avevamo pianificato o sperato che facessero. A volte alle persone buone succedevano cose brutte.
A volte non si poteva far altro che stringere i denti e andare avanti.
Solo, odiavo che mi mancasse così tanto.
Mi mancava la sua risata e il suo sorriso e il modo in cui mi stuzzicava.
Mi mancava dormire abbracciata a lui, con la schiena contro il suo petto. Mentre mi asciugavo viso e mani con l’asciugamano, abbassai lo sguardo sui miei pantaloni e notai una gigantesca macchia di unto sulla zona inguinale. Normalmente non ci avrei fatto caso, ma quella notte avevo bisogno di non sentirmi la persona più penosa al mondo.
Mi tolsi i pantaloni della tuta e andai in camera per prendere un paio di pantaloni puliti.
«Ehi, Georgia, che ne dici di The Walking Dead? » chiese Cass dall’altra estremità del corridoio.
«Va bene, perché no?».
Scrollai le spalle. Gli zombie mi sembravano un’ottima scelta, una sicura. Come avrei potuto pensare a Kline guardando esseri umani cannibalizzarsi tra loro?
Cass fece per voltarsi verso il salotto, ma poi si fermò di scatto. «Aspetta un momento… Indossi boxer da uomo?».
Cazzo.
«No» risposi, coprendo la mia biancheria intima. O meglio, la biancheria intima di Kline.
Lei mi lanciò un’occhiata scettica.
«E va bene!» Alzai le mani in aria. «Indosso i boxer di Kline perché sono patetica e mi manca e hanno il suo odore!».
«Hanno il suo odore? ». Soppresse l’istinto di sorridere.
«Non fa ridere!» gemetti.
Lei alzò entrambe le mani. «Non ho mai detto il contrario».
Le indicai la bocca. «Sì, ma altri due secondi e ti saresti rotolata per terra dalle risate».
«Tesoro, mi hai appena detto che indossi i boxer del tuo ex-ragazzo perché ti manca e hanno il suo odore. I suoi boxer . Lo stesso tessuto che gli ha letteralmente avvolto le palle».
«Oh Dio» piagnucolai, mentre il volto mi si contorceva in un’espressione di agonia. «Adesso sì che ho toccato il fondo». Mi appoggiai al muro e la testa mi cadde all’indietro. «Lo desidero tanto disperatamente che sceglierei di odorargli i coglioni piuttosto che non sentire per niente il suo odore».
Cass avanzò verso di me e mi strinse immediatamente forte tra le braccia. «Andrà tutto bene, Georgie. Ti prometto che andrà tutto bene».
Io tirai su con il naso ricacciando indietro le lacrime, appoggiando il mento sulla sua spalla e stringendola forte.
«Vuoi che provi a chiamarlo? Magari non è come pensi? Magari può spiegare tutto?».
«Ne dubito» borbottai. «Altrimenti avrebbe chiamato. Se avesse potuto spiegarsi, allora avrebbe chiamato». Dovevo dire quelle parole tanto a me quanto a lei. Il suo volto rispecchiava perfettamente la mia desolazione.
«Voglio solo dimenticarmi di lui, Cass. Voglio svegliarmi e non dover passare l’intera giornata a sentire la sua mancanza e a desiderare un altro finale per la nostra storia».
«Lo so, tesoro. Lo so. Diventerà più facile, ma ci vorrà del tempo». Passò le dita tra i miei capelli. «Ma sai una cosa? Tu ce la stai mettendo tutta per andare avanti. Ti sei data una mossa e hai trovato un altro lavoro. La maggior parte delle persone sarebbe rimasta a letto a piangersi addosso, ma non tu. Sono davvero fiera di te».
«Grazie di essere tornata a casa prima. Avevo davvero bisogno di te».
«Io ci sarò sempre per te. Anche quando puzzi di palle» mi prese in giro, il sorriso si avvertiva nella sua voce. «Io sarò comunque al tuo fianco».
Io risi e gemetti contemporaneamente. «Dio, ho detto che odorano come lui, lo so, ma non ho nemmeno dato un’annusata di controllo. Voglio dire, di solito Kline è un tipo pulito e ben curato, ma a quanto ne so potrebbero essere i boxer che si è messo dopo un allenamento di rugby».
Una risata silenziosa le scappò dalle labbra. «Perché non vai a farti una bella doccia calda mentre io preparo quei fantastici brownies al cioccolato fondente con l’impasto pronto che abbiamo nella credenza? E poi guardiamo degli esseri umani diventare zombie e mangiarsi tra loro?».
«Sai, ti voglio davvero bene».
«Anche io. Ora vai a lavarti di dosso la puzza di palle sudate e ci vediamo dopo in salotto».