«Durante tutti i tuoi piagnistei e struggimenti per questa tipa, ti sei scordato di menzionare quanto lei sappia incutere paura» mi disse Wes all’orecchio.
Alzai gli occhi al cielo. Aveva dovuto sopportarmi mentre parlavo di lei per una sola maledetta settimana. Tutto qui.
«Paura?» chiesi.
«Una paura fottuta. Non vorrei proprio essere nei tuoi panni».
La speranza sbocciò e fiorì nel mio petto. «Sta venendo qui?».
«Sì, proprio mentre stiamo parlando. Ed. È. Incazzata . Nera».
Sorrisi. Dio, adoravo quando lei si infuriava.
«Quando è uscita dall’ufficio?».
«Oh, circa venti minuti fa» comunicò nel mio orecchio, mentre un pandemonio scoppiava nell’ufficio fuori dalla mia porta. Riuscivo a vedere Dean correre verso il mio ufficio attraverso il vetro, in volto un’espressione di pura gioia, e Thatch mi fece un cenno con la testa dall’altra parte della vetrata proprio mentre Georgia irrompeva dalla porta.
Aveva l’aspetto del paradiso e dell’inferno insieme, e della sola e unica causa del costante dolore nel mio petto degli ultimi giorni, troppi giorni.
Odio, amore e confusione segnavano tutti i lineamenti del suo viso mentre lei, alla mia vista, combatteva contro se stessa.
Io avevo il bisogno disperato di prenderla tra le mie braccia e sentire il calore di lei insinuarsi nel gelo dentro di me, ma sapevo che avevo del lavoro da fare prima di avere anche solo la minima possibilità.
Assunsi un’espressione imperscrutabile e aggirai la scrivania. Mi appoggiai al bordo con tutta la calma di un uomo che non era sul punto di schizzare fuori dalla sua stessa pelle.
«Bene, sei arrivata».
Thatch chiuse la porta dietro di lei, sbattendola, e la mantenne chiusa. Incapace di resistere, lei corse alla porta e mise alla prova l’efficacia dei muscoli di Thatch con tre strattoni bruschi. Lui non si smosse: con una mano teneva il pomello e con quella libera le lanciava saluti scherzosi e un sorriso dalla vetrata.
Lei ringhiò e si girò verso di me, battendo il piede sul pavimento in un modo davvero adorabile, e poi cercò in ogni modo possibile di uccidermi con la forza dello sguardo.
Mi ci vollero tutte le mie forze per non sorridere e lanciai un’occhiata al mio orologio.
Quasi funzionò.
«E, per la prima volta in vita tua, sei in orario».
Lei aggrottò le sopracciglia con aria interrogativa, e non lo fece delicatamente. C’era autentica rabbia lì, imbrigliata nei suoi lineamenti. Era furente e ogni singola parte del suo corpo ci teneva a comunicarmelo.
Io accennai ai brandelli stracciati del contratto, un’altra vittima della sua furia, stretti nella sua mano. «L’incontro delle dieci?». Spiegai con la cadenza di una domanda. «Era tutto spiegato nel contratto».
«Giusto» mi schernì. «Il maledetto contratto. Quale stronzo malato fa qualcosa così da mentalmente instabile? La tua azienda? Tutta la tua cazzo di azienda» urlò, senza freni. «Un pazzo, ecco chi. Hai chiaramente qualche rotella fuori posto. Forse Walter te le ha fregate, ma che cavolo ne so!».
Scosse la testa, i suoi selvaggi capelli castani le ricadevano come una cascata attorno al viso, ondeggiavano, mi attiravano da morire. Non avevo passato che pochi giorni senza di lei e già se li era tinti di nuovo.
Era proprio unica.
«Quello che so» lanciò un’occhiata al suo orologio, «e che sono le nove e cinquantanove, quindi sono in anticipo ».
Mi morsi il labbro e premetti i palmi sopra la scrivania per costringermi a rimanere lì.
I suoi occhi saltarono ai miei non appena udì il mio sussurro spezzato. «Mi dispiace davvero tanto, Benny».
La sua gola sottile si contrasse, lei deglutì con uno sforzo.
«Ho mandato tutto a puttane, lo so» ammisi, facendo sprofondare sempre più un dente nel mio labbro inferiore per tenere sotto controllo il ritmo delle mie parole. Volevo correre, parlare senza sosta come lei, ma sapevo che non mi sarebbe stato d’aiuto.
«Ma ora ti sto implorando di ascoltare. Di guardare. Di considerare tutto».
Lei scosse la testa e strinse le mani a pugno.
«Non devi cambiare idea» le proposi. Ero un uomo disperato che si aggrappava a qualsiasi frammento a cui poteva. «Vorrei lo facessi». Chiusi gli occhi e pregai mentre parlavo. «Dio, Georgie, voglio che tu lo faccia». Quando li riaprii, stanco di sprecare anche la minima opportunità di guardarla, mi assicurai di non sbattere nemmeno le palpebre. «Ma tu invece non devi fare altro che questo. Rimani qui per pochi, miseri minuti. Almeno avrò l’occasione di guardarti, cazzo. E, dopo, sarai libera di andartene».